Filocolo/Libro terzo/67

Libro terzo - Capitolo 67

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Il re in un’altra camera dimorava dolente, in sé tutti i casi ripetendo dall’ora che il misero Lelio avea ucciso infino a questa ora, maladicendo sé e la sua fortuna; e ricordandosi di ciò che di Marmorina gli era stato contato e del morto cavaliere nel suo cospetto, le cui parole ritrovò mendaci, si pensò tutto questo essere piacere degl’iddii, al volere de’ quali niuno è possente a resistere. E però in sé propose di volere per inanzi con più fermezza d’animo lasciare a’ fati muovere queste cose, che per adietro non avea fatto. Ma Florio, cambiato viso e mostrandolo meno dolente, lasciò la madre piangendo nella camera, e, rivestito d’altre robe, venne nella gran sala, là ove egli molti di tale accidente trovò che parlavano. Egli si fece quivi chiamare il vecchio Ascalion e Parmenione e Menedon e Messaallino, a’ quali elli disse così: - Cari amici e compagni, quanta forza sia quella d’amore a niuno di voi credo occulta sia, però che ciascuno, sì com’io penso, le sue forze ha provate. E là dove questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente Dido, o dello sventurato Leandro e d’altri molti avete udito parlare: i quali chi l’etterno onore con vituperevole infamia non curava d’occupare, chi di perdere la propia vita si metteva in avventura per pervenire a’ disiati effetti, e chi una cosa e chi un’altra facea per venire al disiato fine. E ultimamente, ove a tutti i detti essempli di sopra mancasse per lungo trapassamento di tempo degna fede, in me misero si puote la sua inestimabile potenza conoscere, il quale dagli anni della mia puerizia in qua ho tanto amato e amo Biancifiore, che ogni essemplo ci sarebbe scarso. E certo in alcuno amore i fati non furono mai tanto traversi quanto nel mio sono stati, però che sanza alcuno diletto infinite avversità me ne sono seguite, e ora in quelle più che mai sono. E che l’amore di Biancifiore abbia sopra me grandissima forza e muovami a grandi cose, potrete appresso per le mie parole comprendere. Come io v’ho detto, dalla mia puerizia fu Biancifiore amata da me: del quale amore non prima il mio padre s’avvide, che sotto scusa di mandarmi a studiare, mandandomi a Montoro, da lei mi dilungò, pensando che per lontanarmi ella si partisse del cuore, dove con catena da non potere mai sciogliere la legò amore in quell’ora ch’ella prima mi piacque. E questo non bastandogli, acciò che più intero il suo iniquo volere fornisse, lei a morte falsamente fece condannare: ma gl’iddii che le mal fatte cose non sostengono, prestandomi il loro aiuto, fecero sì che io di tal pericolo la liberai. Della qual cosa il mio padre dolente, dopo lungo indugio vedete quello che egli ha fatto: che egli lei, sì come vilissima serva, ha a’ mercatanti venduta, e mandatala non so in che parti. E perché questo non pervenisse a’ miei orecchi, falsamente mostrò che Biancifiore di subita infermità morta fosse, un’altra giovane morta in forma di lei sotterrando: della qual cosa io sono sanza fine turbato. E certo, se licito fosse di mostrare la mia ira contro al mio padre e alla mia madre, io non credo che mai di tale accidente tale vendetta fosse presa quale io prenderei! Ma non m’è licito, e dubito che gl’iddii ver me non se ne crucciassero. Ora è mio intendimento di già mai non riposare, infino a tanto che colei cui io più che altra cosa amo, ritrovata avrò. Ciascun clima sarà da me cercato, e niuna nazione rimarrà sotto le stelle la quale io non cerchi. Io sono certo che in quale che parte ella sia, se non vi perverremo, la fama della sua gran bellezza cel manifesterà, né ci si potrà occultare. Quivi, o per amore o per ingegno o per denari o per forza intendo di rivolerla. E perciò ho io fatti chiamare voi, sì come a me più cari, per caramente pregarvi che della vostra compagnia mi sovegnate, e meco insieme volontario essilio prendiate e massimamente te, o Ascalion, le cui tempie già per molti anni bianchissime, più riposo che affanno domandano, acciò che sì come padre e duca e maestro ci sii, però che tutti siamo giovani, e niuno mai fuori de’ nostri paesi uscì, e il cercare i non conosciuti luoghi sanza guida ci saria duro. Né ti spiaccia la nostra giovane compagnia, però che come figliuolo i tuoi passi divotamente seguirò. E in verità questo, di che io e te e gli altri priego il mio partire di qui, credo che degl’iddii sia piacere acciò che i miei giovani anni non si perdano in accidiose dimoranze: con ciò sia cosa che noi non ci nascessimo per vivere come bruti, ma per seguire virtù, la quale ha potenza di fare con volante fama le memorie degli uomini etterne, così come le nostre anime sono. Adunque voi ancora come me giovani, non vi sia grave, ma al mio priego vi piegate, e qualunque di voi in ciò come fedele amico mi vuole servire liberamente di sì risponda, sanza volermi mostrare che la mia impresa sia meno che ben fatta: ché quello ch’io fo, io il conosco, e invano ci balestrerebbe parole chi s’ingegnasse di farmene rimanere -.