I briganti del Riff/23. La conquista del Gurugù

23. La conquista del Gurugù

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22. Ancora la strega dei vènti

23.

LA CONQUISTA DEL GURUGÙ


La gitana aveva saputo abbastanza ed accorreva in aiuto dei due studenti, decisa però prima ad affrontare un'altra volta la vecchia strega. Lavorando di staffe, spinse la mula al galoppo ed in cinque minuti giunse dinanzi alla cuba sepolta sotto una valanga di enormi pietroni.

A pochi passi, tutta distesa, con a fianco una bottiglia, giaceva Siza Babà. Non dava più segno di vita.

La disgraziata, chissà come, era riuscita a riprendere la bottiglia che non aveva ancora completamente vuotata, ed aveva fatta l'ultima bevuta, sognando di essere tornata la bella Sonora.

La gitana, furibonda, si era slanciata contro l'ubriacona puntando la rivoltella, ma abbassò subito l'arme.

— Questa donna è morta — disse. — L'aguardiente l'ha uccisa.

Si curvò sulla vecchia carcassa che puzzava d'alcool e le mise una mano sul cuore. Non batteva più.

— Meglio così! — esclamò Zamora. — Mi avrebbe ripugnato ucciderla in questo stato.

Poi si slanciò verso la cuba, gridando a pieni polmoni: — Carminillo!... Pedro!...

La risposta degli studenti fu pronta.

— Sei tu, Zamora?

— Sì, sono io.

— Non sei fuggita con Janko? — chiese Carminillo.

— Janko l'ho ucciso poco fa con due colpi di rivoltella.

— Ha avuto quello che si meritava, quel traditore — disse Pedro. — Sei ben sicura che sia morto? Di quegli sciacalli non c'è da fidarsi.

— È morta anche Siza Babà.

— L'hai uccisa? — chiese Carminillo.

— No, è morta ubriaca — rispose Zamora.

— Puoi liberarci?

— È impossibile, mio señor. Bisognerebbe che io possedessi la forza d'un gigante.

— E ci lascerai morire così, divorati dalle pulci e dalla sete?

— Ah, no, mio señor! Ho una mula e gli spagnoli si avanzano a gran passi alla conquista del Gurugù. Ormai i briganti non oppongono più resistenza e lasciano bruciare i loro duars ed i loro villaggi.

— Che cosa vuoi tentare, mia povera fanciulla? — disse Carminillo.

— Correre incontro alle avanguardie spagnole e condurle quassù — rispose la gitana. — Sopportate per poche ore ancora l'orribile tortura a cui vi ha condannato la Jena del Gurugù. La mula è robusta, e se non galopperà le lacererò i fianchi a colpi di staffa... Mio señor, mi aspetterai?

— Come vedi, non possiamo uscire da questa tomba — disse Carminillo.

— Io ho paura a lasciarvi soli — singhiozzò la giovane.

— No, va', Zamora — gridò Carminillo. — Solamente gli spagnoli potranno liberarci. Pensa che abbiamo ormai trovato il totem che farà di te una regina e che io ti amo.

— Vado, bel figlio di Salamanca — rispose la gitana. — Accada quello che si vuole, io passerò in mezzo alle granate.

— Sii prudente!...

— Lo sarò, mio sposo... Addio, aspettami presto.

Zamora diede un ultimo sguardo a quella che era stata la bella Sonora e che ormai era finita per sempre, piena d'alcool da scoppiare, poi si slanciò sulla mula e lavorò di staffe. La povera bestia, quantunque dovesse essere immensamente stanca, si era messa in corsa, nitrendo sonoramente.

I riffani pareva non opponessero grande resistenza alla colonna d'assalto spagnola che si avanzava lentamente sì, ma implacabilmente, cannoneggiando sempre. Sotto le boscaglie si udivano crepitare, di quando in quando, la fucileria dei banditi, che spaventati dalla distruzione completa dei duars e dei villaggi in muratura, avevano perduta la loro baldanza.

Nondimeno ad un certo momento, duecento cavalieri, guidati dalla Jena del Gurugù, tentarono di piombare sui pezzi e caddero quasi tutti l'uno sull'altro, insieme ai loro animali, sotto vere bordate di mitraglia.

Lo sceicco, che guidava la carica, era stato il primo a cadere per non risollevarsi più. I due studenti erano vendicati.

Raggiunta la linea dei boschi, Zamora aveva rallentata la corsa, per non cadere fra qualche banda di riffani.

Le granate cadevano sugli alberi, schiantandoli di colpo e producendo, nello scoppio, grosse vampate le quali potevano provocare qualche disastroso incendio.

Regolandosi sulla voce del cannone, Zamora continuò a scendere. Dinanzi a lei non vi erano più riffani.

Scoraggiati, erano scappati, rifugiandosi presso i Beni-Fruifur che tenevano ancora i dintorni di Seluan con forze non disprezzabili. Per un'ora e più la valorosa fanciulla continuò a scendere, esposta sempre al pericolo di essere polverizzata da qualche granata, poi si arrestò bruscamente udendo un uomo gridare: — Chi vive?

— España!... — rispose Zamora.

— Avanza e verificheremo. Se ci avrai ingannati ti fucileremo senza Consiglio di guerra.

Due ussari, poi quattro, poi dieci, che servivano di esploratori, uscirono dalle folte macchie e circondarono la fanciulla coi moschetti in pugno.

— Tu non sei riffana — disse il capo del drappello, proiettando i raggi di una lanterna in pieno viso a Zamora.

— No, señor, sono spagnola, e desidero parlare col generale Marina per impedire un grande delitto.

— I riffani ne hanno fatta forse qualche altra di grosse?

— Hanno sepolti vivi, dentro una cuba, due giovani studenti dell'Università di Salamanca, e quei disgraziati lottano già colla morte.

— Che cosa sono venuti a fare quei due studenti sul Gurugù? — chiese il capo del drappello.

— Lo dirò al vostro generale. Conducetemi da lui, vi prego, si tratta di salvare due compatrioti.

Il capo diede ai suoi uomini alcuni ordini, poi disse a Zamora: — Seguimi, bella fanciulla: il generale Marina è più vicino di quello che tu possa supporre. Può resistere ancora la tua mula o vuoi un cavallo?

— Marcia ancora bene questa bestia, — rispose la gitana — e dopo d'aver fatto delle vere galoppate sui fianchi del Gurugù.

— Che ci fossero dei riffani dinanzi a noi si sapeva, ma non avrei mai pensato di trovare anche dei compatrioti!...

Mise il cavallo al piccolo trotto perché la mula potesse seguirlo e attraversò tre grosse compagnie, che stavano imboscate l'una dietro all'altra, pronte a riprendere la marcia.

Le altre si trovavano molto più indietro, per proteggere l'artiglieria dalle cariche furiose dei briganti della montagna.

Dopo dieci minuti l'ussaro fermò il suo cavallo dinanzi a una tenda illuminata e guardata da due sentinelle.

Il generale Marina era ritornato appena allora, dopo d'aver dato le ultime disposizioni per l'attacco e d'aver passato in rassegna tutte le forze di cui disponeva.

L'ussaro, che era un graduato, si fece annunciare, e dopo essere sceso da cavallo entrò sotto la tenda conducendo per mano Zamora.

Fra la gitana ed il generale vi fu un rapido colloquio per spiegare la sua presenza sul Gurugù insieme ai due studenti.

— Il totem!... — esclamò il generale, accarezzandosi la barba già brizzolata. — Ne ho udito parlare sovente. Ammiro il vostro coraggio, bella figliuola, e m'incarico io di mettere in salvo tutte le vostre ricchezze e di liberare quei due disgraziati. Voglio che prima di mezzogiorno la nostra bandiera sventoli orgogliosamente sulla più alta cima della montagna per rispondere alla sortita dei mori da El Hord, avvenuta ieri mattina, e che ci ha costato numerose perdite. Con questi briganti la si finirà... Aspettatemi.

Uscì accompagnato dal suo capitano d'ordinanza, e dieci minuti dopo le trombe squillavano nel campo spagnolo, segnalando l'attacco.

Il colonnello Rivera che era alla testa di quattro compagnie della brigata disciplinare, fu pronto a muoversi, seguito ben presto anche dall'artiglieria e dalle sedici compagnie di fanteria, con mezzo squadrone di ussari.

La presa del Gurugù era ormai stata decisa da parecchi giorni dallo Stato Maggiore spagnolo sicché tutti sapevano già a memoria per quali gole dovevano passare e ciò che dovevano fare nel caso d'una imboscata simile a quella della gola del Gran Lupo di nefasta memoria.

Il generale Marina, sapendo già che Zamora era stata sulla montagna, l'aveva mandata all'avanguardia in mezzo agli ussari, pronti da bravi spagnoli, a morire cavalierescamente pur di non lasciarla cadere nelle mani del nemico.

E l'attacco era cominciato, su tutta la linea, ai primi albori, con grosse scariche di moschetteria che rintronavano sinistramente dentro le valli, senza però avere risposta.

I riffani ormai avevano abbandonata ogni idea di difendere il loro formidabile baluardo che avevano creduto, fino allora assolutamente imprendibile.

E pensare che solamente quattro o cinquecento di quei birbanti, annidati sulla cima della montagna, avrebbero potuto facilmente annientare gli invasori, servendosi delle enormi pietre pronte a riprendere la corsa al minimo urto, tanto erano male equilibrate.

Invece, dopo essersi lasciati per bene cannoneggiare per quarantott'ore, subendo gravissime perdite, intorno al mercato di El-Harbo, dato poi subito alle fiamme, avevano finito col riconoscere la supremazia della razza d'oltremare, e se n'erano andati a gruppi, fuggendo come cervi fra le foreste.

Da quel momento per gli spagnoli non fu più un assalto, bensì un'aspra salita sui fianchi del monte pauroso, quasi senza più consumare una cartuccia.

Alle sette e mezzo del mattino, una grossa avanguardia comandata dal generale Del Real, piantava la bandiera spagnola sulla più alta cima del colosso. Lo smacco del generale Pintos, che fino dal 23 luglio aveva tentato l'espugnazione del formidabile baluardo era vendicato.

Zamora, dopo d'aver avuto un nuovo colloquio col generale Marina, si era avviata verso la cuba, seguita da tutto il mezzo squadrone di ussari, diventato ormai inutile.

Ai primi richiami Pedro e Carminillo furono pronti a rispondere: — Siamo vivi ancora!...

— Siete salvi!... Gli spagnoli hanno conquistato il Gurugù.

Poi gli ussari, balzati di sella e radunati i cavalli, si erano messi alacremente al lavoro per togliere le enormi pietre che i briganti avevano accumulate sulla cuba. Mezz'ora dopo i due disgraziati, mezzi divorati dalle pulci e quasi morenti di sete, lasciavano la loro tomba fra le grida gioconde dei bravi ussari.

Zamora stava per gettarsi al collo di Carminillo, ma il giovanotto la fermò.

— Non avvicinarti: siamo come appestati. Domanda se possiamo avere qualche vestito per sbarazzarci da tutti questi insetti che non ci accordano un minuto di tregua.

Gli ussari non se lo fecero dire due volte. Cinque o sei dei loro compagni erano morti durante una carica contro i riffani che tentavano difendere la boscaglia e li avevano spogliati onde non lasciar nulla in mano al nemico.

Dopo un quarto d'ora i due studenti si erano sbarazzati dei loro abiti, e quando uscirono dalla cuba, si presentarono splendidamente nell'elegante divisa dei cavalleggieri.

— Zamora, — disse Carminillo — È la seconda volta che io devo a te la mia vita.

Il nostro destino è scritto.

— Sì, señor mio, sì, quando vorrai — rispose la gitana.

— E la carogna di Siza Babà dov'è? — chiese Pedro.

— Guardala, señor — rispose Zamora, additando il cadavere della vecchia. — Gli avvoltoi le hanno divorata tutta la pelle del viso senza risparmiare il cuoio capelluto.

Il furibondo chitarrista si appressò alla morta e fece un gesto d'orrore: — Dio!... Com'è brutta!... — esclamò.

— Eppure questa è stata una delle più belle e famose gitane della Spagna — disse Zamora.

— Come si diventa brutti quando s'invecchia!... Io spero di non raggiungere l'età di quella strega... — soggiunse Pedro.

— Signori — disse in quel momento il comandante del mezzo squadrone. — Dal generale Marina abbiamo avuto l'ordine di aiutarvi in tutto quello che potreste aver bisogno. Anche i nostri cavalli sono a vostra disposizione.

— Risaliamo la montagna fino alla tomba — suggerì Carminillo. — Pensiamo ora a mettere in salvo il totem ed il tesoro.

Vi aveva già pensato prima il generale Marina, il quale aveva fatto preparare quattro cassette col legname dell'unico albero che sorgeva sul Gurugù, una quercia di dimensioni assolutamente gigantesche.

Quando Zamora, Carminillo e Pedro raggiunsero la tomba, trovarono il cadavere dell'infame Janko in non migliori condizioni di quello di Siza Babà. Gli avvoltoi ne avevano fatto scempio, rendendolo quasi irriconoscibile. Le trombe suonavano la ritirata. Non vi era tempo da perdere. Il generale Marina però, come continua minaccia, aveva lasciato sul picco le compagnie della brigata disciplinare, coll'ordine di costruire delle opere di difesa per alcune batterie d'artiglieria.

Il tesoro fu lestamente incassato, non senza prelevare prima un grosso smeraldo che fu regalato al comandante del mezzo squadrone.

Alle sei di sera, mentre i soldati della brigata disciplinare intrecciavano danze intorno alla bandiera piantata sull'ultima cima del picco, i sedici battaglioni con una parte dell'artiglieria, scendevano per dare ai mori gli ultimi e decisivi colpi sull'altipiano. Ormai colla presa del Gurugù si ritenevano sicuri di aver conquistato tutto il Riff, e non si erano ingannati.

Grosse masse di nemici, che avevano sgombrato più che in fretta i duars ed i villaggi fiammeggianti, si erano radunati in Nador, posizione strategica di grandissima importanza, poiché era una delle chiavi della montagna maledetta.

Il generale Marina, quantunque sapesse che i mori erano pronti ad una disperata resistenza, il giorno dopo lanciava sei battaglioni e una divisione di cacciatori con tre batterie da montagna e sei batterie Schneider.

Tre squadroni di cavalleria erano incaricati di respingere le cariche vertiginose dei cavalieri mori.

Il combattimento era stato sanguinosissimo, poiché i mori, spinti alla disperazione, si cacciavano furiosamente addosso agli spagnoli, fino quasi sotto i cannoni, a briglia sciolta.

Il generale spagnolo Diego Viscarez, quattro capitani, un tenente e quattordici soldati erano caduti insieme a centottanta feriti. Ma Nador era conquistata.

Il generale Marina, pochi giorni dopo, piombava su El Liemis, piantando le sue batterie sulle alture di Gai el Por-Fin e vi fu una vera strage. Quattrocento riffani rimasero sul campo di battaglia, a fianco dei loro cavalli sventrati dalle granate. Duars e villaggi intanto bruciavano.

Quella terribile lezione, aggiunta alla perdita del Gurugù, segnalava la fine della guerra.

I terribili banditi, che per due secoli avevano fatto continuamente tremare Melilla, si erano finalmente dichiarati vinti, e si arresero al valoroso generale, consegnando tutte le armi.

La Spagna ormai era padrona del Riff e minacciava i confini del Marocco, scorrazzati da altri banditi non meno pericolosi dei riffani.

La pace era appena conclusa, quando i due studenti e la gitana salpavano, a bordo d'una cannoniera carica di feriti, per Malaga, essendo Barcellona ancora in convulsione.

Prima di partire avevano venduto una mezza dozzina di grossi rubini ad un gioielliere ebreo, per avere a loro disposizione dei fondi.

Due giorni dopo, vestiti a nuovo come i valienti, con la gitana che si era procurata uno sfarzoso costume zingaresco, i nostri tre eroi partivano per Siviglia.

Appena giunti, Zamora fece radunare i capi gitani mostrando loro il totem e fu proclamata regina fra grandi feste e soprattutto grandi danze. Una settimana dopo Carminillo spezzava la brocca d'argilla davanti alla fidanzata, in presenza di tutti i capi gitani che non vedevano di malocchio il giovane ingegnere, diventare principe consorte della regina di tutti gli zingari della Spagna e dell'Africa.

Essi abitano a Siviglia, in una graziosa palazzina circondata da palme, e filano l'amore come due colombi.

In quanto a Pedro, egli è ritornato all'Università di Salamanca per riprendere i suoi studi e per spendere le molte migliaia di lire regalategli dalla regina. Si dice però che suoni la chitarra più che non studi.