I Marmi/Parte prima/Ragionamento sesto/Carlo Lenzoni e Biagio Caccini
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Carlo Lenzoni e Biagio Caconi.
Carlo. Le nozze che ha fatto messer Alessandro Antinori per il suo virtuoso e generosissimo figliuolo messer Nicolò non hanno avuto paragone, perché sono state fatte con tutti quei buoni ordini e quelle cirimonie che sia stato mai possibil di fare.
Biagio. A me sono elleno parute una cosa rara. Oh che mirabile apparato! che musiche suavi! che convito solenne! So che v’erano una infinitá di gentildonne. Oh bella cosa!
Carlo. Messer Niccolò, giovane onorato, virtuoso, gentile, nobilissimo e cortese non meritava manco onore, anzi piú, perché quello spirito è degno d’un reame.
Biagio. Che belle parole e sí gran diceria ha fatto monsignore nel dar l’anello? Io non ho potuto udire, perché era discosto: voi che eri appresso, di grazia, riditemele a questo fresco.
Carlo. Volentieri. Il vescovo, come persona letterata, ha fatto primamente il suo sermone sopra la sacra scrittura, comendando il matrimonio; e, dato l’anello, si posero a sedere: dove sua signoria reverendissima entrò in un discorso, fuori dell’atto, piacevole e ha raccontato infiniti modi che usavano gli antichi in fare quella cirimonia; perché a quei tempi non si dava anello.
Biagio. O come si faceva?
Carlo. Il nostro Giovan Boccaccio in una sua opera scrive molti modi che eglino avevano, acciò che noi conosciamo che differenza è da etá a etá, da uomini a uomini e da belli a brutti modi di cirimonie.
Biagio. Questo ho caro io d’udire, ché mai piú l’udi’ dire.
Carlo. I cimbri, certi popoli strani, quando erano per tôr donna, la loro cirimonia in cambio della nostra era tale: il marito si mozzava l’ugna e le mandava a donare alla fanciulla che egli voleva tôrre; ella accettava, e tagliavasi le sue e le mandava a donare a lui: e da indi in poi il parentado era bello e fatto.
Biagio. Oh che goffo trovato! Si potrebbe dire a certi che non si mozzano mai l’ugna: tu aspetti di tôr donna; e ancóra si ridurrebbe in proverbio. Seguitate.
Carlo. I teutonici...
Biagio. Che pazzi nomi!
Carlo. ... avevano per usanza, in quello scambio, che il marito radeva alla sposa il capo ed ella lo radeva a lui: cosí, come erano zucconati, si conchiudeva il «sí» fra loro e facecevano casa.
Biagio. E’ potevano andar tutti ad amazzar la gatta: non accadeva barbieri in cotesti paesi, perché ciascuno doveva saper radere. Deh, vedi pazza cosa!
Carlo. Gli armeni si fendevano gli orecchi.
Biagio. Oh, tagliavanseli come si fa a’ mucini?
Carlo. No, diascolo! Lo sposo fendeva l’orecchia diritta alla moglie e lei la manca a lui: cosí si chiamavano poi marito e moglie.
Biagio. Almanco si fossero eglino sfesso le froge del naso come si fa a’ barberi o ai cavalli bolsi!
Carlo. Quegli che si chiamano elamiti, il giovane forava un dito alla giovane e poi gli succiava il sangue ed ella a lui e il simil faceva: e da questo succiare ne derivava che mai piú s’abbandonavano.
Biagio. Deh, vedi che strani modi! È possibile che fussino sí goffi che non sapessin trovare altro modo piú bello e manco fastidioso? Io per me non avrei tolto moglie in cotesti paesi altrimenti.
Carlo. I numidi usavano questa cerimonia, che tutti due gli sposi sputavano in terra e con quello sputo facevano alquanto di fango e poi s’imbrattavano la fronte; e non si faceva poi altro che andarsene al letto.
Biagio. Questa era poca cosa; ma quel tagliarsi le dita e fendersi gli orecchi non mi va.
Carlo. Quei di Dacia avevano una usanza galante, perché non vi bisognava molta manifattura: uno si poneva a canto all’altro stretto stretto e non si discostavano che il marito poneva un nome alla donna e la donna all’uomo; come s’avevano posto il nome, erano congiunti per sempre e con quel nome si chiamavano.
Biagio. Piacemi questa; s’io avessi avuto una innamorata, avrei postoli il suo nome.
Carlo. I popoli di Pannonia passarono il segno, ciò è ebbero piú del buono: lo sposo, quando voleva tôr moglie, le mandava un idolo d’argento a donare e la sposa similmente ne mandava a donare un altro a lui; e questo era come è Panello.
Biagio. La dava cotesta usanza un poco piú nel civile. Èvvene piú? E’ mi son giá venuti a fastidio.
Carlo. Quei di Tracia avevano un modo di far matrimonio da pazzi: e’ pigliavano un ferro sottile e lo infocavano e l’uomo faceva un carattere alla donna e la donna all’uomo; poi era conchiuso il parentado.
Biagio. Umbè, da cavalli, con la marca! oh che gente insensata! So che dovevano avere una grande allegrezza la sera nel convito.
Carlo. Sí, per dio!, a pena si dovevan toccare.
Biagio. Io vi ricordo che egli è fuoco e non potevano toccar sí poco che non cocesse assai. Va in lá, mal tempo!, so che moglie non mi venirebbe a torno: il fuoco gli scotta, nel nome di Dio!
Carlo. La gente di Sicionia (non so come si domandino) mandavano la scarpetta della donzella al giovane ed egli la sua scarpetta a lei: e, dato le scarpette, l’era come dire impalmata. I tarentini, si ponevano a tavola, e, come lo sposo imboccava la donna a cena ed ella imboccava lui, non si faceva altro che dopo cena andare al letto. Gli sciti, in cambio che noi ci diamo la mano, lor si toccavano i piedi insieme, poi i ginocchi, poi il petto, e ultimamente s’abbracciavano: allora si dava ne’ suoni e nelle allegrezze, perché il matrimonio era finito. Questi son quante sorte di maritazzi sua signoria con piavevole, allegro e garbato modo ha raccontato; onde vi s’è riso molte volte.
Biagio. Le son certamente cose piacevoli e nuove da udire, curiose e rare, ma, al mio giudizio, ce ne son poche che abbin garbo. Egli fia bene, poi che abbiamo preso alquanto di fresco, che noi ce n’andiamo a casa.
Carlo. Sará ben fatto, e lasceremo godere questo resto a questa gioventú. Deh, vedete quanti popoli ci sono stasera!
Biagio. Non è gran maraviglia, perché è un caldo ragionevole.