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fosca | 133 |
ti sarai mutato in questa eternità di dieci ore che ci divide? Io non sono più quaggiù che per te. Sai dirmi se esiste qualche cosa fuori di noi, qualche cosa che possa dar piacere o dolore? Se vi è una vita fuori del nostro affetto? Come ti amo, Giorgio! Dio mio, come ti amo! E si può tanto amare? Può il cuore umano sentir tanto?»
XXXI.
Pochi giorni dopo la guarigione di Fosca, io ero già quasi considerato nella sua casa come una persona di famiglia. Ella aveva saputo trattenermi sì accortamente presso di sè, la sua immaginazione era stata sì feconda di pretesti a questo scopo, che suo cugino, lungi dall’adontarsene, aveva trovato questa intimità naturalissima e me ne sapeva grado come di una cortesia. Egli era un uomo semplice e debole. Benchè la bruttezza, e più ancora la malattia di Fosca, rendessero impossibile e quasi assurdo ogni sospetto di rapporti amorosi tra noi, le imprudenze di lei erano state tante e sì gravi, che avrebbe pur dovuto avvedersene. Nell’affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva recarle la mia compagnia, lieto di quell’interesse che io sembrava prendere alle sue sventure.
Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d’onde io non usciva spesso che oltre la mezzanotte. Non sospettava neppure che altri avrebbero potuto sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui sì piena, che ove io avessi amato quella donna,