Gli antropofaghi del mare del Corallo

Emilio Salgari

1897 Racconti/Avventura Letteratura Gli antropofaghi del mare del Corallo Intestazione 31 dicembre 2017 75% Da definire


Gli antropofaghi del mare del Corallo


Dai più si crede che dopo l'occupazione di gran numero delle isole del grande Oceano Pacifico da parte della Francia, dell'Inghilterra, della Spagna, degli Stati Uniti e ultimamente della Germania, siano completamente scomparsi i feroci divoratori di carne umana della Polinesia e della Micronesia.

Invece quei ributtanti ghiottoni, che erano diventati il terrore dei naviganti di quell'immenso oceano, non sono del tutto scomparsi. Alla Nuova Zelanda, alle isole degli Amici, alle Samoa, alle Pigi, da quindici, da venti o da trent'anni, i banchetti di carne umana sono cessati dopo l'occupazione di quelle isole, ma nel così detto mare del Corallo, che bagna le isole Lusiade, la Nuova Brettagna, la Nuova Irlanda e le isole Salomone, le tribù antropofaghe sussistono ancora.

Guai alle navi che le tempeste spingono su quelle scogliere corallifere!...

Quanti disgraziati equipaggi, dopo d'aver lottato contro il furore del mare, sono caduti sotto i denti di quei voraci isolani!... La lista delle vittime è lunga, come sono molte le navi fracassatesi su quelle spiagge poco conosciute.

Ma il disastro più tremendo, più drammatico, che ha prodotto una grande impressione in tutte le città australiane, e che ha scatenato le vendette delle autorità inglesi, è quello toccato alla Nuova Galega al principiare del 1884.

Essendomi trovato a Sidney quando approdarono gli ultimi superstiti di quel disastro raccapricciante ne potei finalmente raccogliere i più minuti particolari.

La Nuova Galega era salpata da San Giovanni di Guam, una delle principali isole dell'arcipelago delle Marianne, diretta a Sidney con un carico di sete di provenienza giapponese ed un numero ragguardevole di isolani di Lieu-Kieu, i quali contavano di andare a lavorare le miniere d'oro della Nuova Galles meridionale.

Era un bel tre alberi, attrezzato a nave, della portata di milleseicento tonnellate, varato sette anni prima nei cantieri di Manilla e di nazionalità spagnola. Lo comandava il capitano Fernando Ortega un audace ed istruito uomo di mare, e funzionava da secondo Esteban Balboa, un giovane ufficiale, ma che sapeva per bene il conto suo, e che aveva già date prove di essere un valente marinaio.

Le mie note non dicono a quanto ammontasse l'equipaggio, ma se la memoria non mi inganna, fra marinai e passeggieri dovevano essere duecento o giù di lì. Anzi mi rammento che l'«Australian Gazzette» portava appunto per titolo: «Duecento uomini divorati alle isole Salomone».

La traversata della Nuova Galega non doveva essere facile, dovendo il veliero passare attraverso ad arcipelaghi poco noti e dove i coralli modificano annualmente i dintorni delle coste ed il fondo dei canali, continuando la costruzione e l'innalzamento di nuovi isolotti assai pericolosi.

Nessun pericolo vi era da temere attraverso alle isole Caroline, arcipelago già molto conosciuto dal capitano Ortega ma non poteva dirsi altrettanto attraverso le isole dell'Ammiragliato, della Nuova Brettagna, della Nuova Irlanda, delle Salomone e soprattutto dell'intricatissimo e male noto arcipelago delle Rossel o delle Lusiade, il più prossimo alle coste australiane orientali.

Malgrado i pericoli che offriva quella lunga navigazione, il 24 gennaio la Nuova Galega era giunta felicemente nello stretto della Nuova Irlanda quando un avvenimento, che doveva avere disastrose conseguenze, scoppiò a bordo. I numerosi passeggieri si erano coricati da alcune ore, e sul ponte non erano rimasti che gli uomini di quarto, quando, poco prima della mezzanotte, mentre la nave si avanzava lentamente avvicinandosi alle prime isole dell'arcipelago delle Salomone, un marinaio credette di scorgere un sottile filo di fumo uscire dalle fessure del boccaporto maestro.

Spaventato, s'affrettò ad informare il secondo di bordo, il giovane Balboa, che si trovava sul castello di prora, chiacchierando col mastro d'equipaggio. La cosa era grave, poiché se era scoppiato l'incendio nella stiva, la nave aveva ben poche probabilità di sfuggire ad un completo disastro.

Balboa, il mastro ed il marinaio s'affrettarono ad avvicinarsi al boccaporto e videro infatti che del fumo sfuggiva attraverso il tavolato, spandendo all'intorno un odore di bruciaticcio.

— È scoppiato il fuoco nella stiva — disse l'ufficiale, impallidendo. — Che le sete si siano incendiate? — chiese il mastro.

— Non vi è più da dubitare.

— Ma in quale modo?

— Forse per l'imprudenza di qualche passeggiero. Non perdiamo tempo: avvertite il capitano.

Il signor Ortega che stava dormendo tranquillamente nella sua cabina, fu pronto ad accorrere in coperta, chiedendo a Balboa:

— È vero che bruciamo?...

— Il fuoco è nella stiva, capitano — rispose il secondo.

— È grave?

— Non lo sappiamo ancora.

— Speriamo di combatterlo prontamente. Quattro uomini al boccaporto, in coperta i marinai tutti e si preparino le pompe.

— Devo far suonare l'allarme?...

— No, signor Balboa. I passeggieri lasciateli dormire per ora. Non farebbero altro che accrescere la confusione. Spicciatevi, mastro!...

Un istante dopo tutto l'equipaggio era in coperta. Quei bravi marinai, apprendendo la triste notizia, non si erano abbandonati ad alcun atto di disperazione, anzi nemmeno ad un solo commento; erano saliti per lottare fino all'estremo contro l'elemento distruggitore e con una calma ammirabile.

Mentre alcuni allestivano le pompe procurando di non far rumore per non attirare in coperta i passeggieri, ed altri preparavano le manichelle e raccoglievano i mastelli e le secchie, quattro uomini della cala si affrettavano a levare le aste di ferro del grande boccaporto.

Il capitano ed il secondo ascoltavano con profonda attenzione, in preda ad una viva ansietà.

Ad intervalli si udivano dei cupi ronzìi salire dalle profondità della nave, poi degli scricchiolìi soffocati, quindi dei tonfi che parevano prodotti dalla caduta dei puntali o delle traverse, e dei getti sempre più neri di fumo ed impregnati dell'acre odore del catrame irrompevano dalle fessure.

— Spicciatevi! — diceva il capitano con voce rotta.

Le ultime sbarre furono finalmente strappate ed il boccaporto, sollevato da una spinta irresistibile, fu rovesciato sulla coperta.

Tosto una fiamma immensa, gigantesca, irruppe dalla grande apertura e si allungò verso le vele dell'albero maestro, lanciando in aria nuvoloni di fumo e nembi di scintille.

— Indietro! — aveva urlato il capitano, respingendo Balboa ed il mastro.

Quasi nel medesimo istante, nel ventre della nave, echeggiò un clamore assordante.

— Bruciamo!...

— Aiuto!...

— Alle pompe!...

— Tutti sul ponte!...

Poi una valanga d'uomini seminudi, cogli occhi strambuzzati, i lineamenti alterati dallo spavento, si rovesciò sulla tolda sbucando dai boccaporti di prora e di poppa.

Erano gli emigranti giapponesi che l'incendio aveva scacciati dalle loro camerate. Quel torrente di persone, impazzite dallo spavento, si sparse pel ponte tutto travolgendo, marinai, manichelle e secchie, e si divise in due, parte ripiegando sul castello di prora e parte sul cassero.

Domande, risposte, urla, gemiti, s'incrociavano attraverso i turbini di fumo e le folate di scintille.

— Cosa succede?...

— Siamo perduti!...

— In acqua le scialuppe!...

— Non vogliamo arrostire!...

— Aiuto!... Soccorso!... Capitano!...

Il capitano Ortega, vedendo irrompere tutta quella gente, aveva impugnate prontamente le sue pistole, risoluto a tenere in freno quegli isolani che minacciavano di ritardare l'opera di estinzione. Si avanzò verso il cassero, che era gremito di emigranti, gridando:

— Calma, ragazzi!... La nave non è ancora perduta, anzi spero di domare l'incendio. Chi vuole lavorare per la salvezza comune si disponga alle pompe o prenda parte alla catena dei mastelli, ma vi giuro che il primo che tocca le scialuppe o che ingombra la tolda, lo uccido come un cane. A me, marinai!... Tutti alle pompe!...

Alcuni emigranti, i più coraggiosi, balzarono sulla tolda, gridando:

— Ci siamo anche noi, capitano.

— Formerete la catena, ragazzi.

Gli altri, incoraggiati dall'esempio, a tre, a cinque, poi a dieci alla volta, lasciarono il castello di prora ed il cassero, mettendosi a disposizione del capitano.

Tutti, comprendendo che la nave correva il pericolo di bruciare sotto i loro piedi e di abbandonarli sui flutti di quel pericoloso mare, volevano tentare la lotta contro l'elemento divoratore.

La Nuova Galega stava proprio per mancare sotto i piedi degli uomini che la montavano. Non era che questione di ore, poiché ormai l'incendio si era sviluppato così rapidamente da invadere tutta l'immensa stiva.

Chissà, forse covava da parecchio tempo e l'invasione dell'aria irrompente attraverso il boccaporto lo aveva ravvivato con violenza straordinaria.

La lunga fiamma, dopo di aver minacciato di incendiare la velatura, si era abbassata, ma tutta la stiva era in fuoco.

Attraverso ai nuvoloni di fumo e di scintille si vedevano guizzare in tutte le direzioni vampe smisurate, le quali, di tratto in tratto, si slanciavano fuori dal boccaporto, illuminando sinistramente il mare.

Sì udivano già i puntali a cadere, le traverse a capitombolare, ed i bagli ed i corbetti scricchiolare, mentre all'esterno il catrame delle fessure bolliva e ribolliva. Il capitano e Balboa erano scesi nelle camerate di prora e di poppa e le avevano già trovate invase dal fumo. Senza dubbio le tramezzate cadevano a poco a poco sotto le vampe distruggitrici.

— La Nuova Galega ha le ore contate — disse Ortega con voce commossa. — Le nostre pompe non riusciranno a vincere le fiamme.

— Allora vuol dire che noi siamo perduti — rispose il secondo. — Le nostre scialuppe non possono contenere la metà degli emigranti, signore.

— Lo so, e perciò cercherò di spingere la nave verso l'isola più prossima.

— Siamo a sei miglia da Guadalcanar.

— Speriamo di raggiungerla.

— Ma dopo!... Non ci daranno addosso i selvaggi?

— Ci difenderemo come potremo.

Risalirono in coperta. I marinai e gli emigranti lavoravano con accanimento, credendo di poter riuscire a vincere l'incendio.

Le pompe funzionavano rabbiosamente vomitando torrenti d'acqua sopra quella fornace ardente, e le secchie ed i mastelli si riempivano e si vuotavano senza posa, passando di mano in mano agli uomini formanti le catene, ma pareva che invece d'acqua cadesse nella stiva del petrolio o qualche altro liquido infiammabile, poiché le vampe salivano sempre, come fossero ansiose di distruggere anche l'alberatura.

Il capitano Ortega e Balboa, saliti sul castello di prora, esaminarono attentamente l'orizzonte, e parve a loro di scorgere, confusa fra le tenebre, una massa oscura che s'alzava verso l'est.

— È là l'isola — disse il secondo.

— Sì — confermò Ortega. — Il vento è debole, ma se l'alberatura non prende fuoco, fra tre ore possiamo toccare la Guadalcanar.

— Resisterà tanto la Galega?

— Lo spero, Balboa. I nostri uomini pompano a tutta lena.

Non era necessaria alcuna manovra di velatura, trovandosi la nave sulla buona rotta, diritta il filo dell'isola; bastava solo un mezzo giro di ruota del timone per puntare la prora verso la costa più vicina.

I due comandanti, senza avvertire alcuno per tema che gli emigranti si spaventassero di più, modificarono la rotta e la Nuova Galega, spinta da un leggero vento che soffiava dal nord-ovest, si avanzò lentamente verso l'isola degli antropofaghi che giganteggiava fra le tenebre.

Intanto l'incendio guadagnava sempre con rabbia incredibile. L'ampia stiva del veliero era diventata un mare di fuoco, che nessun torrente d'acqua poteva ormai domare.

Le sete bruciavano come fastelli di legna secca e tutto il legname del frapponte, i puntali, le traverse, le tramezzate lo alimentavano. Il fumo irrompeva da tutte le parti: dai boccaporti, dalle uscite del quadro, dalla camera dell'equipaggio e dai finestrini.

Il fuoco aveva ormai invaso le camerate, le cabine, la dispensa, i depositi dell'attrezzatura ed avvampava a prora ed a poppa. Vi era il pericolo che la coperta, priva dei sostegni, precipitasse da un istante all'altro in quella voragine ardente.

Già le tavole bruciavano i piedi nudi dei marinai ed il catrame delle commessure bolliva e si riversava verso il centro della tolda, malgrado l'acqua scorresse da prora a poppa. Vi era anche il pericolo che l'alberatura, carbonizzata alla base, precipitasse in coperta, immobilizzando la Nuova Galega.

Già quello di maestro di quando in quando scricchiolava e pareva che subisse delle oscillazioni verso il tribordo, tendendo i paterazzi e le sartie di babordo.

D'improvviso una viva luce apparve sopra la nave fra le vele ed i cordami. Un grande urlo echeggiò fra i duecento uomini che ingombravano la coperta della Nuova Galega.

— Brucia la velatura!...

E pur troppo era vero!... Le scintille che irrompevano a ondate dalla voragine fiammeggiante, avevano comunicato il fuoco alla gran gabbia dell'albero maestro.

Il capitano Ortega si slanciò in mezzo al ponte, tuonando:

— In alto i gabbieri!... Strappate la gran gabbia!...

Alcuni uomini, i più audaci, s'aggrapparono alle griselle col coltello di manovra fra i denti, ma subito si videro scendere a precipizio.

— In alto!... — ripetè il capitano, con voce minacciosa.

La risposta l'ebbe pronta. Il grand'albero, consunto alla base dal fuoco, precipitava con un orribile scroscio, spezzando, come se fossero semplici cordicelle, i grossi paterazzi e le sartie.

Urla di terrore echeggiarono fra i vortici di fumo e di scintille.

— Tutti a babordo!...

— Attenti alle teste!...

— Siamo perduti!... è finita!...

Il grand'albero cadeva con strepito spaventevole, mentre i marinai abbandonavano precipitosamente le pompe e gli emigranti si affollavano a tribordo, aggrappandosi alle imbarcazioni.

Il pesante tronco andò a fracassare la murata di tribordo e parte del castello di prora, immergendo nelle onde la punta e le vele di pappafico e di contropappafico.

La maestra e la gran gabbia bruciavano già, scoppiettando.

Una indescrivibile confusione accadde allora sulla tolda della Nuova Galega.

Marinai ed emigranti correvano all'impazzata lungo le murate, disputandosi ferocemente le scialuppe.

Più nessuno obbediva ai comandi del capitano, del secondo e del mastro, e più nessuno ritornava alle pompe. Ormai comprendevano che per la nave tutto era finito.

D'improvviso la Nuova Galega provò una brusca scossa. Delle onde balzavano lungo i bordi, muggendo e spumeggiando, e l'alzavano da prora a poppa.

Balboa, che si trovava sul cassero, cercando di respingere i marinai e gli emigranti, si curvò sulla murata e guardò.

A tre o quattrocento metri scorgeva una costa, dalla quale si staccavano delle file di scogliere. Dalle forti ondate correvano fra quelle punte rocciose, frangendosi e rifrangendosi con fracasso.

— La risacca!... — tuonò. — Andiamo a toccare!...

Quasi nel medesimo istante la Nuova Galega, sollevata da un'onda, cadeva pesantemente nel mezzo d'una scogliera, con un cupo rimbombo.

La chiglia e parte dei corbetti di tribordo si sfasciarono, mentre i due alberi di trinchetto e di mezzana precipitavano sul ponte.

Le acque si scagliarono attraverso le squarciature invadendo la stiva.

Nell'interno della nave si udirono dei sibili acuti, degli stridìi, poi una immensa nuvola di vapore acqueo irruppe violentemente dal boccaporto e la luce dell'incendio si spense bruscamente.

In mezzo alle tenebre si udì la voce del capitano che diceva:

— È finita!... Gli scogli di Guadalcanar non ci lasceranno più!...

Le isole Salomone, su una delle quali era andata a fracassarsi la Nuova Galega, formano un vasto arcipelago che si estende dal 4° al 10° di latitudine meridionale, e dal 152° al 162° di longitudine orientale, su una lunghezza di duecento leghe fra il sud-est ed il nord-ovest e una larghezza massima di cinquanta.

Cinque sono le isole maggiori: Cristoval, che è lunga ventisei leghe e larga sette, e che è circondata da Catalina, dal gruppo delle Tre Suore, da Anna, da Golfo e da Sesarga, tutte più piccole.

Guadalcanar che è lunga ventiquattro leghe e larga otto, situata al nord-ovest di Cristoval, e che ha intorno a sé le isole Marr, Murray, Buena-Vista, Galera e più oltre il gruppo delle Arsacieli.

Isabella, che è situata in mezzo all'arcipelago, è la più grande di tutte, avendo trentacinque leghe di lunghezza e otto di larghezza, mentre Bougainville che viene dopo per vastità è lunga trentacinque pure, ma è così stretta che sembra una fascia di terra, essendo larga appena tre leghe.

Vengono in seguito Choiseul, grande quanto Cristoval, poi Winchelsea, Shortland, Zana, Neurna e molte altre più piccole. Tutte queste isole sono di aspetto ridente, coperte di boscaglie di noci di cocco, di alberi del pane, di betel, di cedri, di alberi gommiferi e di piantagioni di canne di zucchero e di zenzero, in mezzo alle quali vivono gran numero di porci, di cani, di serpenti, di rospi grossi assai, forniti di una specie di cresta, e di formiche grandissime, dai morsi crudeli.

Gli abitanti di quelle terre sono poi i più brutti, i più feroci ed i più abbietti di tutta la famiglia umana.

Vanno affatto nudi e per ornamento non hanno che un pezzo d'osso passato fra le cartilagini del naso o pochi braccialetti di conchiglie. Usano però talvolta dipingersi di bianco con della polvere di calce.

Vivono come le fiere, ma hanno dei capi che godono una sconfinata potestà, che possono prendersi tutto ciò che a loro aggrada, e che fanno uccidere coloro che inavvertitamente calpestano la loro ombra!...

Molti sono gli equipaggi caduti nelle mani di quei feroci abitanti e tutti terminarono allo spiedo o nei pentoloni a bollire colla salsa verde.

L'americano Morrell perdette quattordici dei suoi marinai che furono trucidati sotto i suoi occhi, arrostiti e divorati, ma ritornato pochi mesi dopo con nuovi compagni, ne fece una strepitosa vendetta, mitragliando villaggi e abitanti in grande numero.

Anche Mendana, il primo navigatore che scoprì quelle isole, dovette far tuonare le sue artiglierie, e dopo di lui anche tutti gli altri animosi che si recarono a visitare quelle terre, Bougainville, Surville, D'Entrecasteaux ed altri.

Se i marinai e gli emigranti della Nuova Galega erano sfuggiti all'incendio, correvano ora il pericolo di finire sotto i denti degli antropofaghi.

La nave era ormai irremissibilmente perduta, perché le scogliere le avevano sventrato la carena, mentre le fiamme avevano rovinato tutto il resto, compresa l'alberatura.

I marinai e gli emigranti, passato il primo momento di spavento, vedendo spegnersi bruscamente l'incendio sotto l'improvvisa invasione delle acque e scorgendo la costa a poche gomene di distanza, avevano ricuperata la calma.

Erano almeno certi di non venire bruciati vivi, né di affondare assieme alla nave.

Il capitano Ortega e Balboa si erano calati sui frangenti per vedere se vi era la possibilità di far guadagnare la costa agli emigranti, non essendo rimasta intatta che una sola scialuppa, e s'accorsero che al di là delle rocce si estendevano vari banchi di sabbia che la bassa marea aveva lasciati scoperti.

— All'alba faremo il trasbordo — disse Ortega.

— Ma cosa faremo noi in quest'isola? — chiese Balboa.

— Per ora ci accamperemo.

— Ma ci lasceranno tranquilli i selvaggi? Voi sapete che quelli delle isole Salomone sono perfidi e che non hanno pietà dei naufraghi.

— Lo so, signor Balboa, ma cercheremo di costruire un piccolo campo trincerato, e poi siamo molti e le armi non ci mancheranno.

— Temo, capitano, che siano le armi che mancheranno, poiché l'incendio ha distrutto tutto il quadro di poppa.

— Ecco una perdita che potrà esserci fatale, ma cercheremo di non rimanere molto tempo su questa isola. Coi rottami della Nuova Galega costruiremo una grande zattera e tenteremo di raggiungere le coste orientali dell'Australia. Torniamo a bordo, signor Balboa, e facciamo raccogliere i viveri sfuggiti all'incendio.

Risalirono sulla nave naufragata ed informarono gli emigranti che il trasbordo era possibile. I marinai, guidati da Balboa e dal mastro, scesero nel quadro, nella stiva e nelle camerate per raccogliere ciò che poteva essere utile.

Disgraziatamente l'incendio aveva divorato quasi tutto l'interno della nave.

Solamente parte della camera comune di prora e poche cabine erano state risparmiate dall'elemento distruttore e ben poche cose poterono raccogliere.

I viveri ritrovati fra le macerie del magazzino si riducevano ad alcune casse di biscotti, ad alcuni barili di carne salata e di farina e ad alcuni sacchi di zucchero.

Era molto se si potevano nutrire quei duecento e più uomini per quattro o cinque giorni.

Anche le armi rinvenute erano poche per poter sostenere un assalto da parte dei selvaggi dell'isola. Erano stati trovati tre soli fucili, una mezza dozzina di pistole, alcune sciabole e parecchie scuri. Anche le munizioni erano assai scarse.

— Tristi condizioni — disse il capitano, quando potè fare l'inventario di tutto.

— Io non so come la finirà, se i selvaggi verranno ad assalirci. Signor Balboa, radunate tutti sul ponte e cominciamo il trasbordo, ma abbiate la precauzione di far prima avanzare gli uomini armati di fucili e di pistole.

Cominciava allora ad albeggiare. Ad oriente gli astri impallidivano rapidamente e una luce rossa si diffondeva pel cielo, permettendo ai naufraghi di distinguere le coste dell'isola ed i banchi.

La Nuova Galega era naufragata a quattrocento passi da una spiaggia coperta di folte boscaglie di palme a ventaglio, di cocchi e di banani selvatici.

Non si vedeva alcuna capanna, né alcun canotto che indicassero la presenza dei selvaggi su quella parte dell'isola, ma sotto le foreste poteva accampare qualche tribù, ed era cosa prudente mandare innanzi degli uomini armati.

Balboa radunò quindici marinai scelti fra i più robusti ed i più audaci, armati dei fucili, delle pistole, delle sciabole e di alcune scuri e s'avanzò attraverso ai banchi di sabbia, che la bassa marea aveva lasciati scoperti.

Giunto sulla sponda, battè il bosco per un raggio di cinquecento metri, accompagnato sempre dai suoi uomini, ma non vide che poche coppie di kakatue, bellissimi uccelli colle penne bianche ed il capo sormontato da un grazioso ciuffo color rosso fuoco.

Rassicurato dal silenzio che regnava, ritornò alla spiaggia, e avvertì il capitano di cominciare il trasbordo.

Gli emigranti ed i marinai, che erano impazienti di lasciare il rottame, s'affrettarono a scendere sui banchi, portando con loro le casse dei viveri, le vele sfuggite all'incendio e molto legname per costruirsi alla meno peggio dei ricoveri.

Un'ora dopo i naufraghi della Nuova Galega si trovavano accampati sulla spiaggia di Guadalcanar.

Rizzate le tende, assestato l'accampamento, costruite all'intorno delle piccole trincee coi rottami che le onde avevano spinte verso la spiaggia e scelti gli uomini di guardia, il capitano Ortega radunò i marinai e gli emigranti a consiglio, per decidere sul da farsi.

Espose a loro i gravi pericoli a cui erano esposti rimanendo su quell'isola abitata dai più feroci antropofaghi della Polinesia, e l'impossibilità di arrestarsi colà per parecchi giorni per la scarsità dei viveri, aggiungendo che l'unica loro salvezza consisteva nella costruzione di una o più zattere, colle quali avrebbero forse potuto raggiungere le coste orientali dell'Australia.

Il consiglio del capitano fu accettato senza obbiezioni e la costruzione delle zattere fu decisa senza perdita di tempo.

Essendo il mare tranquillo, s'affrettarono ad approfittarne. Mentre una parte degli emigranti ed i marinai muniti delle armi da fuoco rimanevano a guardia del campo, gli altri si recarono in massa attorno alle scogliere, guidati dal capitano e dal secondo.

Gli uomini armati di scuri si posero tosto febbrilmente al lavoro, demolendo le murate della nave, la coperta, le cabine risparmiate dal fuoco e tagliando gli alberi ed i pennoni che dovevano servire alla formazione degli scheletri delle zattere.

I due comandanti dirigevano il lavoro e insegnavano agli emigranti il modo per costruire quei galleggianti.

Nessun grave avvenimento accadde durante quella prima giornata, e gli emigranti ed i marinai poterono lavorare a loro comodo.

Alla sera una zattera era già costruita, lunga dodici metri e larga sei, capace di portare una cinquantina di persone.

Quando i lavoranti tornarono a terra il capitano s'affrettò a chiedere se qualche selvaggio era stato scorto nelle vicine foreste, ma ebbe risposta negativa.

Pareva che quella parte dell'isola fosse proprio disabitata. Nondimeno furono scelti gli uomini di guardia, per vegliare durante la notte.

Tutti si erano coricati sotto le tende e sotto le capanne improvvisate con rami e foglie, e russavano tranquillamente da parecchie ore, quando furono improvvisamente destati da acuti clamori che venivano dalla parte delle foreste.

Gli uomini di guardia avevano già dato l'allarme e qualche colpo di fucile era rintronato sul margine dell'accampamento.

Mentre i marinai e gli emigranti, spaventati da quelle vociferazioni, balzavano precipitosamente fuori dalle tende e dalle capanne, armandosi di quanto capitava loro sotto le mani, il capitano Ortega e Balboa si erano slanciati verso le sentinelle.

Non le avevano ancora raggiunte, che videro irrompere attraverso al campo una fiumana d'orridi selvaggi armati di mazze e di lance dalla punta d'osso.

Erano trecento, quattrocento, forse cinquecento. L'assalto fu così improvviso, che gli uomini di guardia ebbero appena il tempo di fare una scarica. Fu la prima e l'ultima, poiché sparvero tutti sotto quella valanga d'uomini, uccisi dalle pesanti mazze degli assalitori.

La resistenza era vana contro quell'orda di selvaggi, i quali balzavano innanzi come una banda di tigri in furore, empiendo l'aria di urla acute, spaventevoli; pure gli emigranti ed i marinai non cadevano senza difesa. Quantunque non avessero avuto il tempo di radunarsi e si trovassero per la maggior parte armati di semplici bastoni, si difendevano coll'energia della disperazione.

Divisi in vari gruppi, addossati alle tende e alle capanne, maneggiavano furiosamente le scuri, le sciabole, i ramponi; ed i giapponesi, maestri nel maneggio del bastone, non cadevano invendicati.

Ma, come si disse, nulla potevano contro il numero e contro le lance e le mazze dei selvaggi e pur uccidendo degli assalitori, cadevano a dozzine. Ortega , Balboa, il mastro e dieci o dodici marinai, raccoltisi sulla spiaggia, cercavano di far fronte agli antropofaghi. Essendo per lo più armati di sciabole e di qualche pistola, poterono respingere gli assalitori, ma compresero tosto che non potevano illudersi della vittoria.

In pochi minuti più di mezzi emigranti erano stati uccisi e gli altri si trovavano in procinto di seguirne la sorte.

Tentarono un supremo sforzo per unirsi ad un gruppo di marinai, ma vennero a loro volta respinti fino alla spiaggia e costretti poi a salvarsi sui banchi.

— Alla zattera! — urlarono i marinai.

— No — gridò Ortega. — Uno sforzo ancora, amici!

— Si salvi chi può! — risposero invece i suoi compagni e fuggirono attraverso ai banchi, lasciandolo solo con Balboa.

Rimanere ancora su quella spiaggia maledetta sarebbe stato un sacrificio inutile.

Ormai quasi tutti gli altri erano stati uccisi e gli antropofaghi si preparavano ad accendere i fuochi per cominciare un mostruoso banchetto.

Il povero capitano ed il suo secondo, piangendo di rabbia e di dolore, furono costretti a seguire i loro compagni, i quali avevano di già alzata la vela della zattera e tagliate le funi che la univano al rottame della Nuova Galega.

Ebbero appena il tempo di issarsi sul galleggiante. Gli antropofaghi correvano già sui banchi, scagliando nubi di lance.

Fortunatamente il vento soffiava dalla parte della spiaggia e la zattera potè prendere rapidamente il largo, inoltrandosi nel mare dei Corallo.

Prima però che perdessero di vista le spiagge maledette del Guadalcanar, i superstiti poterono ancora scorgere giganteschi fuochi sui quali arrostivano i disgraziati loro compagni.

Il viaggio di quei nove superstiti del numeroso equipaggio, attraverso agli arcipelaghi delle Salomone, della Nuova Irlanda, della Nuova Brettagna e delle Lusiadi, fu una lunga sequela di patimenti inenarrabili.

Non essendo stato imbarcato alcun cibo, quei disgraziati corsero parecchie volte il pericolo di morire di fame e di sete, non osando sempre avvicinarsi alle numerose isole che incontravano, per la tema di venire massacrati e poi divorati da quelle crudeli popolazioni.

Non vissero che di noci di cocco e di frutta di alberi del pane, che raccoglievano sulle deserte isole corallifere che si trovano in buon numero in quei paraggi.

Dio però ebbe pietà delle loro miserie. Ventidue giorni dopo quello spaventevole disastro, i superstiti incontravano una nave olandese nelle vicinanze del banco di Diana, a circa trecento miglia dalle coste orientali dell'Australia.

Furono tosto raccolti, nutriti, curati e condotti a Sidney, essendo la nave salvatrice diretta in quell'importante città marittima.

Il governo inglese, incoraggiato dalla stampa, la quale intanto aveva aperte sottoscrizioni a favore dei superstiti, raccogliendo somme ragguardevoli, non tardò a vendicare le vittime.

Due incrociatori furono mandati nelle acque dell'isola di Guadalcanar, e bombardarono tutti i villaggi della costa e distrussero gran numero di piantagioni.

Quantunque siano trascorsi dodici anni, è probabile che quei feroci mangiatori di carne umana si rammentino ancora di quella sanguinosa vendetta.