Gli ultimi filibustieri/Capitolo XIII - L'incendio di Segovia

Capitolo XIII - L’incendio di Segovia

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Capitolo XIII - L’incendio di Segovia
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Capitolo XIII
L’incendio di Segovia


Alla sera i due avventurieri, che fra una bottiglia e l’altra avevano architettato piú o meno il loro audace colpo di mano, si presentavano agli alabardieri vigilanti dinanzi al massiccio palazzo del governo, facendosi annunziare pei due ufficiali giunti al mattino da Tusignala.

Il marchese di Montelimar doveva aver dato degli ordini in proposito, poiché i due avventurieri furono subito condotti al piano superiore, dove un ufficiale, lo stesso che li aveva scortati dal ponte alla spianata, li aspettava.

— Siete voi che ho condotto stamani dinanzi al marchese? — domandò.

— Sí, camerata, — rispose familiarmente don Barrejo.

— Sua Eccellenza vi aspetta nel suo gabinetto.

— È solo?

— Col suo segretario. Seguitemi, signori.

Fece attraversare loro alcuni corridoi scarsamente illuminati da qualche fumosa lampada ad olio e li introdusse in una vasta sala, occupata quasi tutta da una immensa tavola coperta d’un ricco tappeto verde.

All’estremità, seduti presso uno scrittoio illuminato da due candele, stavano due uomini: erano il marchese di Montelimar ed il suo segretario, che rassomigliava stranamente al povero Pfiffero, sia per la tinta scialba, sia per gli occhi azzurrastri, sia per i capelli di un biondo slavato.

Il marchese, vedendoli entrare, si era alzato, mentre l’ufficiale si affrettava a ritirarsi.

— Ah!... Siete finalmente giunti, — disse. — Avete indosso qualche documento che mi assicuri che voi siete realmente stati mandati dal governatori di Tusignala?

Don Barrejo e Mendoza si scambiarono uno sguardo d’inquietudine, ma poi il primo rispose prontamente:

— Nessuno, Eccellenza, perché quando ci siamo veduti assaliti dai filibustieri abbiamo distrutto tutto come ci era stato ordinato.

«Al governatore premeva che non si sapesse della rivolta degli indiani perché la canaglia del Pacifico non ne approfittasse.»

— Avete fatto bene, — disse il marchese. — Voi dunque dite che le cose vanno male a Tusignala?

— Tutta la provincia è in fiamma e noi abbiamo corso diverse volte il pericolo di morire asfissiati fra le piantagioni brucianti.

— Quanti uomini domanda il governatore?

— Un migliaio, Eccellenza.

— Quell’uomo è pazzo. In questo momento io non posso sprovvedermi di una forza cosí importante. Che cosa dite voi, don Perego?

— Che avete ragioni da vendere, — rispose il segretario, il quale non cessava di far stridere la sua penna d’oca su dei grossolani fogli di carta.

— E poi appena usciti dalla città i mille uomini cadrebbero tutti sotto i colpi dei filibustieri ed io rimarrei con meno forze ed il governatore di Tusignala senza un uomo di piú. Vi pare, don Perego?

— Avete sempre ragioni da vendere, — rispose il segretario.

— Cambiate qualche volta la risposta, — disse il marchese, stizzito. — Colle vostre eterne ragioni da vendere io non capisco affatto il vostro pensiero.

— Avete...

— Ho capito: ancora delle ragioni da vendere. Continuate a scrivere il rapporto della battaglia che noi rimetteremo a questi due valorosi.

— Scusate, Eccellenza, — disse il guascone. — Perché vorreste consegnarlo a noi?

— Per portarlo al governatore di Tusignala, affinché si persuada meglio che io non posso soccorrerlo in modo alcuno.

— Potrà giungervi?

— E perché no? Come siete venuti da Tusignala potrete anche ritornare a Tusignala.

— Coi filibustieri?

— Due uomini soli possono sfuggire piú facilmente che mille.

— Sarà un’impresa ardua, Eccellenza.

— Che io saprò ricompensare però largamente.

— E se i filibustieri ci prendessero?

— Come siete sfuggiti loro la prima volta, riuscirete anche la seconda.

Ad un tratto il marchese, che aveva fatto il giro della lunga tavola, camminando nervosamente, si fermò dinanzi a Mendoza il quale si era tenuto sempre prudentemente dietro al guascone e si mise a guardarlo con una certa insistenza.

— Siete muto voi, che non parlate mai? — gli chiese, senza levargli di dosso gli occhi.

I due avventurieri, quantunque fossero coraggiosi fino alla temerarietà, si sentirono correre un brivido freddo per le ossa.

Il guascone, che non perdeva mai il suo sangue freddo, tentò di salvare la situazione, dicendo:

— Perdonate, Eccellenza, se il mio compagno non parla mai, avendo ricevuta una palla attraverso la lingua in non so quale battaglia datasi nell’Andalusia. Perciò preferisce rimanere muto per non provocare colla sua voce un certo senso di ribrezzo.

— È spagnuolo?

— Sí, eccellenza.

Il marchese scosse il capo, poi, dopo d’aver guardato con maggior attenzione Mendoza, il quale impallidiva a vista d’occhio, disse:

— Eppure io ho veduto in qualche luogo questa testa.

— È impossibile eccellenza, poiché è appena un mese che il mio camerata è giunto dall’Europa, — disse don Barrejo.

— Soffermandosi a Panama?

Mendoza fece col capo un gesto affermativo.

— Sarebbe una strana rassomiglianza? — si chiese il marchese.

— Perché dite questo, Eccellenza? — chiese il guascone, il quale ormai comprendeva perfettamente che le cose andavano imbrogliandosi inaspettatamente.

— Perché sulla gettata di Panama io ho riconosciuto un uomo che da sei anni non avevo piú riveduto e che somigliava perfettamente al vostro camerata.

— Sarà stato un altro.

— Adagio, caballero: io sono molto curioso e desidero vederci ben chiaro in questa faccenda.

«Voi non avete nessuna carta dal governatore di Tusignala?»

— Se vi ho detto che abbiamo distrutto tutto!... Era l’ordine e noi abbiamo obbedito.

— Mio caro, noi viviamo in tempo di guerra ed io ho l’abitudine di diffidare di tutti e di tutto.

— Dubitereste di noi? — chiese don Barrejo, il quale si sentiva fuggire il terreno sotto i piedi.

— Del vostro compagno almeno.

— Sareste voi il diavolo? — esclamò imprudentemente il guascone.

Il marchese incrociò le braccia sul petto ed affrontandolo risolutamente, gli chiese:

— Che cosa avete voluto dire con quelle parole?

— Che se la Spagna avesse dieci uomini come voi, a quest’ora non vi sarebbe piú un filibustiere né sul golfo del Messico né nell’oceano Pacifico, — rispose pacatamente don Barrejo.

— Vi prego di spiegarvi meglio, caballero.

— Domando invece a voi quali intenzioni avete a nostro riguardo. Vivaddio!... Abbiamo attraversato fiumi e foreste; abbiamo sfidato cento pericoli; abbiamo salvato la pelle per miracolo, per compiere il nostro dovere ed ecco che ci accogliete con dei sospetti.

— Vi dico, anzi, che vi farò subito arrestare, — disse il marchese.

— Là là, signor di Montelimar, — rispose don Barrejo, sguainando rapidamente la draghinassa, mentre il basco balzava verso la porta colla spada in pugno. — La partita non l’abbiamo ancora perduta e voi non ci farete arrestare.

Il marchese aveva fatto due passi indietro, mentre il suo segretario rimaneva colla penna d’oca in aria, guardando con ispavento i due falsi ufficiali.

— Chi siete voi? — chiese il marchese, trascorso il primo momento di stupore.

— Giacché avete su di noi dei sospetti e volete farci arrestare, vi diremo allora che noi non siamo affatto due soldati spagnuoli, signor marchese: voi avete un fiuto straordinario ed i filibustieri li sentite subito.

— Filibustieri, avete detto!... — esclamò il governatore, al colmo della sorpresa.

— Sí, signor marchese, noi abbiamo l’onore di appartenere a quella associazione di ladroni, — rispose don Barrejo.

— Ed avete osato entrare in città?

— Dite nel vostro studio.

— Dal quale non uscirete che con una corda al collo!... — gridò il governatore, furibondo.

— Non vi infiammate tanto, signore. Abbiamo perduta la partita, però siamo tali uomini da farvi pagare cara la rivincita.

— Miserabili!...

Il marchese aveva fatto un gesto per cercare la sua spada, che non aveva invece piú al suo fianco.

— Don Perego, — disse al segretario, — chiamate gli alabardieri e fate arrestare queste canaglie.

— Signor marchese, — disse il guascone, — vi consiglio di ritirare l’ordine, poiché il mio compagno veglia dinanzi alla porta e se non parla ha la mano lesta, ve lo assicuro io.

— Voi osereste opporvi?...

— Diavolo!... Noi non abbiamo alcun desiderio di far la conoscenza colla canapa che intrecciano gli spagnuoli.

«Si dice che sia troppo ruvida e che rovini la gola agli appiccati.»

— Ed avete tanta audacia da scherzare?

— E perché no, signor marchese? I filibustieri sono sempre di buon umore, anche quando le cose vanno maluccio, ed è perciò che vincono sempre.

— Che cosa siete venuti a fare qui, furfanti?

— Avevamo sete, signor marchese, ed abbiamo fatta una visita alle taverne per accettarci se i nostri compagni avrebbero trovato del buon vino in Segovia.

— Voi siete stupefacente!... — esclamò il marchese.

— Me lo diceva anche mio padre, — rispose don Barrejo, ironicamente.

— Basta, caramba!... Don Perego, chiamate gli alabardieri!...

Il segretario, quantunque fosse in preda ad un grande spavento, non avendo combattuto, durante la sua vita, che colle penne d’oca, si alzò e fece per avanzarsi.

Il guascone, che lo teneva d’occhio, fu pronto a chiudergli il passo ed a puntargli sul petto la draghinassa, dicendo:

— Signor segretario, occupatevi dei vostri calamai e dei vostri sgorbi. In questi affari non c’entrate affatto.

— Allora andrò io, — disse il marchese, il quale aveva cercato invano un’arma. — Vedremo chi saprà fermare un Montelimar.

— La punta della mia draghinassa, signore, — rispose don Barrejo.

— Voi osereste?

— Tutto, signor marchese. Tonnerre!... Si tratta di salvare la mia pelle e quella del mio compagno e vi giuro che non esiterò.

«Non dimenticate, signor marchese, che noi siamo dei filibustieri, quindi delle persone capaci di tutto, anche di portar via un governatore spagnuolo sotto gli occhi dei suoi alabardieri.»

— Volevate rapirmi forse? — chiese il marchese, ironicamente.

— Veramente eravamo scesi in città con quell’idea, e giacché la sorte non ci ha favorito, come speravamo, non ci rimane che di alzare i tacchi e di tornarcene presso il signor Raveneau de Lussan, un bravo e valoroso gentiluomo francese, ve lo afferma un guascone autentico.

Fra i due uomini vi fu un breve silenzio. Il marchese sembrava pietrificato e guardava con inquietudine la draghinassa di don Barrejo, la quale non cessava di descrivere dei molinelli pericolosi.

— Si direbbe che sogno, — disse ad un tratto, passandosi una mano sulla fronte. — Conoscevo l’audacia dei filibustieri, però non credevo che giungesse a tal punto. Siete uomini o diavoli voi?

— Io credo, signor marchese, che noi abbiamo nelle vene un po’ di sangue umano ed un po’ di sangue infernale. È tempo però di tagliar corto, signor mio.

«Abbiamo chiacchierato abbastanza e qualcuno potrebbe venire a disturbarci, ciò che costringerebbe il mio compagno a far qualche grossa sciocchezza.»

— Che cosa volete, furfanti?

— Per ora non chiediamo che di andarcene giacché ci avete scoperti.

— E voi sperate...

— Speriamo?... Signor marchese, qui si giuoca la vita ed i vecchi amici del conte Enrico di Ventimiglia e della marchesa di Montelimar vostra cognata, non esiteranno.

— Di mia cognata!... — esclamò il marchese furibondo, diventando livido. — È lei forse che vi ha mandati qui per assassinarmi?

— Niente affatto, signore. Noi siamo stati semplicemente incaricati di scortare la contessina Ines di Ventimiglia fino al Darien.

— E spera di giungervi?

— E di raccogliere anche l’eredità che la spetta.

— Mi troverà sempre attraverso a tutte le sue vie. Ah!... Quei Ventimiglia hanno dato da fare alla Spagna, piú che tutti i filibustieri dell’Atlantico e del Pacifico.

«Orsú, finiamola, che cosa volete da me?»

— Che ci lasciate andare per le nostre faccende e nient’altro.

— Provatevi a uscire.

— Non sarà da quella parte che noi ce ne andremo, signor marchese. Io non ho mai voluto troppo bene agli alabardieri.

«Giacché ci sono delle finestre salteremo, non prima però di avervi ridotto all’impotenza.»

Con una improvvisa strappata il guascone aveva spezzata uno dei lunghi cordoni di seta che reggevano la tenda, poi si era avvicinato al marchese, che lo guardava stupito, e gli disse:

— Permettete che vi leghi, signore. Vi avverto che se opponete resistenza, fra mezzo minuto il marchese di Montelimar ed il suo segretario non saranno piú vivi.

La lama del guascone si era puntata sul petto del governatore, in direzione del cuore. Mendoza aveva lasciato il suo posto dopo d’aver chiusa la porta a chiave, ed accorreva in aiuto del camerata, brandendo la spada.

Il marchese capí di essere perduto e di aver da fare con due uomini risoluti a tutto.

— Fate, — disse, tergendosi alcune gocce di sudore, — spero però di rivedervi presto e di prendermi la rivincita. I filibustieri non sono ancora giunti al Darien e la vita è lunga assai.

Ciò detto si lasciò legare, senza tentare la menoma resistenza.

Mendoza si era incaricato del segretario e non aveva avuto da faticare, poiché quel povero scriba era piú morto che vivo pel grande spavento.

— Permettete che vi prenda il fazzoletto, signor marchese, — disse il guascone, quand’ebbe finito di legargli le gambe.

— Mi volete anche imbavagliare? — chiese il signor Montelimar, con voce sibilante.

— Dobbiamo prendere le nostre precauzioni per assicurarci la ritirata, signor mio.

I due disgraziati si lasciarono imbavagliare, poi vennero fatti sedere in due ampie poltrone ai cui bracciali furono ancora assicurati.

— Signor marchese, i miei ossequi, — disse il guascone. — Avrei voluto portarvi in persona alla contessina di Ventimiglia; si contenterà per questa volta dei vostri saluti.

Mendoza intanto aveva aperta una finestra e misurava l’altezza.

— Dove mette? — chiese don Barrejo.

— Su un giardino.

— Vi sono sentinelle?

— Non ho mai posseduto gli occhi dei gatti, — rispose il basco.

— Possiamo tentare il salto senza romperci il collo?

— Siamo al primo piano, quindi non correremo nemmeno il pericolo di slogarci un piede.

— Giú.

Mendoza si lasciò andare, cadendo in mezzo ad un’aiuola di fiori. Don Barrejo fu pronto a seguirlo.

Diedero un rapido sguardo all’intorno e, non avendo scorto nessuno, si slanciarono attraverso i viali spaziosi ombreggiati da splendide palme.

Correvano a casaccio, colla speranza di giungere presto a qualche cancello, poiché ignoravano assolutamente da quale parte del palazzo si trovavano.

Vi era il pericolo che, invece di girarlo per di dietro lo girassero per davanti e si trovassero di colpo fra le braccia degli alabardieri.

Spronati dalla paura, poiché cominciavano ad averne, ed in non piccola dose, continuarono la corsa furiosa per cinque o sei minuti e andarono a fermarsi dinanzi ad una cinta.

Scalarla e varcarla fu pei due filibustieri l’affare di pochi secondi.

Lasciami respirare, Mendoza, — disse il guascone. — Finché mi trovavo dentro il giardino non ho quasi osato mandar giú una boccata d’aria. L’abbiamo fatta grossa!...

— E ce la siamo cavata splendidamente, — rispose il basco.

— Noi, amico, siamo protetti da qualche buona stella.

— Sia pure, però preferirei trovarmi al sicuro nella taverna del mio amico De Gussac.

— Saremo capaci di trovarla?

— E che!... Hanno perduto il naso ora i baschi? Come fiuti dei nemici a grande distanza, potrai fare altrettanto con gli amici.

— Cercheremo: corri, don Barrejo.

Si erano cacciati in una via abbastanza larga, fiancheggiata da alte case ed illuminata da qualche rara lampada che spandeva piú fumo che luce.

Pareva che i buoni cittadini di Segovia, malgrado la paura, si fossero profondamente addormentati, poiché porte e finestre erano chiuse e nessun lume brillava dentro le stanze.

Solamente dei cani randagi vagavano per le vie che i due avventurieri attraversavano l’una dietro l’altra, cercando di orizzontarsi come meglio potevano.

Si sentivano ormai abbastanza sicuri. Anche se il marchese di Montelimar avesse già lanciati sulle loro tracce i suoi alabardieri, la distanza percorsa era abbastanza rilevante per dare loro un grandissimo vantaggio.

Non avevano da temere nemmeno da parte delle ronde, indossando le divise di ufficiali spagnuoli. Pareva però che per quella notte il governatore avesse mandato altrove quelle guardie, quasi inutili in una cittaduzza cosí tranquilla.

Avevano già percorse sette od otto vie che s’incrociavano in tutti i versi, passando ora fra case ed ora fra ortaglie, quando si trovarono di fronte alla spianata sulla quale al mattino avevano incontrato il marchese.

— Ci siamo! — esclamò don Barrejo.

— Alla taverna? — chiese Mendoza. — Io non vedo che due cannoni piazzati lassú.

— Ebbene ora io ti dimostrerò, camerata, che anche i guasconi hanno dei buoni nasi, specialmente per fiutare le taverne.

«Conta duecento passi.»

— Preferisco farli.

— Allora facciamoli.

— Tu hai fiutato l’insegna d’El Moro?

— Ti condurrò diritto alla taverna del mio amico d’infanzia, senza sbagliare.

S’aprivano dinanzi a loro due stradicciuole sfondate e polverose. Don Barrejo esitò un momento, poi prese la destra, fiutando, come un vero bracco.

Dobbiamo dire che aveva ragione di dire che anche i guasconi possedevano dei buoni nasi, poiché cinque minuti dopo giungevano dinanzi alla taverna.

Dalle fessure della porta, abbastanza sgangherata, trapelavano dei fili di luce. De Gussac dunque, da vero amico, li aspettava.

Ed infatti bastò un leggiero picchio perché si trovassero tutti e tre riuniti nella miserabile taverna.

— Credevo che vi avessero già appiccati, — disse De Gussac.

— Lascia le chiacchiere e porta invece delle bottiglie, se ne hai ancora, — disse don Barrejo, respirando a pieni polmoni. — Io non avevo saputo prima d’ora che cosa fosse la paura e quel Montelimar me l’ha fatta provare.

— E non l’avete portato via?

— Sí, va a prenderlo tu fra i suoi alabardieri.

— Ed io che avevo preparato la botte.

— Servirà egualmente.

— Per metterci dentro chi?

— Portaci da bere prima, — disse don Barrejo. — Non vedi che non abbiamo piú fiato?

— E qualche cosa da gettare nel ventre che brontola da parecchie ore, — aggiunse Mendoza.

De Gussac scese nella cantina e tornò con altre bottiglie, un mezzo prosciutto e delle tortillas di mais.

— Le mie ultime ricchezze, — disse, con sospiro. — Non ho piú che dell’aguardiente.

— Meglio, amico! — esclamò don Barrejo. — Servirà ai miei tenebrosi progetti.

— Vuoi farne delle altre, compare? — chiese Mendoza. — Io ne ho abbastanza, e giacché il colpo è fallito non domando altro che di cambiare vestito e di andarmene al piú presto.

«Mi pare di sentire, da qualche ora, un gran nodo alla gola.»

— Brutto segno, — disse don Barrejo, con voce grave. — Tu senti la corda degli appiccati!

— Mi consolerò pensando che se acciuffano me prenderanno anche te, e che ci terremo compagnia nell’ultima danza della vita.

Invece di rispondere, don Barrejo si tagliò una grossa fetta di prosciutto che stese su una tortilla e si mise a mangiare. Mendoza si credette in dovere d’imitarlo, mentre De Gussac stappava le sue ultime bottiglie.

La cena, abbastanza magra, fu divorata in pochi minuti ed anche abbondantemente innaffiata, poi don Barrejo, che, contro il suo solito, aveva conservato un mutismo assoluto, si rovesciò sulla spalliera della sedia, e disse a Mendoza:

— Ti senti tu di poter rimanere ancora qui?

— Io no, — rispose il basco. — Quel Montelimar mi fa troppa paura.

— Sicché è meglio ritornare fra i nostri.

— Io non amo scherzare colle corde degli spagnuoli. Penso che la fortuna ci ha protetti anche un po’ troppo.

«Non sarà però cosa facile lasciare la città in questo momento, con tante ronde ed i ponti rialzati.»

— De Gussac, tu hai dei vestiti da prestarci?

— Il mio guardaroba è a tua disposizione.

— Ora dimmi che cosa vale questa taverna.

— Quanto vale!... Se non c’è piú nulla qui dentro!... Tutte le botti sono state vuotate.

— Da te?

— Credo di sí, perché il Moro non mi ha portato fortuna.

— Hai fatto benissimo, amico, — disse don Barrejo. — Quando un taverniere non trova bevitori, deve diventare lui un bevitore, e poi non pagare mai i fornitori.

— Sbrigati, don Barrejo, — disse Mendoza. — Io ne ho abbastanza di Nuova Segovia e vorrei andarmene al piú presto.

— Aspetta un momento, camerata, — disse il guascone. — Se non abbiamo potuto prendere il marchese di Montelimar, cerchiamo almeno di aprire il passo ai nostri compagni.

«Finché Segovia resiste nessuno potrà scendere.»

— E che cosa vorresti fare tu? Prenderla d’assalto? Se vuoi provare, io starò a vederti.

— Lascia che dica due parole a questo caro De Gussac e ti persuaderai che i guasconi hanno sempre delle trovate meravigliose.

Don Barrejo mandò giú un altro bicchiere, l’ultimo rimasto sulla tavola e che aveva sottratto destramente al basco, poi, rivolgendosi al suo compatriotta, gli chiese:

— Dunque tu non possiedi piú nulla qui?

— Appartiene tutto ai miei creditori.

— Allora possiamo bruciare questi stracci e mandare all’aria la città. La casa è vecchia e costruita in legno di pino, ed altre consimili ne ho vedute presso a questa.

«Che bella fiammata che noi faremo. È grosso il bottale dell’aguardiente

— Abbastanza rotondo.

— Lo berranno questi tavolini e queste sedie zoppicanti.

«Lesto, camerata, portaci dei vestiti ed un paio di forbici per tagliarci un po’ di barba, mentre noi prepariamo il falò.

«Se Segovia non brucia questa notte non brucerà piú.

«Mendoza, scendiamo in cantina e portiamo quassú il barile.»