I Persiani (Eschilo-Alfieri)/Atto IV/Scena prima

Atto Quarto - Scena prima

../ ../Scena seconda IncludiIntestazione 31 luglio 2010 75% Teatro

Eschilo - I Persiani (472 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (XVIII secolo)
Atto Quarto - Scena prima
Atto IV Atto IV - Scena seconda

DARIO, CORO, ATOSSA


Dario

O fida stirpe de’ miei Persi fidi,
Compagni, o voi, de’ miei primi anni; or quale
Travaglio oppressa la cittade? i gemiti
Ode e il picchiar onde squarciato echeggia
Il suolo; e starsi al mio sepolcro appresso
La mia consorte io miro. Orror mi prende
Delle pur tante or qui da lei diffuse
Libazíoni; al par che dei vostri inni,
D’Averno l’ombre ad evocar possenti;
Ma pur li accetto. Ecco, invocato io sorgo;
Ciò permettenti i Sotterranei Numi,
Mal pieghevoli al certo, e ognor più intesi
Ad afferrar che a rilasciar mai l’alme.
Pur, presso quelli io valgo; onde mi affretto
Ver voi; che indugio, a mancamento forse
Poi non mi venga ascritto. Or via, qual nuovo
Fulmin, narrate, in su la Persia piomba?

Coro

O magno Re, nel rimirarti io tremo;
Nel favellarti io tremo; addentro tanto
Cotal mi sta tua veneranda immago.

Dario

Ma pur, poichè dagli Inferi or m’han tratto
I pianti vostri, in brevi detti or via
Stringendo il tutto, a me di tema scevri
Favellate.

Coro

S’io il ver, per lusingarti,
Or ti scemassi, io tremerei: ma tremo
Anco, in narrarti de’ tuoi cari i danni.

Dario

Or, poichè il vostro venerarmi antiquo
Vi toglie il dire; or parli la bennata
Socia senil del letto mio. Deh, cessa
Per ora i pianti ed i lamenti, o fida,
E aperto narra: Umana dote, i guai;
La terra e il mar ne prestano a dovizia
Sempre ai mortali: e tanti più glien danno,
Quant’essi vivon più.

Atossa

Fra quanti han visso
In terra, o tu sovra tutti altri ricco;
Tu invidíato ognor, finchè tra i Persi
Prosperi i rai del Sole almo bevesti;
Tu quasi Iddio fra noi: t’invidio estinto,
Che almen non hai delle sciagure il colmo
Visto con gli occhi tu. Immenso pianto
Io ti acchiudo in un motto. O Dario, è svelta
Fin da radice oggi la Persia.

Dario

Ahi! come?
Pestifer’aura il face? oppur sovversa
Han la città sedizíose scosse?

Atossa

Atene, Atene, annichilato ha il nerbo
Degli eserciti Persi.

Dario

E qual mio figlio
Là spingevali?

Atossa

Serse impetúoso,
Che di guerrieri ha vedovato il piano.

Dario

Ma, si accins’egli con terrestri forze,
O con navali, a impresa insana tanto?

Atossa

Con ambe il fea: duo Duci, e due diverse
Fronti d’armate schiere.

Dario

Ma un sì vasto
Esercito di terra, ove, in qual guisa,
L’onde varcava?

Atossa

Ad ingegnosi ordigni
L’Asia alla Grecia unire ebbe commesso,
Per traghettarvi.

Dario

E in guisa il fea, che chiuso
Ne restasse il gran Bosforo?

Atossa

Sì, il fea;
E il secondava un qualche Iddio.

Dario

Deh, quale!
Poich’a insanir lo trasse.

Atossa

Il tristo evento
Ben del tuo dir fa fede.

Dario

Ma dei vostri
Pianti omai tutte le cagion mi aprite.

Atossa

Rotto il navale esercito, agli estremi
Trasse il terrestre tosto.

Dario

Uccisi dunque
Tutti dall’aste?....

Atossa

In guisa tal, che un solo
Pianto fatta è l’orbata Susa intera.

Dario

Oh Numi! e furo arida polve al vento
Sì smisurate forze?

Atossa

I Battri tutti
Periro; in quale età! vecchio, un non cadde.

Dario

Qual fiore, oimè, pería di prodi!

Atossa

È fama,
Che solo quasi Serse or si rimanga
Deserto....

Dario

Ahi sorte! e non ha scampo, o ajuto?

Atossa

Varcato in fuga, e buon per lui, s’ebbe egli
Il superbo suo ponte.

Dario

E salvo il vide
L’Asia approdar alle sue rive?

Atossa

In questo
Concordan tutti; a salvamento ei giunse.

Dario

Ratto, ahi pur troppo! a compimento ei venne
L’oracolo, cui Giove a fin condurre
Vuol sovra il figlio mio. Preci agli Iddii,
Che in lungo il protraessero, già porsi:
Ma s’uom lo affretta, ah, non lo indugia allora
Per certo il Nume. Ecco, a’ miei fidi è schiuso
Il fonte omai d’ogni sventura: e il nuovo
Ardir del figlio malaccorto or fessi
Cagion de’ guai. Qual servo in ceppi, il sacro
Ellesponto avvincea, giovine audace,
Stabil credendo argine imporre all’urto
Del suo fluír celeste; e in lungo tratto
Su per l’umide vie, fatte omai sode,
Oltrepassar sue immense schiere ei fea.
Ai Numi tutti, al Dio dell’onde, inciampo
Insano farsi un mortal uomo! Al tutto
Fuor di senno il mio figlio. Oimè; pavento
Che delle tante mie dovizie il nerbo
Del rapitor non sia per farsi preda.

Atossa

Perfidi amici alla natía fierezza
Di Serse diero esca novella. Udiva
Dirsi ei da loro: In viva guerra accrebbe
Dario tesori ai figli suoi: ma indarno
Brandirà l’asta entro sua Reggia Serse,
Nulla aggiungendo alla paterna dote.
Sproni eran questi, che adoprar io vidi
Da quella gente ria con lui sì spessi,
Che addosso a Grecia alfin con armi tante
Precipitar lo fero.

Dario

A tal genía
Dunque tant’opra dessi, memoranda,
Terribile, qual mai d’uomini e d’armi
In copia così immensa, mai non ebbe
Vedovata la Persa alta cittade;
Dacchè pur Giove collocovvi il seggio
Del Monarca dell’Asia; alti-possente
Signor di terra sì feconda. Ei n’ebbe,
Medo, primier lo scettro; in salda base
Fitto era poi dal di lui figlio il trono;
Signoreggiato da prudenza ei l’alma.
Terzo era Ciro, assai felice eroe,
Che in pacifica lega Assirj e Medi
Co’ Persi suoi tosto compose; e quindi
Poi soggiogava e Frigj, e Joni, e Lidj:
Ai Numi accetto, a se li avea secondi.
Quarto Monarca indi Cambíse il segue,
Prole sua vera. Ma, disnor del trono
E della patria, Mardo era pur quinto,
Spuria cosa: trafitto ebbelo tosto
Entro la Reggia con lodevol fraude
E amici fidi a sì grand’opra, il prode
Artafréne. Maráfi era poi sesto;
E settimo Artafréne; e l’urna quindi
Davami in sorte il desíato in vero
Regno da me, di poderose squadre
Già avventuroso guidator: ma in tale
Lutto non mai la mia cittade poscia
Precipitata ebb’io. Serse mio figlio,
Ecco che il giovin petto ebro di speme
Giovenile, i miei saggi avvisi al vento
Dava ei pur troppo. O miei compagni antiqui,
Ben vel vedete a certi segni or voi,
Che niun, di quanti questo impero avemmo,
+ Nol ridusse a cotali angustie mai.

Coro

O magno Dario Re, tuoi detti or dunque
Dove a ferir sen vanno? in fior di nuovo
Come tornar potrà la Sorte i Persi?

Dario

Col non più mai contro alla Grecia l’armi
Volger, quand’anco esercito possente
V’aveste al doppio: il suol di Grecia, il suolo
Pe’ figli suoi contro di noi combatte.

Coro

Oh! che di’ tu? per lor combatte?...

Dario

Ostíle
Alla Meda superbia inciampo quivi
La dura fame ell’è.

Coro

Ma ben provvisto
Rimanderemvi esercito trascelto.

Dario

Ma intanto dell’esercito gli avanzi,
Che ancor v’avete in Grecia, ivi disgiunti
Fien dalla speme del tornarsi in salvo.

Coro

Che parli? e in Asia or non approdan essi,
Varcato l’Ellesponto?

Dario

Ah! dell’immenso
Stuolo ritornan pochi; ov’uom pur fede
Presti, qual dessi, al profetar dei Numi.
Compiuto è il più: mè si dimezzan mai
Gli oracoli. Sedotto or da fallace
Lusinga Serse, ad altre imprese ei quivi
Dei rimasti guerrier l’eletta lascia,
Insano. I campi di Beozia, dove
Con le pingui onde sue la irríga Asópo,
Son la fatal prefissa ultima meta,
Che darà tomba all’arroganza e empiezza
Di costoro. Sacríleghi, che ardíro,
Nel porre in Grecia il piè, le statue, l’are,
E i templi stessi dei tremendi Iddii,
Spogliare, incender, sradicare. Eccessi
Inauditi commisero: inaudite
Pene già scontan ei; vieppiù poi sempre
Ne sconteran maggiori: in alta mole
Sovra base profonda si accatastano
Le infelici sanguigne ossa dei Persi
Nel vasto pianto di Platéa; ferale
Messe di Doriche aste; ai pronipoti
Tardo esemplo, che tacito lor grida:
» Figli di morte, rintuzzar sappiate
» L’orgoglio stolto, » Audacia altro non frutta,
Turgido seme, se non danno e pianti.
Tal vista poscia a voi rammenti ognora
E Ateníesi e Greci; nè alcun mai
Dispregiator di sua presente sorte,
Maggior l’ambisca, e in ciò suo impero ei snervi.
Sempre sovrasta alle arroganti imprese,
Giudice e grave punitore, il sommo
Giove. Voi quindi, o antiqui, usi ammonirlo,
Serse a modestia addottrinate omai,
Sì ch’egli rinsavito disimpari
Lo insolentir coi Numi. E tu frattanto,
Canuta madre tenera di Serse,
Riedi alla reggia a provveder di adorne
Vesti corredo, con cui poscia incontro
Al caro figlio uscirne: ch’ei di dosso
Quanti intorno s’avea regali ammanti
Disperato strappavasi. Al suo duolo
Porgerai pure di sermon benigno
Il dolcissimo farmaco: a te sola
Prestar, ben so, potrà l’orecchio. A Dite
Nella caligin sotterranea tetra
Io men ritorno già. Vegliardi, o voi
Di Persia senno, anco fra’ guai godervi
Sappiate intanto d’intelletto i beni,1
Poichè niun ben poscia ai defunti avanza.


Note

  1. D’intelletto i beni. Il Testo dice: Godete, concedendo quotidiane voluttà all’animo, poichè nulla giovano ai morti le ricchezze. Il voler essere troppo scrupolosamente fedele in questo passo, avrebbe potuto facilmente abbassare il coturno sino alla scurrilità del socco.