Fosca/Capitolo XXXI

Capitolo XXXI

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Capitolo XXX Capitolo XXXII
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XXXI.


Pochi giorni dopo la guarigione di Fosca, io ero già quasi considerato nella sua casa come una persona di famiglia. Ella aveva saputo trattenermi sì accortamente presso di sé, la sua immaginazione era stata sì feconda di pretesti a questo scopo, che suo cugino, lungi dall’adontarsene, aveva trovato questa intimità naturalissima e me ne sapeva grado come di una cortesia. Egli era un uomo semplice e debole. Benché la bruttezza, e più ancora la malattia di Fosca, rendessero impossibile e quasi assurdo ogni sospetto di rapporti amorosi tra noi, le imprudenze di lei erano state tante e sì gravi, che avrebbe pur dovuto avvedersene. Nell’affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva recarle la mia compagnia, lieto di quell’interesse che io sembrava prendere alle sue sventure.

Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d’onde io non usciva spesso che oltre la mezzanotte. Non sospettava neppure che altri avrebbero potuto sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui sì piena, che ove io avessi amato quella donna, [p. 134 modifica]avrei potuto abusare della sua fede colla maggiore sicurezza possibile. Né oso dire ora quanto mi affliggessi di quell’abuso parziale che era costretto a farne. Questo cruccio era una delle amarezze più acerbe di quell’affetto; poiché, quasi non avesse bastato a torturare la mia coscienza il conoscerlo sì leale e sì ingenuo, egli mi aveva fatto alcune confidenze che mi avevano potuto dare una misura della stima altissima in cui teneva il mio carattere. Mi aveva raccontata tutta la vita di Fosca, quale io l’aveva appresa da lei, e mi aveva parlato con dolore dell’affanno in cui lo poneva il pensiero delle sue angoscie intime e della sua salute incurabile.

— Questa spina — mi aveva egli detto sovente con quel suo linguaggio rozzo, ma schietto ed affettuoso, è ciò che non mi lascia avere un’ora in pace. Non v’è cosa sì fuori di posto come una donna che viva con un soldato. Portarla di qua, portarla di là... co’ suoi nervi, ella che non ha più salute di un invalido! Se un soldato potesse avere una casa propria come gli altri galantuomini, meno male; ma noi siamo invece condannati a girare di paese in paese come il giudeo che ha dato lo schiaffo al Signore. Quando ci penso, mi accapiglierei con Domeneddio. Farci brutti e senza salute, vada; ma lasciarci soli e senza una gioia al mondo, è troppo. I libri poi hanno finito di rovinarla. Al diavolo i libri! Per me li ho sempre avuti cari come uno stecco in un occhio. — Voi avete molta pazienza con lei, ve ne ringrazio. Voi siete un giovine dabbene, un giovine intelligente, e la vostra compagnia le piace. Vi ammiro; quando aveva la vostra età non aveva un’oncia della vostra calma, e dirò anche del vostro giudizio. Non vi faccio altri elogi, perché gli elogi sono della natura del vino — ubbriacano. Ho stima di voi, e potendolo, sarei felice di giovarvi. Ecco tutto.

E mi stringeva la mano con calore; e mercè quella [p. 135 modifica]sicurezza che ci dava la sua stessa intimità, rafforzava egli medesimo, senza saperlo, quei vincoli segreti che mi legavano a Fosca.

Se io ho dovuto tradire la nobile fiducia di quell’uomo, e compensarla più tardi d’ingratitudine, il cielo mi è testimonio della inesorabile fatalità che mi ha trascinato a farlo. Egli sa che di tutte le amarezze che mi provennero da questo amore sciagurato, quella fu la più vera e la più profonda.