Galileo Galilei (Favaro)/V
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Ma non meno gravi delle scientifiche furono le conseguenze che per l’avvenire di Galileo trassero seco le sue grandi scoperte celesti. I legami che egli si studiò costantemente di mantenere con la Corte di Toscana permettono di supporre che, quantunque costretto ad abbandonare la patria per procurarsi altrove onorevole collocamento, egli non avesse mai deposto del tutto la speranza di farvi ritorno definitivo. Già fin dal 1601 noi troviamo accennarsi come a cosa convenuta ch’egli avrebbe dovuto imprendere nel tempo delle vacanze la educazione matematica del principe ereditario di Toscana, appena questi fosse pervenuto all’età capace di simili studi. La qual cosa seguì infatti, ed al principe Cosimo dedicò il Compasso geometrico e militare quando egli lo fece di pubblica ragione: nell’animo di lui cercava il nostro filosofo di insinuarsi in ogni modo, ed a lui quindicenne si rivolgeva per essere raccomandato ad autorevoli patrizi veneti e gli scriveva che anteporrebbe "il giogo suo a quello di ogni altro signore"; a lui, salito sul trono, dedicava finalmente il Sidereus Nuncius, ed alla glorificazione di Casa Medici i Satelliti di Giove. Con questi omaggi ebbe forse Galileo in mira il proprio richiamo a Firenze; nè è difficile che il desiderio della patria si fosse fatto maggiore in lui, appunto perchè, dopo la conferma a vita nella lettura di Padova, egli si sentiva, a meno d’uno straordinario evento, condannato a starsene per sempre lontano.
L’omaggio di Galileo tornò sommamente gradito alla Corte di Toscana: grandissimo poi in quei signori il desiderio di verificare coi propri occhi le annunziate meravigliose scoperte: vi si arrese egli prontamente ed in tale occasione si riannodarono e si conclusero le trattative per la assunzione di lui ai servigi del Granduca: ed è dei 10 luglio 1610 il rescritto col quale veniva nominato: Primario Matematico dello Studio di Pisa e primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana, con assegnamento di mille scudi all’anno, gravato sul patrimonio dell’Università di Pisa, senza obbligo nè di residenza nè di lettura. Altre cause che non siano quelle addotte nel suo carteggio con la Corte possono però avere indotto Galileo a lasciare la città dove, non ostante le ripetute promesse agli amici, mai più fece ritorno; e non ultima tra esse forse il desiderio di troncare la relazione contratta dieci anni prima con una donna, e dalla quale col legame di tre figli che n’aveva avuti, assai difficilmente avrebbe potuto svincolarsi.
Prima però che lasciasse Padova ed il servizio della Serenissima, altre scoperte vennero ad aggiungersi a quelle che nei pochi mesi passati dall’invenzione del cannocchiale aveva fatte nel cielo: tra il luglio e l’agosto di questo medesimo anno 1610 infatti egli avvertì e mostrò ad amici, che più tardi ne fecero testimonianza, le macchie del sole, e addì 25 luglio vedeva sotto nuova forma Saturno. Messo sull’avviso dalla argomentazione d’uno tra i più acuti suoi discepoli, D. Benedetto Castelli, scopriva le fasi di Venere, deducendone la sicura conseguenza di ciò che da tempo egli sospettava, vale a dire che tutti i pianeti sono per loro natura tenebrosi e ricevono il lume dal sole, e che intorno ad esso si aggirano, confermando così pienamente la teoria copernicana circa il vero sistema del mondo.
Ma il cammino per quanto trionfale, non appariva tutto seminato di rose, poichè se le meravigliose scoperte avevano ottenuto l’assenso entusiastico degli studiosi della Natura, richiamarono però in pari tempo l’attenzione dei teologi, i quali incominciarono a guardarne con occhio sospettoso le conseguenze. E di conoscere il giudizio che questi portavano sul suo libro e sopra i suoi discoprimenti, Galileo si mostra sopra ogni altra cosa premuroso e sollecito, ed il conquistare l’adesione dei Gesuiti, i quali egli riconosce, "sapere assai più sopra le comuni lettere dei frati", e nelle cui mani era l’Osservatorio del Collegio Romano, è in cima a tutti i suoi pensieri.
Perciò appunto, poco dopo rimpatriato, aveva chiesto al Granduca licenza di recarsi a Roma col proposito di far riconoscere le sue scoperte e di rimuovere ogni ostacolo alle conseguenze che ne derivavano. Non gli riuscì pertanto difficile conseguire, almeno in parte, l’intento, poichè ormai l’esistenza dei Pianeti Medicei e le altre novità celesti erano state verificate anche dagli astronomi del Collegio, sicchè al cardinale Bellarmino, che, segretamente in iscritto e senza nominare Galileo, li interrogava se avevano notizia delle nuove osservazioni celesti che un valente matematico aveva fatte con uno strumento chiamato cannone, ovvero occhiale, rispondevano confermandole. E tutta Roma, chiamata dallo scopritore istesso a verificarle con i propri occhi, dava libero sfogo alla più viva ammirazione, salutandolo nuovo Colombo dei cieli. I cardinali Barberini, Conti, Orsini e del Monte sono tra i primi a festeggiarlo, il Farnese lo banchetta in Roma ed a Caprarola, e dagli orti del Quirinale, ospite del cardinale Bandini, Galileo mostra ad una folla di convenuti, di giorno le macchie del sole, e nelle belle sere d’aprile i satelliti di Giove, le montuosità della Luna, le fasi di Venere e Saturno tricorporeo. Il Principe Cesi raccoglie intorno a lui sulla sommità del Gianicolo le più cospicue persone della città eterna, e onora del suo nome la neonata Accademia dei Lincei. Il Papa stesso vuole vederlo e lo accoglie con effusione. Sicchè, dopo circa due mesi, durante i quali egli era passato di trionfo in trionfo, tornava a Firenze, accompagnato da una lettera del cardinale del Monte al Granduca, nella quale era detto: "Se noi fossimo in quella repubblica romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio per onorare l’eccellenza del suo valore".
Un’altra lettera partiva contemporaneamente da Roma ed era diretta dalla Sacra Romana Inquisizione all’Inquisitore di Padova, il quale aveva già scritto nel suo libro nero il nome di Cesare Cremonino, amico e collega del Nostro nello Studio Padovano, e gravemente sospetto di ateismo, e chiedeva: "Veggasi se nel processo del Cremonino sia nominato Galileo". Ma il Cremonino, sotto l’egida della Serenissima Repubblica Veneta, continuava ad avere piena libertà di penna e di parola, e Galileo da quell’egida non è più coperto, ed ha ormai suscitata una tempesta contro gl’impeti della quale non saprà nè potrà tutelarlo il suo Principe.