Galileo Galilei (Favaro)/VI
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Il successo ottenuto da Galileo in Roma ebbe da un lato per effetto di renderlo maggiormente caro al Granduca, ma di concitargli contro dall’altro in Firenze e teologi e peripatetici, i quali ultimi, proprio in questo medesimo tempo, ricevevano da lui un nuovo e fierissimo colpo.
Soleva Cosimo II radunare bene spesso intorno a sè i più valenti uomini che con la intelligente sua protezione aveva o trattenuto in patria o richiamati, e da loro voleva essere informato delle varie questioni che si agitavano fra gli studiosi; talora proponeva egli medesimo argomenti nuovi alle discussioni, e non di rado anche vi prendeva parte: e di questa sua abitudine talmente si compiaceva, che ogni qual volta ospitava illustri personaggi di passaggio per Firenze, nessuna maggior cortesia credeva di poter loro usare, che quella di farli assistere a siffatti dotti congressi. Ora avvenne che in una di tali occasioni fu introdotto il discorso sopra il galleggiare in acqua ed il sommergersi dei corpi, e, tenuto da alcuni aristotelici che la figura fosse a parte di questo effetto, ed avendo il nostro filosofo sostenuto che soltanto la maggiore o minor gravità rispetto all’acqua è cagione di stare a galla o di andare a fondo, ne seguì un discussione a lungo protratta, che in parte ebbe luogo alla presenza dei cardinali Barberini e Gonzaga, il primo dei quali prese le parti di Galileo, mentre l’altro erasi schierato coi peripatetici. Frutto di tali questioni fu il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, dato alla luce nel 1612, e che, ristampato poi con aggiunte in quello stesso anno, diede in seguito motivo a numerose repliche da parte degli avversarii, alle quali trionfalmente rispose più tardi Galileo sotto il nome di D. Benedetto Castelli.
Nella introduzione a questo discorso ebbe il nostro filosofo occasione di pubblicare quanto gli era risultato rispetto alla investigazione dei tempi delle conversioni di ciascheduno dei quattro Pianeti Medicei intorno a Giove, e d’esporre alcune conclusioni alle quali le continuate osservazioni lo avevano condotto relativamente alle macchie solari; argomento questo che porse occasione alla celebre polemica col P. Cristoforo Scheiner. Le lettere scambiate a tale proposito con Marco Welser, duumviro di Augusta, raccolse Galileo in una pubblicazione intitolata: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, che fu data alla luce per cura dell’Accademia dei Lincei.
Queste scritture, oltre che per l’altissimo valore scientifico, rivestono caratteri di particolare importanza, perchè in esse, per la prima volta a viso aperto, sostenne Galileo la verità della dottrina copernicana, e le conseguenze di tal fatto non tardarono a farsi sentire.
La parte teologica, che ancor prima di questa pubblica dichiarazione, aveva ben compreso dove Galileo andava a parare, smascherava le sue batterie, e per bocca di Frate Niccolò Lorini, condannava dal pergamo di San Marco di Firenze, come eretica, la dottrina copernicana del moto della terra, per ciò che, leggendosi in molti luoghi delle Sacre Lettere che il sole si muove e la terra sta ferma, nè potendo mai la Scrittura mentire o errare, ne seguitava per necessaria conseguenza che erronea e dannanda fosse la sentenza di chi volesse sostenere, il sole essere per sè stesso immobile, e mobile la terra.
Galileo non curò questi primi attacchi, vendicandosene tutto al più con qualche motto arguto e vivace: ma venendogli da Roma che si agitava in quelle alte sfere il partito di prendere qualche grave misura contro il libro del Copernico, ed ancora essendogli riferito che alla Corte di Toscana era stata promossa questione intorno al miracolo di Giosuè, inesplicabile con la nuova dottrina, ed anzi con essa in aperta contraddizione, non potè stare alle mosse e deliberò di intervenire. Perchè la proibizione dell’opera del Copernico da parte dell’autorità ecclesiastica da un lato, ed il prevalere di idee conformi appresso i Granduchi suoi padroni dall’altro gli avrebbero per sempre impedito di combattere per quella verità, nel cui trionfo egli riponeva ormai lo scopo di tutta la sua vita.
Al suo ben affetto Monsignor Dini, il quale gli scriveva, avere udito dal cardinale Bellarmino che, al più che potesse esser deliberato contro il libro del Copernico, sarebbe il farvi qualche correzione, Galileo spazientito rispondeva recisamente che il Copernico non era capace di moderazione, ma bisognava dannarlo del tutto, o lasciarlo nel suo essere.
Col fido Castelli, ammesso nella intimità della Corte, e che lo aveva ragguagliato degli occulti maneggi con i quali, peripatetici e teologi insieme alleati, andavano adoperandosi contro di lui, si apriva in una memoranda lettera, ampliata poi in quell’altra celeberrima alla Granduchessa Cristina di Lorena: documenti ambedue della più alta importanza storica, nei quali con mano ardita e sicura, segna i confini tra la scienza e la fede, divinando i gravissimi pericoli d’un conflitto.
Nessuna circospezione, scrive egli, sia stimata soverchia, quando si tratti di quelle cognizioni che non sono de fide, e alle quali possono arrivare l’esperienza e le dimostrazioni necessarie, perciocchè perniciosissimo sarebbe l’asserire come dottrina risoluta dalle Sacre Lettere alcuna proposizione della quale una volta si potesse avere dimostrazione in contrario. Nelle dispute dei problemi naturali, non si cominci pertanto dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni: procedono del pari dal verbo Divino, la Scrittura Sacra e la Natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio; ma nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, è convenuto dir molte cose, quanto all’aspetto ed al nudo significato delle parole, diverse dal vero assoluto; mentre all’incontro la Natura è inesorabile, e mai trascendente i termini delle sue leggi, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi di operare siano esposti alla capacità degli uomini.
Quello adunque che gli effetti naturali o la sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi, e le necessarie dimostrazioni ci concludono, non deve in conto alcuno essere revocato in dubbio, nonchè condannato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverse sembianze, perchè non ogni detto della Scrittura è legato ad obblighi così severi, come ogni effetto della Natura, nè meno eccellentemente ci si scuopre Iddio negli effetti naturali che ne’ sacri detti delle Scritture.
Chi, esclama Galileo, chi vorrà porre termine agli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di sensibile e di scibile? E per questo, oltre agli articoli concernenti alla salute e allo stabilimento della fede, contro la fermezza de’ quali non è pericolo alcuno che possa insurgere mai dottrina valida ed efficace, sarebbe ottimo consiglio non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l’aggiungerli a richiesta di persone, le quali, oltrechè noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo come siano del tutto ignude di quell’intelligenza, che sarebbe necessaria, non pure a redarguire, ma soltanto a capire le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare simili conclusioni.
Spetti dunque all’autorità delle Sacre Lettere il persuadere agli uomini quegli articoli e quelle proposizioni che sono necessarie per la salute delle anime e superando ogni umano discorso, non possono per altra scienza nè per altro mezzo farsi credibili che per la bocca dello Spirito Santo; ma non si imponga come necessario il credere che quel medesimo Dio abbia voluto che noi rinunziassimo all’uso dei sensi, del discorso e dell’intelletto dei quali ci ha dotati, e darci con altro mezzo quelle cognizioni le quali per essi possiamo conseguire.
In breve: tra scienza e fede nè superiorità nè soggezione; la scienza, nè sopra nè sotto la fede, ma fuori della fede.