I Marmi/Parte prima/Ragionamento settimo/Alfonso e il Conte
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Alfonso e il Conte.
Alfonso. Girandolino pur quanto che e’ vogliano, signor conte, ella è cosí e non lo crediate altrimenti; ché mai impareranno il numero dolce e sonoro e che sodisfacci all’udito come fa il nostro fiorentino, se non abitano la nostra cittá e ci pratichino familiarmente tutti noi; anzi, vi dico piú, che se da piccoli non si fanno, come uno è uomo fatto, la cosa è difficilissima; noi diciamo «egli ha fatto la piega».
Conte. Gran cosa che voi siate cosí abondanti di motti e detti che son garbati, i quali hanno un certo buono vivo e del pregno vivacemente, che io mai gli ho potuti accomodare a proposito del mio scrivere, come è stato cotesto del dire «egli ha fatto la piega».
Alfonso. Signor conte, non v’affaticate, ché mai, se gli studiaste mille anni, trovereste il loro luogo, se non l’avete da natura; noi ce ne abbiamo le migliaia, come dire: «Le son cose che non si gettano in pretelle; O vedi a che otta suona nona?; Di cotesto désse il convento!; Tu non ci vai di buone gambe; E’ sono una coppia e un paio; Io mi spicco mal volentieri da bomba; Forse che la non fa le gite a’ mártiri?» e infiniti modi di riprendere, d’amaestrare, da accusare, da difendere, da mordere, da indolcire, da trattenere e da licenziare. E certamente, vi torn’a dire, non vi ci affaticate a imparargli per iscritture o ricorgli in un libro, perché voi farete come colui che non sa disegnare e vuol ritrarre una figura, che, ancóra che egli sappia fare spezzatamente occhio, naso, orecchia, piedi, cosce, braccia, petto e reni, quando mette insieme, non sa appiccare i membri né assegnare i propri luoghi ai muscoli; cosí avverrá a voi del nostro motteggiare.
Conte. È gran cosa veramente! Io voglio dirvi dove io ho posto un de’ vostri motti: scrivendo a un amico mio e sforzandolo che venisse da me, gli venni a dire cosí: «Vieni senza fallo, acciò che san Chimenti ti facci la grazia».
Alfonso. Non v’ho io detto che le membra sono da voi altri male apiccate? Guardate il Macchiavello nella Mandragola se egli lo messe a sesta; ma voi potreste bene apontare i piedi al muro che mai tirereste la cosa appunto.
Conte. Insegnatemi come si fa a far bene.
Alfonso. Aiutatevi con le mani e con i piedi da voi, ché a me non basta l’animo d’aver tanto buono in mano che io ve lo possi insegnare; e perché io mi diffido, non ci andrei mai di buone gambe con esso voi a simile impresa.
Conte. Questa è grande certo, che tuttavia io vi odi garbettare e usare quei modi di dire e non possi imitarvi.
Alfonso. Che fa egli a voi questa cosa? non basta che la lingua vostra sodisfacci a tanto quanto fia bisogno al viver vostro, al viaggio di questa vita? non séte voi inteso alla patria? che volete imparare una lingua che sempre vi bisogni, quando parlate, esser comentatore del vostro testo?
Conte. Voi mi date la baia: io l’ho caro che voi mi persuadiate a durare poca fatica e non contentare i miei giusti desiderii e onorevoli concetti.
Alfonso. Se desiderate imparar la nostra lingua, state con esso noi; di cosa nasce cosa e il tempo la governa; forse che v’addestrerete.
Conte. Imparerò io poi?
Alfonso. Questa è la giuggiola: voi ve n’avvedrete; penso di sí.
Conte. Perché non fate voi altri fiorentini una regola della lingua e non aver lasciato solcar questo mare di Toscana al Bembo e a tanti altri che hanno fatto regole, ché sono stati molti e molti che ne hanno scritte?
Alfonso. Bastava uno che scrivesse bene e non tanti; poi noi altri fiorentini siamo cattive doghe da bótte, perché ci accostiamo mal volentieri a’ vostri umori; voi la tirate a vostro modo e noi a nostro la vogliamo. Voi scrivete «prencipe, volgare, fòsse» e noi «principe, vulgare» e «fusse»; perché cosí è la nostra pronunzia, a non far quel romore, benché i nostri contadini l’usino. Brevemente, egli mi pare quasi impossibile a farne regola, da che tante gramatiche si vanno azzuffando attorno; e il nostro favellare e il nostro scriver fiorentino è nella plebe scorretto e senza regola, ma negli academici e in coloro che sanno egli sta ottimamente. Però, se noi facessimo delle regole, che è che è, voi ci piantareste inanzi una scrittura d’un de’ nostri e v’atterreste alla vostra regola, alla quale giá con l’uso delle stampe da voi altri approvate ha giá posto il tetto: sí che noi scriveremo a modo nostro e favelleremo e voi con le regole e con i vostri termini vi goderete la vostra pronunzia e le scritture dottissime.
Conte. Alla fede, da real cavalieri, che ancor voi sète entrati talvolta nel pecoreccio con quelle vostre ortografie.
Alfonso. Noi facciamo a farcene una per uno: voi aveste il Trissino e noi Neri d’Ortelata. Non sapete voi, signor conte, che ogni estremo è vizioso?
Conte. Un vocabulario di lingua e d’ortografia non sarebbe cattivo.
Alfonso. Gli mancano i libri dotti? La fabrica, Le ricchezze, L’Acarisio, Il Calepino vulgare, e cento altri libri: è ben vero che non sono di noi altri fiorentini.
Conte. Voi altri scrivete pure, come ho veduto nei libri «golpe, volpe; corbo, corvo; lione, leone; lionfante, leofante»; e fate senza H «uomo» e tale scrive «vuovo, ovo» e «huovo».
Alfonso. Il fatto de’ cavagli (per dire a rovescio) non istá nella groppiera: egli c’è chi scrive per dar la baia al mondo, come il Doni, e chi scrive per insegnare, come il Giambullari; altri scrivono per mostrar dottrina, come... non lo vo’ dire, perché molti de’ dotti ancor loro, per ritirarsi appartatamente, fanno delle cose e le lodano che, vedendole fare ad altri, le biasimerebbano. Il Boccaccio usò molte parole una sola volta o due, come colui che non volle lasciarne perdere una che non fosse fiorentina naturale; ma egli le pose tanto a proposito, e tanto a sesta al suo luogo, che in altro luogo che quello non vaglian nulla. Oh che avvertente uomo! Se l’era parola goffa di donna, a donna goffa la pose in bocca e a tempo; se di villano, se di signore, se di plebeo e, brevemente, altri che lui non se ne sa servire che la calzi bene. A me pare che i traduttori de’ libri ci dieno il mattone alla lingua, perché, trovando delle cose latine che non le sanno in lingua nostra esprimere, caricano il basto di vocaboli, detti, numeri e suon di parole, che poco peggio si potrebbon dire. Noi abbiamo un nostro fiorentino gentiluomo che per ispasso s’è posto a tradurre l’istorie d’importanza e si porta tanto mirabilmente che le paiono scritte nella nostra lingua, e colui che l’ha fatte latine par che l’abbi mal tradotte. Bisogna poi guardarsi che le non dieno in correttori testericci, perché non vanno secondo gli scritti, ma fanno a modo loro: però si trova stampato un libro bene e male e una medesima parola in diversi modi. Alle cose d’Aldo v’è messer Paulo, a quelle del Giolito il Dolce, a quelle d’Erasmo1 il Clario: il Domenichi, signore eccellente, dottissimo in utriusque, attendeva al Morgante dello Scotto e al Boiardo. Vedete ora chi in quei tempi si portava meglio.
Conte. Come io torno da Napoli, dove sono per istare un mese, avrò caro d’essere informato d’alcune cose da voi altri signori che le sapete, circa alla lingua; se però vi degnerete insegnarmele.
Alfonso. Anzi non fia cosa che io sappia, o alcun fiorentino, che voi non siate per aver da noi in scrittura o in parole come desiderate. Poi che séte per far sí bel viaggio, voi mi porterete alcune lettere ad alcuni litterati e gentiluomini rari e mirabili, e vi fia caro di pigliar loro amicizia.
Conte. Intendo che vi sono intelletti divini.
Alfonso. Udite: voi troverete lo illustre signor Girolamo Libertino, uomo di grande autoritá, degno e mirabile, che ha un gentilissimo e litterato giovane suo figliuolo, virtuoso e raro, chiamato il signor Ascanio, vescovo d’Avellino.
Conte. Gli ho uditi nominare a Vinegia; e si tiene, si per merito e dignitá del padre come per le naturali virtú che ha in sé che sará un giorno cardinale.
Alfonso. Dio facci succeder tosto tanto bene per onore della virtú e utile de’ virtuosi! Voi ci troverete ancóra il signor marchese d’Oria illustrissimo, che si può mettere nel numero dello splendor de’ cavalieri onorati; e voglio che pigliate amicizia d’un suo giudice, che è mirabile di lettere, di dottrina e di nobiltá, il signor Giovan Paolo Teodoro; veramente voi lo troverete molto eccellente e magnifico.
Conte. Se ben mi ricorda, io ho udito da un gentile e cortese messer Marc’Antonio Passero lodare in molte lettere ancóra cotesti signori.
Alfonso. Lo credo, perché son signori da farsi amare insin dall’Invidia e onorare dal Biasimo; or pensate se un gentiluomo gli debbe celebrare anch’egli in carte! Voglio che in mio nome facciate riverenza al gran don Ferrante Caracciolo, lume della nobiltá; al marchese Della Terza, il signor Giovan Maria d’Azia, persona famosa, illustrissima e degna. Al signor Ferrante Carrafa scriverò a lungo; questo è un signore da tenerne conto, perché è la cortesia del mondo. E vi darò ancor compagnia, d’andare in lá, d’uno spirito gentile, genovese, chiamato il signor Francesco Bissi, per mia fede molto letterato e di nobile ingegno.
Conte. Questa mi sará ben grata, oltre al non esser solo, d’essere accompagnato sí onoratamente.
Alfonso. Che buone faccende v’avete voi, se si può dire?
Conte. Vo per veder Roma e Napoli a posta, e non per altro; poi, inanzi che sia l’inverno, fo pensiero d’andare in Ungheria dal mio fratello monsignore, che è nunzio del papa al re de’ romani, e quivi starmi riposatamente e uscir di questi travagli che ho di qua.
Alfonso. Vi dimandava delle faccende di Napoli, perché ho veduto non so che fagotti.
Conte. Son tre libri che da Vinegia son mandati ad alcuni signori: uno ne va al conte d’Aversa.
Alfonso. Al signor Giovan Vincenzo Belprato debbe andare, uomo reale e splendido!
Conte. Un altro al signor Antonio da Feltro e un altro al signor Giovan Antonio Pisano.
Alfonso. Tutti son mirabili intelletti e virtuosi gentiluomini. Io sono stato lá un tempo ch’io vi prometto che mai praticai la maggior nobiltá, creanza, gentilezza e cortesia.
Conte. La signoria vostra mi dia licenza.
Alfonso. Pigliatela al piacer vostro. A me accade d’andare a metter ordine agli academici di fare alcuni ragionamenti a questi Marmi, i quali sieno utili e piacevoli.
Conte. Andate, ché io mi raccomando.
Alfonso. A rivederci inanzi che vi partiate e a Dio.
- ↑ Valgrisio. [Ed.]