Gli ultimi filibustieri/Capitolo XI - Sul continente

Capitolo XI - Sul continente

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Capitolo X - All’arrembaggio del galeone Capitolo XII - In cerca di imboscate

Capitolo XI
Sul continente


L’aver raggiunto il continente e l’aver sorpreso il galeone erano due fatti che avrebbero dovuto incoraggiare subito i filibustieri a rimettersi risolutamente in marcia.

Invece ebbero ancora un'ultima esitazione e, prima d’inoltrarsi, mandarono settanta dei loro compagni ad esplorare i dintorni ed a raccogliere informazioni sulla via da tenersi, poiché la ignoravano assolutamente.

Mentre i rimasti si trinceravano fortemente nel villaggio, armandolo di tutti i cannoni che portava il galeone, il drappello di esploratori si mise senz’altro in marcia, risoluto a fare dei prigionieri perché potessero fornire delle indicazioni.

Camminarono costoro finché ebbero forza, attraversando montagne e foreste, ma avendo per caso udito che un corpo di seimila spagnuoli si preparava ad opporsi alla loro avanzata, stimarono opportuno non impegnarsi, ed avendo già raccolte sufficienti informazioni, s’incamminarono nuovamente verso la costa.

Avevano lasciati però indietro diciotto compagni, ai quali avevano dato l’incarico di raccogliere delle provviste.

Invece di scoprire campi coltivati o villaggi da saccheggiare, s’imbatterono in due spagnuoli a cavallo e senz’altro li fecero prigionieri.

Per bocca di quei malcapitati seppero che a breve distanza si trovava la piccola città di Chiloteca, ove oltre un gran numero di negri, di mulatti e d’indiani, abitavano pure quattrocento spagnuoli.

La piú elementare prudenza avrebbe dovuto consigliare a quel manipolo di disperati di battere prontamente in ritirata e di raggiungere i compagni.

L’idea di mettere le mani su una città probabilmente ricca, fu piú forte della prudenza. Alle porte nessuno vegliava poiché nessuno aveva mai della prudenza e, incredibile a dirsi, quei diciotto decisero senz’altro sorprendere gli abitanti.

Era giorno di mercato e tutta la gente si era raccolta sulla piazza non avendo udito parlare fino allora di filibustieri. I diciotto uomini dunque irrompono a corsa disperata attraverso le vie delle città, urlando ferocemente per farsi credere in maggior numero e sparando colpi di fucile a casaccio, per terrorizzare prontamente la popolazione.

Quell’irruzione improvvisa, la vista di quegli uomini bruni, barbuti e stracciati ed i colpi di fuoco che si succedono, mettono lo scompiglio dappertutto.

Negri, mulatti, indiani, spagnuoli, fuggono all’impazzata, gettando all’aria i banchi di mercato.

I filibustieri ne approfittano subito. S’impadroniscono di parecchi cavalli carichi di provviste e, per assicurarsi la ritirata, prendono i primi cittadini che capitano loro fra le mani e se la svignano fra un grandinare di palle.1

Gli spagnuoli, accortisi d’aver da fare con un pugno di uomini, erano ridiscesi nelle vie per dare battaglia e per liberare il loro governatore che per caso era stato fatto prigioniero, ma la riscossa giungeva ormai troppo tardi.

I filibustieri lanciano i cavalli ventre a terra e raggiungono i loro compagni che si ripiegavano già verso la costa.

La cattura del governatore di Chiloteca fu pei filibustieri preziosissima, poiché con minacce di morte riuscirono ad avere altre informazioni sulla via che dovevano tenere, ed anche a sapere dove gli spagnuoli si preparavano ad attenderli, in grossi corpi.

Avendo pure appreso che a Caldeira si trovava ancorata la grande galea di Panama per spiare le loro mosse e che nel porto di Ralejo si trovava un’altra nave armata di trenta cannoni, i filibustieri, che temevano di dover essere sorpresi anche alle spalle, decisero subito di abbandonare per sempre le coste del Pacifico.

Cacciati in acqua i cannoni del galeone, resa la libertà all’equipaggio per non ingombrarsi di prigionieri, cinque giorni dopo volgevano risolutamente le spalle a quel mare, ansiosi di rivedere l’altro.

Il paese che dovevano attraversare era quella porzione dell’America che abbraccia la provincia di Guatemala, avente a settentrione la costa d’Honduras ed a levante il capo Gracias de Dios, paese ben popolato, con città numerose e fortemente guarnite.

La loro partenza per l’interno era stata subito avvertita da numerose spie che gli spagnuoli tenevano lungo le coste, quindi quei disperati dovevano aspettarsi ben presto dei furiosi combattimenti.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco divisero i loro uomini in quattro compagnie, affidando alla piú forte la sorveglianza della contessa di Ventimiglia, e si misero in marcia attraverso le grandi foreste dell’interno, formate da alberi antichi quanto il mondo.

Il primo giorno tutto va bene e perfino il guascone non trova di che lamentarsi, quantunque non avesse avuto occasione di esercitare i suoi muscoli e la sua draghinassa.

Al secondo cominciano le difficoltà. Gli abitanti hanno rotto le strade e trasportati lontano, al sicuro, tutti i loro viveri.

I villaggi indiani, che avrebbero potuto servire d’asilo ai filibustieri, sono tutti in fiamme. Il deserto si fa intorno a loro, poiché anche i campi, per ordine dei governanti, vengono inesorabilmente distrutti onde affamare quell’orda di disperati e costringerla a tornare donde è venuta.

Colonne di fumo si abbattono di quando in quando sui disgraziati, minacciando di soffocarli, ed in mezzo alle selve sibilano le micidiali frecce degli indiani senza poter sapere da quale parte provengano.

Don Barrejo cominciava a trovare che le cose non andavano piú troppo bene, e che le frontiere del Darien non erano cosí facili a raggiungersi come aveva sperato dapprima.

— Compare, — disse a Mendoza, il quale marciava all’avanguardia con una ventina di cavalieri. — Io vorrei sapere come finirà questa faccenda. Si direbbe che gli spagnuoli nascono come i funghi, dinanzi a noi.

— Credevi di fare dunque una passeggiata trionfale? — rispose Mendoza. — Certo che si stava meglio alla taverna d’El Moro, colla bella castigliana.

— Tu mi burli.

— Niente affatto, don Barrejo.

— Io non ho ancora nominata la mia taverna e nemmeno mia moglie, tonnerre!...

— Allora tira avanti finché saremo giunti alle frontiere del Darien.

— Che non saranno vicine, m’immagino.

— Mah!... Chi lo sa? Nemmeno Raveneau de Lussan potrebbe dirtelo, tuttavia sono sicuro che finiremo per giungervi e forse prima del marchese di Montelimar.

— A proposito, che cosa è avvenuto di quel caro gentiluomo?

— Si dice che abbia lasciato Panama, per correre anche lui verso il Darien. Non so però come rimarrà quando apprenderà che la señorita è ritornata fra le nostre mani.

— Io al suo posto tornerei subito a Panama e lascerei in pace il tesoro del Grande Cacico e anche la pentola dove è stato cucinato l’Olonese.

— Io ti dico invece che ci darà da fare non poco e che, prima di giungere al Darien, ne vedremo delle belle.

— Finora però non ho veduto che delle strade rotte e molto fumo, che mi fa tossire orribilmente, — rispose il guascone.

— Verrà anche il piombo, compare, e forse ti lamenterai allora per la sua abbondanza.

— Storie!... Tutti scappano dinanzi a noi, come se gli spagnuoli fossero diventati, da un momento all’altro, dei conigli.

«Vedrai che giungeremo al Darien pieni di fame e senza aver data nemmeno una piattonata.»

Per otto giorni infatti il guascone ebbe ragione, poiché gli spagnuoli, sia che non si sentissero ancora in forze bastanti per affrontare quei terribili filibustieri, temuti come esseri indiavolati, sia che aspettassero qualche buona occasione, non si fecero vivi, sicché la colonna poté inoltrarsi abbastanza tranquillamente, quantunque sempre esposta al pericolo di cadere fra le fiamme, poiché piantagioni, villaggi e perfino boschi, non cessavano di ardere davanti a loro.

Il nono giorno si erano impegnati in una foltissima foresta, incassata fra due alte montagne, quando delle scariche micidialissime partirono da tutte le parti, decimando di colpo l’avanguardia.

Trecento spagnuoli, come seppero di poi, armati di buonissimi archibugi, stesi ventre a terra sotto le macchie, avevano tesa loro un imboscata nei dintorni di Tusignala.

I filibustieri, che ignorano quali forze hanno dinanzi, restano titubanti a slanciarsi sotto quella cupa foresta che continua a risuonare di schioppettate mortali.

Finalmente comprendono che una sosta piú lunga può perderli, e desiderosi anche di far conoscere a quei nuovi nemici il loro straordinario valore, si scagliano innanzi.

Una delle quattro compagnie di Raveneau, guidata da Buttafuoco, occorre per appoggiarli vigorosamente.

La battaglia non dura che pochi minuti, poiché gli spagnuoli sapevano già la terribile fama che godevano quegli uomini formidabili.

Vistisi scoperti, si salvarono piú che in fretta sui pendii delle montagne, da dove continuarono però a tribolare le quattro compagnie, che si avanzano rapidamente per uscire da quella strettoia che per poco non era riuscita loro fatale.

Solo alla notte quello scambio di archibugiate cessò. Si era alzata una foltissima nebbia assai fredda, la quale si era abbattuta sulla foresta come un lenzuolo funebre, avvolgendo i grandi alberi.

I filibustieri, che avevano subíte non poche perdite, si accampano alla rinfusa, guardandosi bene dall’accendere i fuochi per non attirare l’attenzione dei nemici, forse sempre vigilanti.

Il guascone e Mendoza, si sono accovacciati sotto un cespuglio i cui rami stillano continuamente grosse gocce che danno, specialmente al primo, una grande noia.

Si sono rovinati i denti intorno ad un pezzo di tasajo, carne seccata al sole, senza riuscire a calmarsi i morsi della fame.

— Compare, — disse il basco, che stava consumando la sua ultima carica di tabacco. — Sei d’umore nero questa sera. Eppure abbiamo combattuto e ne abbiamo anche preso del piombo.

«Scommetto che pensi sempre alla tua taverna ed alla bella castigliana. Là dentro almeno il piombo non faceva scoppiare le botti come le teste dei nostri camerati.»

— Se t’ho detto centomila volte, che sono nato per fare l’avventuriero e non il taverniere, — rispose don Barrejo. — Sono di pessimo umore perché anche oggi la mia draghinassa è rimasta assolutamente inoperosa.

— Tu che hai le gambe cosí lunghe dovevi slanciarti dinanzi a tutti a far correre gli spagnuoli.

— Faceva troppo caldo sotto gli alberi ed io non sono mai stato troppo amico del piombo. I guasconi non amano che l’acciaio e bene temprato.

«E poi queste imboscate a me non vanno troppo a sangue.»

— Eppure dovrai abituarti. Ora che gli spagnuoli hanno cominciato, non ci lasceranno piú tranquilli finché non saremo giunti al Darien, — disse Mendoza. — Domani avremo, probabilmente, un’altra edizione.

— Ci dessero una carica a colpi di spada ne sarei lietissimo, ma come ti ho detto, non ho mai sentito alcuna affezione pel piombo.

«Acciaio, sempre acciaio pei guasconi. Ma non sai tu che noi siamo capaci di caricare un reggimento nemico anche quando siamo in due soli?»

— Che uomo terribile!...

— Non sono un basco, io!...

— Ohé, don Barrejo, metteresti in dubbio il mio coraggio? Bada che potrei metterti alla prova.

— Quale prova? — chiese il guascone.

— Di vedere due uomini caricare un reggimento a colpi di spada, — disse Mendoza.

— Ti ripeto che se fossero due guasconi non avrebbero paura.

— Mettiamoci invece un basco.

— Ehi, compare, hai delle idee bellicose?

— Vorrei vederti alla prova, don Barrejo, — rispose il basco. — E l’occasione sarebbe propizia.

— Per menare le mani?

— E salvare probabilmente la spedizione.

— Che cosa mi narri tu?

— Vuoi scommettere, don Barrejo, che nemmeno a mille passi di qui vi sono gli spagnuoli pronti a fucilarci appena noi leveremo il campo?

— Dopo la batosta presa quest’oggi?

— Da loro o da noi?

— Un po’ per ciascuno, — rispose il guascone, ridendo. — Ne abbiamo date e ne abbiamo anche prese e non poche.

«Dieci vittorie come questa e non rimarrebbe che la contessa di Ventimiglia a continuare la sua marcia verso il Darien.»

— Vuoi dunque provare la tua draghinassa?

— Un guascone non si rifiuta mai.

— Sono laggiú, imboscati.

— Chi?

— Gli spagnuoli.

— Tu sogni, compare. Tutti questi uomini non si sono accorti di nulla.

— Non v’è un basco fra tutta questa gente.

— E vorresti dire con questo?

— Che i baschi hanno il fiuto finissimo dei bracchi. L’hai inteso mai dire?

— Corpo d’un tuono!... — Esclamò don Barrejo. — Ecco una particolarità che i guasconi non hanno mai posseduta e che vi invidieranno sempre.

«Li senti proprio questi spagnuoli?»

— Te lo dico sul serio. Se facciamo una passeggiata di mille o mille e cinquecento passi ci daremo dentro.

«Vuoi che andiamo un po’ ad assicurarcene, compare?»

— Quando si tratta di menare le mani, un guascone non si rifiuta mai; te l’ho detto già almeno cento volte. E se non ci fossero?

— Avremo fatta una deliziosa passeggiata al fresco, — rispose Mendoza, un po’ ironicamente.

Don Barrejo si tolse dalle labbra la pipa, la vuotò sulla palma della mano, troppo incallita per provare i morsi del fuoco, raccolse il suo archibugio e disse:

— Andiamo: infine si tratta della salvezza di tutti.

Mendoza scambiò qualche parola cogli uomini di guardia che vegliavano intorno al campo improvvisato, per evitare il pericolo di farsi prendere a fucilate, e si mise in cammino con don Barrejo alle spalle, occupato a far scorrere dentro e fuori la guaina la sua terribile draghinassa. La notte non solamente era oscura ma anche fredda e nebbiosa, poiché i filibustieri avevano già raggiunti i primi contrafforti della Cordigliera.

Una pioggia sottile trapelava attraverso le alte e foltissime piante, sussurrando monotonamente sulle gigantesche foglie, larghe come ombrelli.

Quel rumore prodotto dall’acqua sulla grande foresta favoriva l’ardito progetto dei due avventurieri di sorprendere gli spagnuoli all’agguato. La loro marcia almeno non poteva essere facilmente rilevata e udita.

Ad un tratto però il guascone, che s’avanzava carponi, udí delle voci umane che sussurravano al di là della muraglia di verzura.

Tonnerre!... — esclamò, guardando Mendoza, il quale si era arrestato. — È proprio vero che voi baschi avete un fiuto straordinario.

«Gli spagnuoli stanno dinanzi a noi e ci aspettano al varco.»

— Te l’avevo detto io, — rispose il filibustiere. — Vuoi che attacchiamo?

— Alto là, camerata! Non facciamo delle sciocchezze. I guasconi si battono splendidamente perché, ti piaccia o no, dividono cogli italiani il vanto di essere i piú formidabili spadaccini dell’Europa, però non ci tengono affatto a farsi fucilare come merli.

«Ci sono, va benissimo. Provochiamoli ed avremo sventato un altro agguato forse peggiore dell’altro.

«Gettati a terra e lascia a fare a me.»

Il guascone strappa una foglia, la rotola rapidamente in forma di cornetto e trae, non si sa come, una serie di note acutissime.

Un colpo d’archibugio tosto rimbomba a poca distanza dal suonatore, poi due, quattro, quindi si succedono delle scariche furiose.

Don Barrejo e Mendoza si allungano piú che possono fra le alte erbe che li nascondono completamente e odono passare, sopra le loro teste, un vero uragano di proiettili.

I filibustieri del campo balzano in piedi ed a loro volta rispondono e si scagliano avanti colla loro usuale pazza temerità, senza badare alla tempesta che li investe.

Gli spagnuoli avvedutisi che l’agguato, forse da lungo tempo preparato, era sventato, e non desiderando affatto venire ad un corpo a corpo con quei terribili uomini che consideravano, come abbiamo detto, figli di Belzebú, non tardarono a disperdersi ed a mettersi in salvo sui fianchi dei burroni.

— Alto, amici!... — grida Don Barrejo, che si vede giungere addosso, lanciati a passo di corsa, i filibustieri. — Non abbiamo pelle spagnuola noi indosso, e perciò vi prego di rispettarci.

Buttafuoco, che è alla testa della prima compagnia, se li vede dinanzi tutti e due.

— I miei fracassoni! — esclamò. — Me lo immaginavo che avrebbero tentata qualche diavoleria.

— Che vi ha però salvati da un’imboscata, — rispose Mendoza. — Senza di noi sareste caduti come pernici dentro la rete della morte.

— Sapete che cos’è, signor Buttafuoco? — domandò il guascone.

— Me lo spiegherai un altro giorno. Avanti, amici, dobbiamo uscire da questa seconda strettoia prima che l’alba ci sorprenda fra queste foreste.

I filibustieri, incoraggiati da Raveneau de Lussan, si spingono innanzi nel piú profondo silenzio, per non segnalare con qualche inopportuno colpo di fuoco la loro marcia.

Gli spagnuoli, imboscati sui fianchi della valle, continuano le loro scariche le quali si disperdono, senza produrre danni, attraverso la boscaglia.

Finalmente il passo pericoloso è superato ed i filibustieri riescono a raggiungere la base della sierra.

Non hanno guide, non hanno carte; sanno solo che al di là di quelle montagne, entro una profonda valle, simile ad una conca, si trova una città: Segovia-Nuova.

Sicuri di riuscire sempre nelle loro imprese, quantunque siano sfiniti dalla fame e delle fatiche, attaccano risolutamente la Cordigliera, risoluti a piombare sulla città e sicuri d’impadronirsene con un colpo di mano.

Eccoli scalare rupi di altezze incredibili, fiancheggiare burroni spaventevoli, arrampicarsi sopra ciglioni tremendi, scendere attraverso a precipizi e sfondare boscaglie forse mai calpestate da piedi europei, penetrati nell’ossa al mattino da un acutissimo freddo, rompere fino alle dieci del mattino una nebbia cosí fitta da non potersi scorgere nulla alla distanza di dieci passi e sfidare venti freddissimi che rovesciano su di loro, di quando in quando, nembi di pioggia.

Nessun ostacolo arresta quei terribili uomini, che sono ben decisi rivedere il Golfo del Messico o cadere tutti nell’ardua impresa.

E la contessina di Ventimiglia, che ha nelle sue vene sangue indiano, è sempre là pronta a dare il buon esempio ed il suo slancio e la sua resistenza formano l’ammirazione di quei ruvidi avventurieri, i quali hanno sempre conservato nel loro cuore un vero culto pei discendenti dei tre grandi corsari: il Nero, il Rosso, il Verde.

Dopo tre giorni di fatiche inenarrabili, la colonna, verso il cader del giorno, giunta sulla vetta d’una certa montagna, scorge con grande stupore, agglomerati nella sottoposta valle, una moltitudine di animali.

Dapprima li presero per buoi al pascolo e già si rallegravano di potersi finalmente ristorare, quando furono avvertiti dai loro esploratori che quelle bestie erano cavalli già insellati e colle loro staffe, e che il loro numero ascendeva almeno a mille e cinquecento!

E non era tutto. Gli stessi esploratori avevano scoperto, nel ripiegarsi verso la montagna, tre ordini di trincee alzate a breve distanza le une dalle altre che chiudevano completamente la gola, per dove avrebbero dovuto scendere il giorno seguente, non essendovi altri passaggi in vista. Infatti tutto intorno il paese era coperto da foreste impraticabili, da rupi scoscese, da precipizi profondissimi e da paludi che probabilmente nascondevano delle sabbie mobili.

In tante angustie, i filibustieri, dopo essersi radunati a consiglio, decidono di tentare un colpo disperato, ossia di sorprendere gli spagnuoli alle spalle; ma per far ciò era d’uopo lasciare indietro tutto il loro convoglio, non volendo esporsi a perdere le loro ultime ricchezze, per le quali sole si sentivano tratti a salvare le loro vite.

E stavano già preparandosi animosamente alla disperata impresa, quando da un negro fuggiasco, catturato dai loro esploratori, apprendono che hanno alle spalle un corpo di trecento spagnuoli, i quali da giorni e giorni li seguivano, in attesa del momento opportuno di privarli dei loro bagagli.

Altri uomini, di fronte a tanti ostacoli, si sarebbero certamente perduti d’animo, ma i filibustieri possedevano una fibra a prova di qualunque fuoco.

Con alberi innalzano delle trincee e fortificano, come meglio possono, il loro campo, incaricando di guardarlo e di difenderlo ottanta dei loro compagni, i quali dovevano pure vegliare sulla contessa di Ventimiglia.

Per ingannare poi meglio gli spagnuoli sui loro disegni, Raveneau de Lussan e Buttafuoco ordinano alla retroguardia di mantenere sempre accesi i fuochi, di far rullare incessantemente i loro tamburi, istrumenti carissimi ai filibustieri, e che portavano con loro anche durante le piú pericolose spedizioni, di far gridare alto alle sentinelle ogni volta che le cambiavano e di fare, di quando in quando, delle scariche di moschetteria.

Prese queste precauzioni, il corpo principale, composto di poco piú che duecento uomini, nel cuor della notte lascia il campo, risoluto ad aprirsi il passaggio della valle e a piombare su Segovia-Nuova.

Quegli uomini instancabili, rotti a tutte le fatiche ed a tutti i disagi, scendono la montagna per uno dei fianchi e cominciano a trarsi sulla parte opposta con incredibili fatiche, sfondando boschi, superando rocce spaventose, attraversando burroni profondissimi solcati da torrenti impetuosi, le cui acque sono gelate.

Allo spuntare del giorno i duecento uomini si trovano finalmente riuniti sulla vetta d’una montagna alla cui falda stavano i trinceramenti spagnuoli preparati con tale arte da rendere impossibile ogni attacco di fronte.

Una densa nebbia fu loro propizia, in quanto che poterono scendere inosservati, però quella nebbia nel medesimo tempo toglieva loro la vista dei trinceramenti.

Fu grande ventura per loro di udire a pochi passi una pattuglia nemica, che marciava pesantemente sul terreno ineguale.

Giovò pure a loro udire le voci degli spagnuoli che recitavano le loro preghiere del mattino, sicché conobbero facilmente a che distanza e da quale parte si trovavano i loro nemici.

Gli spagnuoli erano cinquecento, comandati da un vecchio ed esperimentato ufficiale vallone, quindi avrebbero potuto disputare lungamente la vittoria a quel pugno d’uomini.

Vedendo precipitare dall’alto i loro avversari che aspettavano invece al passo della gola, presi da meraviglia e da spavento fuggono disordinatamente, credendo di aver di fronte un grosso corpo.

Quelli che si trovano nei trinceramenti, per loro diventati ormai inutili, per un’ora resistono ferocemente, poi a loro volta si precipitano al basso, sperando di salvarsi in Segovia-Nuova ma cadono sugli ostacoli che avevano preparati pei filibustieri.

Sui fianchi della montagna s’impegna una lotta spaventosa, la quale non tarda a tramutarsi in un macello, poiché gli spagnuoli, sdegnando di difendere la vita contro uomini che credevano piú infernali che umani, si lasciavano trucidare senza opporre resistenza, sicché ben pochi si salvarono in mezzo alle folte boscaglie.

Fra i morti fu trovato il vecchio ufficiale vallone che comandava la spedizione, espertissimo nelle cose di guerra, il quale, mentre il governatore di Costarica, d’accordo col marchese di Montelimar, voleva dargli ottomila uomini, che si trovavano radunati in Segovia-Nuova, non ne aveva presi con sé che mille e cinquecento, reputandoli piú che bastanti per arrestare quel pugno di avventurieri e di sterminarli in fondo alla valle.

Diceva nelle lettere trovategli indosso, che se i filibustieri erano uomini, non avrebbero potuto superare quelle rocce in meno di otto giorni; che se poi erano demoni, ogni misura che si prendesse contro di loro sarebbe stata vana.

Cosí col fatto gli spagnuoli poterono convincersi sempre piú che non erano uomini i filibustieri, bensí spiriti maligni vomitati dall’inferno per tormentare l’umanità.

Incredibile a dirsi! In quella lotta durata varie ore i filibustieri non avevano perduto che un solo uomo e non avevano avuto che due feriti! E questa è storia.

Mentre gli spagnuoli dei trinceramenti si lasciavano distruggere quasi senza combattere, i trecento che erano stati incaricati dal governatore di Tusignala di perseguitare la retroguardia dei filibustieri, si spingevano invece audacemente sotto il campo tentando una sorpresa.

Accortisi che la maggior parte dei loro avversari avevano abbandonata la vetta della montagna, si fecero arditamente innanzi, ma all’ultimo momento, invece di agire, vollero ragionare, mentre avrebbero potuto facilmente aver ragione degli ottanta uomini che difendevano il campo.

Mandarono quindi uno dei loro camerati a dire ai filibustieri che l’attacco dato del corpo di duecento uomini era andato a vuoto, che tutto il paese era in armi e che perciò si arrendessero.

Pei filibustieri è un altro momento terribile. Hanno udito rombare i moschetti giú nella valle, ma le grida di vittoria dei loro camerati non erano giunte ai loro orecchi, trovandosi troppo lontani dai punti di attacco.

Essi si domandano angosciosamente se i loro camerati sono davvero tutti caduti o se sono riusciti invece ad aprirsi un passaggio.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco avevano presa la precauzione, prima di lasciare il campo, di avvertire gli ottanta uomini di prendere le loro misure per salvarsi al piú presto nel caso che fossero stati attaccati.

La retroguardia, credendosi ormai abbandonata alle sue sole forze, non esita. Respinge la resa e risponde fieramente al messo spagnuolo che insiste:

— Se i vostri compagni hanno distrutto i due terzi dei nostri, il terzo che rimane ha bastante coraggio per tenere testa a tutti voi.

Mentre si dispongono a scendere nella valle, scorgono finalmente i segnali di vittoria dei loro camerati, sventolati sulle trincee grondanti di sangue.

Mentre il messo spagnuolo ritorna al campo per riferire al suo comandante la risposta avuta, formano rapidamente una carovana, rinchiudendo nel mezzo la contessa e scendono a precipizio nella valle, sparando furiosamente per impressionare i trecento spagnuoli che avrebbero dovuto distruggerli.

A mezzogiorno i due piccoli corpi si riunivano, accampandosi nelle fortissime trincee che avrebbero dovuto arrestarli e che ormai diventavano imprendibili anche per gli spagnuoli.


Note

  1. Storico.