I Mille/Capitolo XXXII
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CAPITOLO XXXII.
AGLI ARANCI.
Non la siepe che l’orto v’impruna |
Era verso la fine d’agosto, quando il Dittatore della Sicilia, radunate le vittoriose sue legioni nel Faro, disponevasi a passare sul continente italiano.
Il numero di forze dell’esercito meridionale1 poteva ascendere ad una decina di mila uomini, aumentando ogni giorno però per l’arrolamento di meridionali e per i contingenti venuti dalle altre provincie d’Italia, con buona mano di veterani di tante battaglie.
Cotesto accrescimento di forze dei liberi dispiaceva certamente alla Corte Sarda, al Papato ed al padrone Buonaparte, e fra i mezzi impiegati per impedirlo, non mancarono ogni specie d’ostacoli all’imbarco dei volontari nel settentrione.
Era naturale temessero l’invadente bufera nel mezzodì i monarchici ed i suoi satelliti. Chi ha la coda di paglia, teme il fuoco. — Ciò che non era naturale, che non doveva essere, e che mi ripugna scrivendolo, si è l’opposizione a noi fatta dal dottrinarismo, dagli uomini che oggi ancora sono tenuti quali archimandriti della democrazia italiana.
Essi hanno del merito, non glie lo contesto, e se al merito incontestabile avessero potuto aggiungere la capacità di far l’Italia da soli senza la cooperazione d’altri — essi sarebbero senza dubbio i sommi dei sommi. — Comunque, da loro fummo attraversati anche nella spedizione del 60, apparentemente, non colla volontà di nuocere; ma in realtà pregiudicavano.
L’organizzazione di un corpo di volontari in Toscana capitanato da Nicotera nocque, e se quelli stessi volontari si fossero inviati in Sicilia, sarebbe stato assai meglio.
La spedizione al Golfo degli Aranci, ordinata, credo da Bertani, e da lui diretta coll’oggetto d’un’operazione diversiva nello stato pontificio come la prima, fu anche nociva, perchè ritardò l’arrivo di un corpo considerevole di volontari di cui avevamo gran bisogno, e mi obbligò di abbandonare l’esercito sul Faro, imbarcarmi a bordo del Washington, ed espormi al pericolo d’incontrare gl’incrociatori borbonici, per andar a cercare a tramontana della Sardegna il suddetto forte contingente di bellissimi militi che si volevano sottrarre ai miei ordini (per una spedizione inutile, giacchè essi nulla avrebbero fatto a fianco dell’esercito sardo invadente) e forse anche per non contaminarli al contatto degli elementi poco pari dei Mille.
Era dunque verso la fine d’agosto quando pronto l’Esercito Meridionale sulla sponda sicula dello stretto di Messina, si disponeva a traversarlo.
La vigilanza dei legni borbonici a vapore era immensa: le loro batterie sulla costa calabra, ben guernite di cannoni e d’uomini, protette da varii corpi di truppe sparsi nelle campagne circostanti.
Una quantità di piccole barche, raccolte nei diversi porti della Sicilia, erano state dirette a Punta di Faro, per effettuare il passaggio. — Vi furono alcuni tentativi infruttuosi. — In uno però, condotto dai valorosi Missori, Nullo, Musolino, Mario ed altri prodi compagni, si assaltò uno dei forti principali della costa suddetta, e senza il timore d’una guida che s’impaurì alle prime fucilate, i nostri s’impadronivano del forte, e con questo si sarebbe agevolato grandemente il passaggio dell’esercito.
La fortuna però doveva continuare a proteggere la giusta impresa, ed al ritorno del Washington dagli Aranci, il Dittatore s’avviò verso Taormina, ove il generale Sirtori aveva diretto due piroscafi per il Mezzogiorno della Sicilia — il Torino ed il Franklin. — Imbarcossi col generale Bixio la di lui Divisione e felicemente giunsero a Melito sulla costa meridionale della Calabria.
Note
- ↑ Nome che presero i Mille accresciuti di numero.