Gli amori pastorali di Dafni e Cloe/Appendice
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Traduzione dal greco di Annibale Caro, Sebastiano Ciampi (XVI secolo)
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[ed ella, avvicinatasi alla fonte, le chiome e il corpo tutto vi si lavò. Avea la capellatura nera e folta e le membra abbronzate dal sole: taluno avrebbe creduto che quella brunezza fosse l'ombra delle chiome. Cloe mirava Dafni e le parca bello; ma perciocché fino allora non le era tale sembrato, stimò quel bagno cagione della bellezza. Ella pertanto lavandogli il dorso ne sentiva le carni cosí pastose, che spesso palpava di furto le proprie, sperimentando s'elle fossero piú delicate. Ma il Sole ornai sendo all'occaso, ricondussero le gregge alle lor mandre, né altro piú rimase a Cloe fuorché la brama di rivedere Dafni alla fonte. Il giorno seguente, poiché uscirono alla pastura, Dafni, siccome era uso, postosi a sedere sotto la quercia, dava fiato alla sampogna, e insieme aocchiava le sue capre le quali giacevano intente a quel suono. Cloe, assisa pressogli, guardava ben ella il suo branco di pecore, ma il piú era fisa in Dafni. Le sembrava bello di nuovo sonando la sampogna, e di nuovo ne stimava cagione quella melodia: talché, dopo lui, prese ella quello stromento, come se perciò dovesse pur bella diventare. Lo indusse quindi a lavarsi di nuovo, e il vide nel bagno, e veggendolo il palpò, e ne usci lodandolo nuovamente, e quella lode era principio di amore. Né la semplicetta, rusticamente allevata, intendeva che fosse la sua perturbazione, perciocché non avea tampoco udito proferirsi da altri il nome di Amore. Le ingombrava però l'animo una certa angoscia, né poteva contenere gli occhi, e molto cicalava di Dafni. Non si curava di cibo, vegliava le notti, non le caleva del gregge. Ridea, píagnea, si coricava, poi rimbalzava, alternamente. Or pallida il volto, or infiammata. Né pur giovenca trafitta dall'assillo trambascerebbe cotanto. Alcuna volta in solitudine le sottentravano in mente questi pensieri: - Io sono inferma, di qual malore non so. Mi duole, né ho ferita: mi struggo, e niuna delle pecore ho guasta. Ardo, pur seggo in cotanta ombra. Quante spine talvolta mi punsero, e pure non piansi: quante api mi penetrarono col puntiglione, pure, il cibo gustai. Ma la ferita ch'or sento nel cuore è piú di tutte quelle tormentosa. Bello Dafni, ma belli anco i fiori: dolce suona la sampogna sua, ma dolci pur sono le cantilene de' rusignuoli. Tuttafiata di queste non mi cale. Oh fossi io la siringa sua, onde l'alito di lui mi s'infondesse! foss'io una capra da lui condotta alla pastura! Ahi trista fonte! Il solo Dafni rendesti bello, io mi ti immersi in darno. Care ninfe, io svengo, e voi me fanciulla da voi nutrita non salvate? Chi d'ora in poi vi offerirà corone, chi vi serberà gli agnelli sventurati? Chi piú avrà cura dello stridente grillo il quale io con molta diligenza raccolsi, affinché mi assonnasse cantacchiando presso lo speco? Ora in vece per Dafní io vegghio, mentre il grillo in vano stride -. Tali erano i suoi affetti, tali i suoi ragionamenti nello investigare la per lei sconosciuta potenza di Amore.
Ma Dorcone, quel bifolco il quale aveva tratti dalla fossa Dafni e il caprone, garzoncello di fresca lanugine, scaltro nelle opere e ne' ragionamenti di Amore, da quel dí incontanente compreso da amore per Cloe, e coll'andare del tempo vie piú l'anima accendendosegli, non curando qual fanciullo Dafni, deliberò macchinare co' doni e con la violenza. Incominciò quindi a presentargli ambidue: a lui una sampogna pastoreccia di nove canne, invece di cera, congiunte col rame: a lei una pelle di cervo da baccanti, screziata a macchie bianche. Venuto poi in dimestichezza, egli in breve trascurò Dafni e ogni dí a Cloe o molle cacio o serto florido o mature poma offeriva. Talvolta le recava o tralcio montano o una coppa dorata, o uccelletti silvestri da nido. Ella, inesperta degli amorosi artifizj, prendendo questi doni si rallegrava spezialmente, perché con essi acquistava di che presentare Dafni. Ma era tempo omai che Dafni conoscesse le opere di Amore. Avvegnaché Dorcone eccitò contro lui contesa intorno la bellezza. Cloe n'era giudice, il premio del vincitore dovea essere il baciarla. Dorcone in questa guisa incominciò: - Io, o fanciulla, sono guardiano di buoi, di capre lo è costui: e però io gli rimango superiore, quanto i buoi alle capre lo sono. Mi vedi candido come il latte, e biondo qual messe cui sovrasta il mietitore. Me la madre, non una bestia nutricò. Vedi costui picciolo, e qual femmina sbarbato, nero come lupo; pastore di becchi, ne spira il tanfo. Desso è meschino cotanto che né pure sostenta un cane. Ma se, come è fama, una capra lo allattò, egli per nulla differisce da capretti -. Questi e simiglianti pensieri espose Dorcone, a' quali Dafni rispose: - Me allevò una capra, cosí pur Giove. Pasco i miei becchi in guisa che appariranno migliori de' bovi di costui. Da me non esala sito caprigno, come né pure da Pane, benché sia la maggior parte becco. A me bastano cacio, focacce, vin bianco, nutrimenti da contadino, e non da ricco. Io sbarbato? Bacco lo è del pari. Io bruno? lo sono anco i giacinti. E pure Bacco sopravanza i satiri, ed il giacinto i gigli. Costui però è di pelo rosso come volpe, barbuto qual caprone, biancastro qual femmina urbana. Che se tu abbia talento di baciare, di me combacieresti le labbra, di costui la barba irsuta. Sovvèngati, o fanciulla, che sei nutrita nell'ovile, ma che sei bella - . Non piú si rattenne la Cloe, ma, in parte lieta per quelle lodi, in parte bramosa di ribaciare Dafni, lanciatasi lo baciò. Garzone di schietta natura, senza artifizj, era valente assai a destar fiamma nel cuore. Dorcone allora umiliato si sottrasse, meditando altra via di Amore. Dafni però, quasi morso anziché baciato, incontanente squallido in viso, abbrividava spesso, né potea calmare i palpiti del cuore. Volea pur mirare la Cloe, e mirandola tutto si copriva di subitano rossore. Allora si avvide per la prima fiata che le chiome di lei erano bionde, gli occhi splendidi e grandiosi, il volto manifestamente piú candido del latte caprino, come se in quello istante acquistasse gli occhi per l'addietro ciechi. Né di poi usava cibo se non come assaggiandolo, né bevanda, allorché sforzato vi fosse, se non quanto ne umettasse le labbra. Ecco taciturno sostui da prima garrulo piú di cicala! eccolo pigro quand'egli era snello piú delle capre! Già trascurava la greggia, avea gettata la sampogna, piú pallido in volto dell'erba estiva, per Cloe sola diveniva loquace.] .
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