Guerra de' topi e delle rane/Canto primo

Canto primo

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Omero - Guerra de' topi e delle rane (Antichità)
Traduzione dal greco di Giacomo Leopardi (1821-1822)
Canto primo
Guerra de' topi e delle rane Canto secondo




Mentre a novo m’accingo arduo lavoro,
O Muse, voi da l’Eliconie cime
Scendete a me ch’il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia de’ topi e de le rane.



2Su le ginocchia ho le mie carte; or fate
Che nota a ogni mortal sia l’opra mia,
Che salva giunga alla più tarda etate
Per vostro dono, e che di quanto fia
che su le carte a voi sacrate io scriva
La fama sempre e la memoria viva.



3I nati già dal suol vasti giganti
Di que’ topi imitò la razza audace:
Di nobil foco accesi, ira spiranti
Vennero al campo; e se non è mendace
Il grido ch’oggi ancor va per la terra,
Questo l’origin fu di quella guerra.



4Un topo un dì, fra’ topi il più leggiadro,
Venne d’un lago a la fangosa sponda:
Campato allor d’un gatto astuto e ladro,
Acchetava il timor con la fresch’onda:
Mentre beveva, un garrulo ranocchio
Dal pigro stagno a lui rivolse l’occhio.



5Se gli fece vicino e a dirgli prese:
"A che venisti e d’onde o forestiero?
Di che gente sei tu, di che paese?
Che famiglia è la tua? narrami il vero;
Ché se da ben conoscerotti e umano,
Valicar ti farò questo pantano.



6Io guida ti sarò, meco verrai
A le mie terre ed al palazzo mio;
Quivi ospitali e ricchi doni avrai,
Ché Gonfiagote il principe son io;
Ho ne lo stagno autorità sovrana,
E m’obbedisce e venera ogni rana.



7La Donna già mi partoria de l’acque
Che, per amor, col mio gran padre Limo
Un giorno in riva a l’Eridan si giacque:
Ma vago sei tu pur: s’io bene estimo,
Qualche rara virtude in te si cela.
Schietto ragiona, e l’esser tuo mi svela."



8"Amico," disse il topo, "e che mai brami?
Non è Dio che m’ignori, augello o uomo;
E tu dunque non sai come mi chiami?
Or bene, Rubabriciole io mi nomo;
Il mio buon padre Rodipan s’appella,
Topo di fino pel, d’anima bella.



9Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato re Mangiaprosciutti.
Con gioia universal de la famiglia
Mi partorì dentro una buca, e tutti
I più squisiti cibi, e noci e fichi
Furo il mio pasto a que’ bei giorni antichi.



10Ma come vuoi che amico tuo diventi,
Se di noi sì diversa è la natura?
Tu di sguazzar ne l’acqua ti contenti;
Ogni miglior vivanda è mia pastura;
Di quanto mangia l’uom gustare ho in uso,
E non è parte ov’io non ficchi il muso.



11Rodo il più bianco pane e il meglio cotto,
Che dal suo cesto la mia fame invita,
Buoni bocconi di focaccia inghiotto
Di granella di sesamo condita,
E fette di prosciutto e fegatelli
Con bianca veste ingrassanmi i budelli.



12Non si tosto è premuto il dolce latte,
Ch’assaggio il cacio fabbricato appena;
Frugo cucine e visito pignatte
E quanto a l’uomo apprestasi da cena:
È mio qualunque cibo inzuccherato,
Che Giove stesso invidia al mio palato.



13Non pavento di Marte il fiero aspetto,
E se pugnar si dee non fuggo o tremo.
De l’uomo anco talor balzo nel letto,
De l’uom ch’è sì membruto, e pur nol temo;
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir, né se n’avvede.



14Due cose io temo; lo sparvier maligno
E il gatto ch’è per noi sempre in agguato.
S’avvien che il topo cada in quell’ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato;
Ma più che mai del gatto abbiam paura:
Arte non val con lui, non val fessura.



15Non mangio ravanelli o zucche o biete;
Questi cibi non fan per lo mio dente.
E pur ne l’acqua voi null’altro avete:
Ben volentieri ve ne fo presente."
Rise la rana e disse: "Hai molta boria,
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.



16Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E ne gli stagni loro e fuor de l’onde.
Ciascun di noi sopra le rive erbose
Scherza a suo grado, o nel pantan s’asconde,
Perch’a la razza mia dal ciel fu dato
Notar ne l’acqua e saltellar nel prato.



17Saper vuoi se ’l notar piaccia o non piaccia?
Montami su la schiena: abbi giudizio,
Sta saldo, e al collo gettami le braccia,
Che non t’abbi a cadere in precipizio:
Così verrai per quest’ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia."



18Così dicendo gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò che via sen corse,
E sopra il tergo seco trasportollo.
Ridea da prima il topo, malaccorto,
Che si vedeva ancor vicino al porto.



19Ma poi che in mezzo del pantan trovossi
E che la ripa omai vide lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi,
Forte co’ piè stringevasi a la rana,
Piangendo si dolea, svelleva i crini,
Il suo fallo accusava ed i destini.



20Voti a Giove facea, pregava il cielo
Che soccorso gli desse in quell’estremo,
Sudava tutto, e ne gocciava il pelo;
Stese la coda in acqua, e, come un remo,
Dietro se la traea, girando l’occhio
Ora alla riva opposta ora al ranocchio.



21Pallido alfin gridò: "Che reo cammino,
Che strada è questa mai! quando a la meta,
Deh quando arriverem? Quel bue divino
Così non conduceva Europa in Creta
Portandola per mar sopra la schiena,
Com’ora a casa sua questi mi mena."



22Dicea, quand’ecco fuor de la sua tana
Con alto collo un serpe esce a fior d’onda:
Il topo inorridì, gelò la rana;
Ma questa giù ne l’acqua si profonda,
Fugge il periglio, e il topo sventurato
Lascia al talento de l’avverso fato.



23Disteso ondeggia, e vòlto sottosopra
Il meschinel teneramente stride;
Col corpo e co le zampe invan s’adopra
Di sostenersi a galla: or quando vide
Ch’era già molle, e che il suo proprio pondo
Del lago già lo trascinava al fondo,



24Co’ calci la mortale onda spingendo,
Disse con fioca voce: "Alfin sei pago,
Barbaro Gonfiagote. Intendo, intendo
I tradimenti tuoi: su questo lago
Mi traesti per vincermi ne i flutti,
Ché vano era assalirmi a piedi asciutti.



25Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m’hai
Qua condotto a morir per nera invidia:
Ma da gli Dei giusta mercede avrai;
I topi puniran la tua perfidia;
Veggio le schiere, veggio l’armi e l’ira;
Vendicato sarò." Sì dice, e spira.