Favole (La Fontaine)/Libro settimo/I - Gli Animali malati di peste

Libro settimo

I - Gli Animali malati di peste

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro settimo

I - Gli Animali malati di peste
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Un male
terribile, fatale,
che il Ciel forse inventò
per castigar le colpe della terra,
un mal pien di spavento
capace, se va bene,
d’empire i cimiteri in un momento,
la Peste insomma - dirla pur conviene -
faceva agli animali tanta guerra,
che morivan colpiti a cento a cento.

Nessuno ormai volea
curarsi d’una vita orrida troppo;
ogni cibo facea fastidio e groppo,
e lupi e volpi ciaschedun vivea
le mani e i piedi in mano;
fuggian le tortorelle per dispetto,
fuggia l’Amor lontano
e fuggia coll’Amor ogni diletto.

Allor tenne il Leone un gran consiglio,
e disse: - Amici miei,
poiché davanti al Ciel tutti siam rei
di colpe, ed è perciò che ne castiga,
per toglierci di briga, ecco, direi
che quei che ha più peccato
nella sua vita, sia sacrificato.

Il suo sangue (e la storia ci dimostra
che più volte giovò l’espedïente)
forse otterrà la guarigione nostra.
Facciamo orsù l’esame di coscienza
fratelli, e confessiam senza indulgenza
i fatti nostri. Già per parte mia
confesso che provai ghiottoneria
di molti agnelli, poveri innocenti,
e che mi venne fatto per errore
di mangiar qualche volta anche il pastore.

Io son pronto a scontar colle mie vene
le colpe mie, se farlo oggi conviene,
ma prima ciaschedun con altrettanta
sincerità confessi, onde il più reo
colla sua vita paghi il giubileo.

- Sire, - disse la Volpe, - un sì buon re
al mondo come voi forse non c’è.
Che scrupoli son questi, Maestà,
per quattro canagliucce di montoni?
Non vedo che vi possa esser peccato
a mangiar questa razza di minchioni.

No, no, signor, anzi fu un grande onore
a ognun d’essi il sentirsi rosicchiato
dai vostri denti. In quanto a quel pastore,
meritava di peggio in verità,
visto ch’egli osa il titolo di re
vantar sopra le bestie, e non gli va -.

A questo dir scoppiâr grandi gli applausi
tra i cortigiani. In quanto ai Tigri, agli Orsi
e agli altri illustri poi non si cercò
il pel nell’ovo e i minimi trascorsi,
dal più ringhioso all’ultimo dei cani
per poco non sembrarono al capitolo
dei santi a cui si può baciar le mani.

S’avanza in fine a confessarsi l’Asino
contrito in cor, e confessando il vero,
narra che un giorno, andando
nel fresco praticel d’un monistero,
o fosse tentazione del demonio,
o fame o gola di quell’erba tenera,
brucò dell’erba (e fu cosa rubata
per essere sincero),
ma ne prese soltanto una boccata.

Udito ciò, gridarono anatèma
quei santi padri al povero Asinello.
Un Lupo, intinto di teologia,
sorto a parlar sul tema,
mostrò che la cagion della moria
venìa da questo tristo spelacchiato,
che per il suo malfare
bisognava che almen fosse impiccato.

Mangiar dell’erba altrui...! ma si può dare
azione più nefanda?
La morte era una pena troppo blanda
per espiar sì orribile misfatto.
E come disse il giudice fu fatto.

Della giustizia quando siede al banco,
sempre il potente come giglio è bianco,
ma se a seder si pone
il poveraccio, è un sacco di carbone.