Cosmorama Pittorico/Anno I - n. 36/Gli scavi di Brescia
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Un frammento di colonna, mezzo corrosa dagli anni ed annerita dal fumo, sorgeva appena dal suolo in uno dei più frequentati quartieri di Brescia, e pareva un inutile inciampo ai passeggieri, un’incomposta macerie abbandonata al pubblico vitupero.
Quel misero avanzo, quell’inconcludente frantume celava nient’altro che la più augusta opera monumentale di Brescia romana, il tempio eretto alla Vittoria, nel secolo di Vespasiano. Il sepolcro di tredici secoli, dopo le devastazioni e gli incendj dei barbari ne’ bassi tempi, e dopo il franamento del circostante terreno che aveva inabissato ogni orma di edificio, aveva bastato a cancellare ogni memoria di questo antico sacrario. Il caso doveva restituirlo alla pubblica ammirazione.
Gli scavi fatti in questo tratto di terreno nell’anno 1826 discopersero avanzi monumentali, a cui quel frammento di colonna apparteneva. Io visitava quegli scavi nell’anno 1828, e tutto il prospetto esteriore del tempio era stato già dissepolto, e presentava un magnifico pronao a colonnati, a cui si accedeva per un’ampia scalea. Presentavano allora questi scavi l’imagine che offro nell’annessa tavola: le colonne scanalate, con bellissimi piedestalli, erano infrante: qua e là giacevano avanzi di cornici e di ornati di una leggiadrissima foggia, e una mano di operai diretta dal diligentissimo Basiletti, stava assiduamente scavando le macerie che ingombravano l’interior parte del tempio. Ogni giorno si disotterravano preziosi frammenti di are, di idoletti, di fregi ornamentali, e si riconosceva l’esatta pianta dell’edificio. Dai resti di un’iscrizione latina, deduceva il dottissimo archeologo Labus l’epoca precisa e la consacrazione di questo tempio: ma ancora mancava la divinità cui parea dedicato. Alla per fine scavando in un lato del tempio, si trovava prostesa al suolo una statua colossale in bronzo, stata un tempo dorata, dai cui atteggiamenti e dai cui simboli si riconosceva rappresentare la Vittoria. La straordinaria bellezza di questo romano capolavoro, faceva dire, e con ragione, che quella era stata una vera vittoria riportata sull’antichità.
Questa preziosa scoperta valse tanto ad animare il fervore degli scavi, che in capo a breve termine di tempo erano essi compiuti. Fu allora che i generosi Bresciani svolsero il magnifico progetto di convertire quell’antico sacrario nel museo patrio di antichità: pensiero veramente degno di una popolazione per la quale il lustro del paese è un affetto direi quasi istintivo.
All’opera dello scavamento tenne tosto dietro quella dell’integrale restauramento del tempio. Per compiere questo dispendioso lavoro concorrevano i cittadini con largizioni, concorreva lo stesso Comune con larghi sussidii. Io ritornava a visitare gli scavi di Brescia nell’ottobre dell’anno 1834, e in vece di trovarvi uno spettacolo di rovine, vi ammirava uno splendido edificio che serbando nelle sue parti il rigore del gusto antico, spirava ad un tempo un tal vezzo moderno che rapiva ed allettava. L’antico peristilio che adduce al tempio venne integramente conservato; le colonne, benchè mozzate dall’ira degli uomini e del tempo, dispiegano tuttora nelle membrature rimaste l’antica loro magnificenza: le cornici e le modanature sono quelle stesse del tempio antico: soltanto si compì l’esteriore parete del sacrario, sul cui frontone si incise questa semplice inscrizione: Museo patrio bresciano.
L’interno del tempio presenta, come all’epoca di Vespasiano, tre grandi camere: la massima centrale e due laterali. Nella camera centrale sta infissa sulle pareti la storia lapidaria di Brescia romana. Tutte le iscrizioni antiche state ritrovate in città e nella provincia furono qui trasferite e collocate, e di quelle che non si poterono levare dagli edifici si riprodusse l’esatto fac simile. Il benemerito dottor Labus ordinò queste iscrizioni in varie classi: qua leggi le iscrizioni che rammentano un fatto storico, poi quelle che esprimono un rito, un voto, una sacra invocazione, quindi quelle che recano i nomi e gli elogi di uomini illustri, e da ultimo quelle che segnano un’epoca od una carica; le iscrizioni mutilate od infrante sono state magistralmente restituite alla loro primitiva lezione per opera dello stesso dottor Labus. Il numero di queste lapidi ammonta a qualche centinajo, ed io ebbi la soddisfazione di vedervi il fac simile di alcune iscrizioni state da me lette nelle più riposte parti della provincia, là dove nessun erudito avrebbe avuto il coraggio di arrampicarsi in compagnia delle capre e dei pastori.
Nella camera laterale a mano diritta è depositata una bella raccolta di busti antichi e di varie opere statuarie, tanto dei secoli migliori del romano impero, quanto dei bassi tempi. Ivi rinvenni religiosamente custoditi que’ tanti fregi simbolici che appartenevano all’architettura rituale usata in Italia nei primi secoli del cristianesimo, e che ora vanno qua e là dispersi, rovinati ed infranti, da quelli stessi che dovrebbero venerarli.
Nell’altra camera a man ritta si custodiscono in chiusi armadii i più preziosi frammenti stati rinvenuti in questi scavi. Si veggono cornici, fregi d’ogni maniera, pezzi di colossi equestri, tutti in bronzo dorato: alcuni di essi furono talmente consunti dal fuoco che accomunandosi la lega del bronzo coll’oro produssero le più curiose screziature di tinte, che pajono colorite dall’iride. Tutto questo assembramento di frammenti d’opere in bronzo, rivela abbastanza quanto sia stato riccamente ornato questo tempio eretto a quella gran diva che tanto avevano invocato i Romani per farsi padroni dell’universo.
Nel mezzo di questa sala grandeggia su un piedestallo la statua colossale in bronzo della Vittoria insieme a molte statue dell’antichità, ma non mi rammento di averne ammirato una che senta di un fare così inspirato siccome questa. Le sue linee, le sue movenze, sono così grandi che rapiscono, e direi quasi stordiscono. Lo svolgere de’ panni lascia trasparire forme di un’elezione veramente divina. Quando si ha fitta in pensiero l’impronta grandiosa di questo antico capolavoro, confesso il vero che non mi so dar pace come non abbiansi potuti fare giganteschi progressi nella statuaria, in un suolo in cui Canova e Thorwaldsen ci rivelarono, se non l’estro, almeno il gusto dell’antichità.
Mentre io stava ammirando quest’opera stupenda, il custode mostrava ad un artista francese alcuni frammenti in marmo di mani gigantesche, per mostrare come questo antico tempio sia stato decorato da varie statue colossali. Alla vista di quelle reliquie, l’artista viaggiatore torceva il naso e stringendosi nelle spalle rispondea freddamente: sono sassi da far calce. Ecco, dissi fra me, come si stimano i tesori dell’antichità da quei signori che ci rapirono nei primi anni di questo secolo i nostri precipui capilavori per fregiarne le sale del Louvre, e che ora vengono a visitare questa terra di sepolcri, come essi la chiamano, per profanarla.
Prima di lasciare questo tempio di antichità patrie ne visitai anche i bellissimi sotterranei, una serie di cellette o gabinetti, che rassomigliano in eleganza alle camerette delle case di Pompei. Le pareti sono dipinte all’encausto e la soglia è a musaico. Alcuni vorrebbero che queste celle sotterranee appartenessero a qualche antichissimo edificio, anteriore alla costruzione del tempio, ma a me pare che siano esse contemporanee dell’edificio ed abbiano servito di eleganti celle sacerdotali non potendo altrimenti presumersi che si volesse erigere un tempio colossale sopra dilicate costruzioni che ne avrebbero tolta ogni solidità.
Quando darò la veduta di questo Museo, come ora si presenta restaurato, terrò più speciale discorso intorno alle altre rarità che racchiude: frattanto ne gode l’animo pensando quanto l’amore delle avite memorie sappia serbarsi vivo in un paese che ha sparso due volte la civiltà nel mondo e conta trenta secoli di storia.
Giuseppe Sacchi. |