Gli invisibili/Postfazione
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di
F. Ernesto Morando
Anche a chi abbia saltuariamente seguito l’opera letteraria del Vassallo - a rigore basterebbe quella strettamente giornalistica - dovrebbe riuscir agevole penetrare il compiuto temperamento di artista che si celava sotto quel sorriso più ironico che caustico, sotto l’umorista, dallo spirito più ridanciano che aspro. Questo suo temperamento, come lo spinse alle peregrinazioni intellettualistiche nelle capitali di Europa - donde quei meravigliosi Pupazzetti francese, tedesco, spagnuolo, i quali si ristampano ancora come esemplari di un genere che non aveva avuto e non ebbe più altri esempi - così lo trasse a radunare a poco a poco, e con mezzi relativamente esigui, una suppellettile delle più varie e ricche tra le preziosità artistiche d’ogni fatta. Sicché la sua casa, da quando, soprattutto, si trasferiva in Genova a fissa dimora (e furono gli ultimi anni della sua vita) diventò un vero museo nella profusione sorrisa dal fascino che rapisce l’occhio e la mente per quadri di maestri antichi e moderni, condotti ad olio, a tempera, a guazzo, alla seppia, per bronzi, marmi, ceramiche, specchi istoriati, cornici di Venezia e del rococò francese, ebani ed avorii, medaglioni e medaglie, monete ed armi; e poi ancora disegni, incisioni in rame, in acciaio, all’acquaforte, vignette e stampe rare. Un museo il quale non dà, tuttavia, l’impressione delle cose morte, allogate con la grigia solennità da catalogo a richiamo di un’annoiata distrazione, ma infonde tutta la vivificante luce del gusto squisito, vario, pur sobrio ed equilibrato, di chi seppe trascegliere ed adunare.
Inoltre, per quanto la sala Vassallo al Municipio di Genova accolga tanta parte delle cose sue, e l’urna disegnata dal Pogliaghi racchiuda una doviziosa collezione di manoscritti, tuttavia quanta messe ancora da raccogliere in quei cofani, in quei cassettoni, in quelle vetrine che la colta e gentile vedova, signora Aurelia, custodisce con la più gelosa cura.
Messe vassalliana, intendo nel senso più lato; cioè, non solamente per le cose uscite dalla penna o dalla matita di Gandolin, ma per tutte quelle che in qualche maniera lo riguardano. Tra queste sapevo di non poter trovare più quel prezioso diario manoscritto di Stefano Canzio, intorno alla Spedizione dei Mille, di cui accennai altra volta, fidato poi, nelle mani del Vassallo, dallo stesso Generale. Il Diario si componeva dì quattro taccuini: i primi due, il Vassallo, autorizzato dal Canzio, imprestò a Gabriele D’Annunzio, quando il Poeta disegnava quella Rapsodia garibaldina di cui non vide la luce che un solo canto. Il D’Annunzio scriveva in appresso al Gandolin: «Custodisco religiosamente i due taccuini del Canzio, e te li renderò quando vorrai». Allorché il Poeta venne a Genova per la orazione inaugurante il monumento di Quarto, la signora Vassallo, pensando potesse giovargli all’opera mediata il conoscere l’intiero manoscritto del Canzio, si recò all'Hôtel du Parc per offrirgli in prestito gli altri due taccuini; ciò che fece per mezzo di persona amica, non avendo potuto parlare col D’Annunzio. E da allora più nulla ne seppe.
Circa alle opere della penna e della matita di Gandolin, per le prime troviamo inedita parte dell’opera sua che da gran tempo si riteneva perduta. È noto come il volume già edito Gli uomini che ho conosciuto, venisse compilato sulle corrispondenze alla Prensa di Buenos Aires. Ma la materia di quel volume non è che la minor parte di tutto quanto il Vassallo scrisse sul magno foglio bonaerense intorno ad artisti, letterati, uomini politici e pubblicisti dei suoi tempi, con quella profusione aneddotica e con quella vena di scintillante umorismo che sono Gandolin stesso e tutto.
Gli altri manoscritti, i quali raddoppiano, per lo meno, il già edito, vennero ritrovati, raccolti, e dalla direzione della Prensa trasmessi a chi di ragione, nuovo godimento spirituale augurato all’Italia dall’opera di uno tra i suoi più vividi ingegni. Nuovo, perché l’opera del Vassallo non vide la luce che nell’altro continente e tradotta in spagnuolo, onde l’originale italiano è perfettamente inedito.
Per i lavori usciti dalla matita di Gandolin, basti che tra fogli sciolti o album di varie dimensioni, i disegni inediti ammontano a diverse centinaia, la maggior parte di figure colte dal vero, per quanto molti siano pure quelli d’impressioni di paesi e città. Ora, sono personaggi illustri o macchiette caratteristiche che vi balzano davanti come si trovarono nella presenza e nell’azione in cui vennero colti, forti nelle parti di luce, sottili e trasparenti nelle ombre, talvolta così che la nuda linea simula gli abbaglianti e i lustri della pittura, o gli sbattimenti che improntano il disegno del vigore di un’acquaforte; ora, sotto illuminazioni di cieli, tripudi di carni muliebri. Ovunque, insomma, l’orma sicura di quell’artista che fu.
Non bisogna nutrire disperate speranze; ma vorrei potessero queste note stendersi - come diceva lo Shelley - a guisa di tappeto per onorare il viaggiatore che ritorna, camminando sulla propria gioventù. Vorrei, a dirlo poveramente, che questa insigne collezione trovasse un editore il quale ne onorasse l’arte grafica italiana, a compiere pure per sé - ne ho fede - un ottimo affare.
Ma il pubblicista, l’umorista, l’artista, si tramutò poco a poco in un meditativo pensatore, quando già discendendo l’arco della vita, non dello spirito, che conservò alacre e vivido fino agli ultimi istanti, volle lasciare la soglia dell'humour per severi e reconditi studi; felice poliedro umano escito dalle mani della Natura in uno di quei suoi istanti che si direbbero non soltanto creativi, ma ricreativi.
Sono di quest’ultimo periodo le pagine di un volumetto da non pubblicarsi, almeno per ora, intitolato: «Pensieri religiosi di Luigi Arnaldo Vassallo destinati a sé stesso, 1904» ignoto a tutti fino al giorno in cui l’autore di queste pagine ne fornì notizia al pubblico per mezzo della stampa. Autorizzato, ne trascrivo questa pagina:
«Dall’esame degli antichissimi libri dell’India si desume chiaramente, risalendo ai tempi preistorici, che la stirpe da noi chiamata ariana, conobbe tutti i fenomeni della medianità: ebbe visioni, sentì voci, ascoltò coi medium intuitivi o scriventi che sono i profeti. Allora non esisteva casta sacerdotale. Ogni capo di famiglia era sacerdote, nel senso che prestava culto agli spiriti degli antenati, e si trovava con essi in comunicazione continua.
«Gli spiriti degli avi, man mano, davano insegnamenti e leggi. La difficoltà di conservare le tradizioni, di formare, e da tante svariate comunicazioni individuali, un corpo di dottrine generali, creò i sacerdoti, i bramini, interpreti e custodi delle rivelazioni spirituali. La religione bramanica si fondò, così, sopra il culto assiduo dei pitri, degli spiriti degli antenati, nella legittima presunzione che i disincarnati fossero in grado di meglio conoscere le occulte misteriose leggi della natura e della divinità. Ora chi ha studiato la teosofia bramanica, sa che essa contiene quanto poi si è diffuso in tutte le altre religioni, con qualche cosa di più e di meglio.
Dall’India tale teosofia si propagò, modificandosi, nella Persia, nella Caldea, nell’Assiria, nell’Arabia, nell’Egitto, dall’Egitto nella Grecia e nell’Etruria, dall’Etruria e dalla Grecia nel nuovo orbe romano.
Credo, quindi, poter vaticinare che la religione futura, quando l’umanità avrà più sapienza e meno pregiudizi, consisterà in un ritorno alle sorgenti bramaniche, ritorno illuminato da grandi maestri, come Gautama, Pitagora, Socrate, Platone, Orfeo, Ermete, Mosè, Gesù, e via via fino ai profeti moderni, si chiamino Lamennais o Mazzini; ritorno confortato dalle scoperte scientifiche, che confermano le intuizioni, i dogmi, le teoriche esposte nei sacri libri indiani intorno all’etere, ai fluidi vitali, alle leggi della natura, alla stessa costituzione fisica del materiale universo».
Tocchiamo così, anzi siamo adesso pienamente approdati assieme a lui, a quella terra misteriosa verso la quale si sentì sempre più attratto, a quell’America di cui se non poteva essere il Colombo, gli sorrideva la speranza di non uscirne ultimo tra los conquistadores piú fortunati.
Noi siamo, adesso, davanti a quel Gandolin spiritista, che doveva trovare intorno a sé tanti consensi e tanti dissensi, e suscitare polemiche e discussioni tra dotti e indotti.
È convinzione di tutti coloro i quali più dimestichezza ebbero con Luigi Arnaldo Vassallo, che la causa prima, ed unica efficiente, della sua conversione allo spiritismo fosse la morte del figlio Naldino, mancato nella età giovinetta, quando il prossimo vigoreggiare dell’uomo si annunciava nel promettente fanciullo. Già dissi della somiglianza assoluta ch’egli presentava col padre; ma la espressione è troppo povera a rendere adeguatamente il vero. Mai vidi riproduzione più perfetta dell’esemplare uomo, una più completa identità. Ora, alla perdita crudele di quest’altro se stesso, il Vassallo non seppe, non volle rassegnarsi; e il desiderio insaziabile di spezzare le bronzee porte del Fato, di rivivere al di sopra della Morte, contro la Morte, con l’anima dell’anima sua, gli parve tramutarsi in certezza vittoriosa mercè lo spiritismo.
E s’immerse in questa penombra marginale tra il sogno e la realtà con la fede del carbonaio, come lo attesta il suo libro Nel mondo degli invisibili: - L’anima mia, scrivendo, è sgombra d’ogni dubbiezza; la mente è tutta vibrante d’energia e di sincerità. - Gli studi medianici parvero diventare per lui scopo unico della vita, confidando che dovessero, nientemeno «costringere gli scienziati a sviscerare compiutamente il grande problema che ogni altro supera, con la certezza incrollabile di giungere alla scoperta assoluta della verità». Anche in questo suo libro, il Vassallo della prima maniera non parve voler abdicare. Si vedano le pagine tutte humour sui contradditori superficiali e digiuni di studi, personificati in Scipione Tacchetti.
E lo vinse l’affannoso, intenso desiderio - il quale quasi ricrea - che nulla finisca nel tempo e nello spazio, e i cari fantasmi compiano ancora, almeno sognino di compiere, le azioni illuminate, un giorno, dal sole della vita. Sogno di sogno!... ma sconfinato di conforto, come tutte le religioni. E che altro è lo spiritismo, se non una religione? E non sarebbe, infatti, consolante di pensare, come lo pensava quel grande spirito malato di Gérard de Nerval, che l’eternità conservi nel suo seno una maniera di storia universale visibile agli occhi dell’anima, vero sincronismo divino? Il Vassallo aveva riposto in un concetto simile tutto l’ardore sincero di una fede; rispettabile, adunque, a chi è capace di serenamente pensare, tanto meglio se liberato da qualunque legame teurgico. Certo, egli se ne consolò. E bisogna averlo praticato anche allora per rendersi conto come sapesse ragionare la sua fede, con quale lucidità di pensiero, con quale logicità di raziocinio e con che sottigliezza di metodo discorsivo, argomentativo e deduttivo, egli che nessuna preparazione rettorica e filosofica poteva vantare. Era come la rivelazione di un nuovo Vassallo che si preparava; e nessuno può dire cosa sarebbe stata questa parousìa che dai più intimi vagamente si attendeva. Né era soltanto una di quelle allucinazioni come in certi istanti della vita, in cui pare di compiere un’azione già compita altra volta, o di ridire cose già dette in un’identica situazione, in un identico ambiente, che la psicologia ha definito «il senso del già sentito e del già veduto».
Talora gli balenava in mente (forse, lui inconscio, era il riecheggiare di vecchie letture, come il Roman de la momie del Gautier, od altre egizianerie di seconda mano) che noi avessimo due anime, l’una salda a tutto, l’essere nostro, l’altra dotata della facoltà di vagabondare fuori di noi, per cause arcane: la prima peritura con la morte del corpo; la seconda dotata dell’eternità, fonte e ragione di tutte le nostre successive esistenze.
La morte aperse le tenebre a questi pensamenti, e il mistero, coperto dall’ala sua, dovea continuare; ma non per lui, nel cui pensiero si era logicamente colmato quell’immensurabile vallo tra presente contingente e futuro eterno. A lui giovava, insomma, come a molti, ripetersi l’affermazione dello Schiller morente: «Molte cose a me dianzi oscure, si schiariscono ora e si fanno visibili».
E per questo diede vita a quel Circolo scientifico Minerva, che pose sua stanza in un ampio ma triste locale di via Giustiniani, istituto che si proponeva non già di abbandonarsi a volgari pratiche occultiste, ma di limitare, gli studi medianici ad un nucleo di persone di preparata cultura, di spirito di osservazione e di serietà d’intenti. E per comune consenso dei soci se ne volle presidente il Vassallo. Lo frequentavano scienziati come Enrico Morselli e il compianto dottor Giuseppe Venzano, mente aperta alle più elevate idee, d’una cultura quanto mai vasta, scorrente piacevole pei campi foranei alle dottrine non soltanto scientifiche, spiritista della prima ora, e di quelli studi autorevole interprete in dotte memorie pubblicate negli Annales des sciences psychiques del Dariex. Delle sedute che si tennero in quel Circolo col medium Eusapia Palladino, il Vassallo rese ampio conto nel volume già citato del Mondo degli invisibili.
Fu in una di quelle sedute, che egli si vide il figlio quasi tra le braccia, ne udì la voce pronunziare distintamente uno dei suoi tre nomi, Romano, ignoto fino ai più intimi amici. E potè discernere esteriorizzati, come in una visione nebulare; i lineamenti ben noti e cari, i capelli folti, crespi e corti, il mento arrotondato, il viso ovale e delicato, e riceverne sicura testimonianza, per un ricordo del giovinetto che il padre recava sempre, nascostamente, su di sé.
E come per quello spirito di oggettività che mi sono proposto, e sempre osservai in queste note, ciò riferisco, rilevo del pari che in più sedute svoltesi nel suo appartamento di piazza Umberto I (ma senza la Palladino e solo tra intimi ed amici) si rivelasse più volte tiptologicamente lo spirito di un fratello del Vassallo, tanti anni prima emigrato in America e allora creduto estinto. Anzi una volta, lo spirito espose come nel suo viaggio di ritorno perisse naufrago sulle coste del Portogallo. Orbene, il fratello viveva e da ultimo tornava felicemente a Genova. Più d’uno è superstite, che può smentirmi, laddove alterassi il vero. Rammento ancora come ad una di queste sedute assistesse Cesare Pascarella, il quale, con quel suo piglio d’impassibile arciere di quartine oraziane, soggiungeva quando a quando: «Che diamine! lo spirito si manifesta... quando c’è».
Oltre i fenomeni che il Vassallo vuole decisamente spiritici, astraendo dalla trasmissibilità del pensiero e dall’autosuggestione, colpisce la certezza con cui asserisce, nella più cristallina buona fede, di aver assistito sempre calmo, ragionevole, lucido e logico, per lunghe ore, alle sedute; non riflettendo come mai ciò possa conciliarsi con la intensa aspettativa, ad esempio, della materializzazione di Naldino, e dopo emozioni inevitabili. Ed è un fatto che io lo vidi tornare da quelle famose sedute, e con me più altri, turbato, depresso, con gli occhi arrossati.
Ma, a parte ciò con quel rincalzo da lui arrecato alle esplicite confessioni del Tuttle, non si vede come non rientri dalla finestra ciò che intendeva aver cacciato dalla porta: la tanto da lui abborrita teorica del sub-cosciente; e come rivolgendo sottosopra, abburattando e stacciando le conclusioni del medium anglo-sassone, la dottrina spiritistica intiera si ridurrebbe, su per giù, all’esteriorizzazione della motilità del De Rochas, col di più di una trasmissione del pensiero, divergente o concomitante a due vie cerebro-neuroniche; autosuggestioni invincibili - e perfino concretazioni estemporanee e temporanee, più o meno durabili, di manifestazioni plastiche. Il che non contrasterebbe, in ultima analisi, con nessuna delle risultanze a cui è giunta la fisiopsicologia, dal Wundt in poi. Ciò tutto, si comprende, come ipotesi; in omaggio, tuttavia, a quel principio fondamentale posto dagli stessi cultori degli studi medianici (intendo di quelli serii) che tra due spiegazioni dei fenomeni, la naturale e la trascendente, si deve, fin dove è dato giungere, attenersi alla prima.
Quante volte io ripenso al Vassallo, non mi riesce, di raffigurarmelo come lo vidi l’ultima volta, in quella sua simpatica dimora di via Corsica, irrigidito sul letto mortuario, mentre nel silenzio funebre rompevano, dall’ultima lontana stanza, i singhiozzi di quella gentile che gli era stata compagna dal primo fiorire della giovinezza. Possibile? Qui, davanti a me, gelida salma, l’arguto conversatore che l’altrieri ancora passava da una disamina critica delle elucubrazioni del Saint-Martin, il filosofo ignoto, alle più gioconde divagazioni su Margherito (prima creduto femmina, e perciò Margherita) il gatto pardo viziato da lui e fatto padrone e despota di casa, perché, come tutti gli spiriti arguti, riflessivi e delicatamente esteti, prediligeva questo tra i capolavori della creazione, sdegnato e non compreso dall’uomo, perché troppo a lui sottomano.
No, non così. Sempre, quando lo ripenso, è l’immagine del giovine Macobrio, del maturo e vigoreggiante Gandolin che mi sorge davanti; e l’accompagna una risata piena, sonora, da fanciullone, un vibrare argentino, di cui l’orecchio tutto tinnisce. Poi si attenua, lenta, quasi sfiaccolarsi di nube estiva. Ed altre immagini la inseguono ed investono, e allora una sensazione sola domina ed oblitera le altre: che più l’età s’inoltra, mancano queste anime amiche e crescono i fantasmi. Ma ciò come un lontano, pensoso richiamo che non sa di amaro.
- Voi che non credete al nuovo verbo dello spirito - aveva scritto nel suo libro di fede - interrogatemi appena io sia approdato all’altra riva. Vedrete se saprò rispondere. - Ero là: un velo nero si stendeva sul suo volto, trasparente così che pur nella penombra della stanza, non riusciva ad occultarne le fattezze: un tenue diaframma separava, celandolo, il mistero dell’oltretomba dall’enigma della vita. Interrogavo?... Quale messe di sogni falcia la Morte!