Libro terzo - Capitolo 35
Voi, o sfrenata moltitudine di femine, siete dell’umana generazione naturale fatica, e dell’uomo inespugnabile sollecitudine e molestia. Niuna cosa vi può contentare destatrici de’ pericoli, commettitrici de’ mali. In voi niuna fermezza si truova: e, brievemente, voi e ’l diavolo credo che siate una cosa! E che ciò sia vero, davanti a noi infiniti essempli a fortificare il mio parlare se ne truovano. E volendo dalla origine del mondo incominciare si troverà la prima madre per lo suo ardito gusto essere stata cagione a sé e a’ discendenti d’etterno essilio de’ superiori reami. E questo malvagio principio in tanto male crebbe, che la prima età nello allagato mondo tutta perì, fuori che Deucalion e Pirra, a cui rimase la fatica di restaurare le perdute creature. Ma posto che la quantità delle femine mancasse, la vostra malvagità nella poca quantità non mancò. E non era ancora reintegrato il numero degli annegati, quando colei che l’antica Bambillonia cinse di fortissime e alte mura, presa da libidinosa volontà, col figliuolo si giacque, faccendo poi per ammenda del suo fallo la scelerata legge che il bene placito fosse licito a ciascuno. O cuore di ferro che fu quello di costei! Quale altra creatura, fuori che femina avrebbe potuta sì scelerata cosa ordinare, che, conoscendo il suo male, non s’ingegnasse di pentere, ma s’argomentasse d’inducervi i suggetti? Ma ancora che questo fosse grandissimo fallo, quanto fu più vituperevole quello che Pasife commise, la quale il vittorioso marito, re di cento città, non sostenne d’aspettare, ma con furiosa libidine essere da un toro ingravidata sostenne? Fu ciascuno de’ detti falli sceleratissimo, ma nullo fu sì crudelmente fatto quanto quello che Clitemestra miseramente commise: la quale, non guardando alla debita pietà del marito, il quale in terra era stato vincitore di Marte, per mare di Nettunno, ma presa del piacere d’un sacerdote, rimaso ozioso ne’ suoi paesi, consentì che, porto ad Agamenone il non perfetto vestimento, e in quello vedendolo avviluppato, Egisto miserabilemente l’uccidesse, acciò che poi sanza alcuna molestia i loro piaceri potessero mettere in effetto. Quanta fu ancora la lascivia di Elena, la quale, abandonando il propio marito, e conoscendo ciò che dovea della sua fuga seguire, anzi volle che il mondo perisse sotto l’armi che ella non fosse nelle braccia di Paris, contenta che per lei si possa etternalmente dire Troia essere strutta e i Greci morti crudelmente! Quanta acerbità e quanta ira si puote ancora discernere essere stata in Progne, ucciditrice del propio figliuolo per far dispetto al marito! E Medea simigliantemente! E in cui si trovò mai tanto tracutato amore quanto in Mirra, la quale con sottili ingegni adoperò tanto che col propio padre più fiate si giacque? E la dolente Biblis non si vergognò di richiedere il fratello a tanto fallo, e la lussuriosa Cleopatra d’adoperarlo. E ancora la madre d’Almeon per picciolo dono non consentì il mortale pericolo d’Anfirao suo marito? E qual diabolico spirito avrebbe potuto pensare quello che fece Fedra, la quale non potendo avere recato Ipolito suo figliastro a giacere con lei, con altissima voce gridando e stracciandosi i vestimenti e’ capelli e ’l viso, disse sé essere voluta isforzare da lui e, lui preso, consentì che dal propio padre fosse fatto squartare? Quanto ardire e quanta crudeltà fu quella delle femine di Lenno, che, essendo degnamente suggette degli uomini, per divenire donne, quelli nella tacita notte con armata mano tutti diedero alla morte? E simile crudeltà nelle figliuole di Belo si trovò, le quali tutte i novelli sposi la prima notte uccisero fuori che Ipermestra. Oimè, ch’io non sono possente a dire ciò che io sento di voi! Ma sanza dire più avanti, quanti e quali essempli son questi della vostra malvagità? O femine, innumerabile popolo di pessime creature, in voi non virtù, in voi ogni vizio: voi principio e mezzo e fine d’ogni male. Mirabil cosa si vede di voi, fra tanta moltitudine una sola buona non trovarsene. Niuna fede, niuna verità è in voi. Le vostre parole sono piene di false lusinghe. Voi ornate i vostri visi con diversi atti ad inretire i miseri, acciò che poi, liete d’avere ingannato, cioè fatto quello a che la vostra natura è pronta, ve ne ridiate. Voi siete armadura dello etterno nimico dell’umana generazione: là ov’egli non può vincere co’ suoi assalti, e egli incontanente a’ pensati mali pone una di voi, acciò che ’l suo intendimento non gli venga fallito. Guai etterni puote dire colui, che nelle vostre mani incappa, non gli fallino. Misera la vita mia, che incappato ci sono! Niuna consolazione sarà mai a me di tal fallo, pensando che una giovane, la quale io più tosto angelica figura che umana creatura riputava, con falso riguardamento m’abbia legato il cuore con indissolubile catena, e ora di me si ride, contenta de’ miei mali. Ma certo la miserabile fortuna che abassato per li vostri inganni mi vede, assai mi nuoce, e niuno aiuto mi porge anzi s’ingegna con continua sollecitudine di mandarmi più giù che la più infima parte della sua rota, se far lo potesse, e quivi col calcio sopra la gola mi tiene, né possibile m’è lasciare il doloroso luogo -.