Libro terzo - Capitolo 34
- O impiissima acerbità dell’umane menti, che commisi io ch’io etterno essilio meritassi della piacevole Marmorina? Niuno fallo commisi: amai e amo. Se questo merita essilio o morte, torca il cielo il suo corso in contrario moto, acciò che gli odii meritino guiderdone. Se io forse amando ad alcuno dispiacea, non con morte mi dovea seguitare, ma con riprensione ammaestrare. Ora che riceverà da Florio chi odierà Biancifiore? Non so ch’elli gli si possa fare, se a quello che a me ha fatto vorrà con iguale animo pensare. Ahi, Fisistrato, degno d’etterna memoria per la tua benignità, il quale, udendo con pianti narrare la tua figliuola essere baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti rispondere: "Che farem noi a’ nostri nimici, se colui che ci ama è per noi tormentato?": tu il picciolo fallo con grandissima temperanza mitigasti, conoscendo il movimento del fallitore. Dimorar possi tu con pietosa fama sempre ne’ cuori umani! Ma certo egli non è men giusta cosa che io pianga i miei amori, che fosse il pianto del crudele artefice, che a Falaris presentò il bue di rame, al quale prima convenne mostrare del suo artificio esperienza. Io medesimo accesi il fuoco in che io ardo. Io, misero, fui il tenditore de’ lacci ne’ quali io son caduto. Chi mi costringea di narrare a Florio i miei accidenti, e di mostrargli il caro velo? Niuna persona. Ignoranza mi fece fallire: e però niuno savio piagne, perché il senno leva le cagioni. Ma posto che io pur per ignoranza fallissi, eragli così gravoso a vietarmi che io più avanti non amassi? Certo io non mi sarei però potuto poi tenere di non amare, ma nondimeno per la disubidienza a lui, cui io singulare signore tenea, avrei meritato essilio o greve tormento; ma egli mai non mi comandò che io non amassi, anzi là ov’io non mi guardava cercava la mia morte. O ragionevole giustizia partita delli umani animi, perché del cielo non provedi tu alle iniquità? Deh, misero a me!, non ho io per la sfrenata crudeltà di Florio perduta la debita pietà del vecchio padre e della benigna madre? Certo sì ho. Io gli ho lasciati per lo mio essilio pieni d’etterne lagrime. Non ho io perduta la graziosa fama del mio valore? Sì ho. Quanti uomini, ignoranti qual sia la cagione del mio essilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nimici creano le sconce novelle dove elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere. La iniquità da se medesima si spande più che la gramigna per li grassi prati. Non sono io per lo mio tristo essilio divenuto povero pellegrino? Non ho io perduta gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sì. Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io porto a Biancifiore, non è mancato. Più che mai l’amo: niuna pena, niuno affanno, né alcuno accidente me la potrà mai trarre del cuore. E certo se egli mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, come io vidi già, tutte queste cose mi parrebbero leggieri a sostenere. Il non poterla vedere m’è sola gravezza, questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co’ suoi begli occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io vo fuggendo per lei. Se l’amore di lei avessi, non che il fuggire ma il morire mi sarebbe soave! Ma poi che l’amore non puoi di lei avere, e il poterla vedere t’è tolto, piangi, misero Fileno, e dà pena agli occhi tuoi, i quali stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. Oimè misero, io non so da che parte io mi cominci più a dolere, tante e tali cose m’offendono! Ma tra l’altre, tu, o crudelissimo signore non figliuolo di Citerea, ma più tosto nimico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di biasimarti. Tu, giovanissimo fanciullo, con piacevole dolcezza pigli gli stolti animi degli ignoranti, e in quelli poi con solingo ozio rechi disiderati pensieri, fabrichi le tue catene, con le quali gli animi de’ miseri, che tua signoria seguitano, sono legati. Ahi, quanto è cieca la mente di coloro che ti credono e che del loro folle disio ti fanno e chiamano iddio, con ciò sia cosa che niuna tua operazione si vegga con discrezione fatta! Tu gli altissimi animi de’ valorosi signori declini a sottomettersi alla volontà d’una picciola feminella. Tu la bellezza d’un giovane, maestrevole ornamento della natura, con fallace disiderio leghi al volere d’un turpissimo viso, con diverse maculei adornato oltre al dovere, d’una meretrice. E, brievemente, niuna tua operazione è con iguale animo fatta, anzi sogliono i miseri, ne’ tuoi lacci aviluppati, prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale che né i doni di Pallade, né quelli di Giunone, né gentilezza d’animo riguarda, ma solamente il libidinoso piacere; e in questo credono alle tue opere aggiungere grandissime laude, ma con degno vituperio te e sé vituperano. Ma che giova tanto parlare? Tu se’ d’età giovane: come possono le tue operazioni essere mature? Tu, ignudo, non dei poter porgere speranza di rivestire. Le tue ali mostrano la tua mobilità, né m’è della memoria uscito averti in alcune parti veduto privato della vista: dunque, come di dietro alla guida d’un cieco si può fare diritto cammino? Ahi, tristi coloro che in te sperano! Tu levi loro il pensiero de’ necessarii beni, e empili di sollecitudine di vana speranza. Tu gli fai divenire cagione delle schernevoli risa del popolo che li vede, e essi, miseri e di questo ignoranti assai volte di se stessi con gli altri insieme fanno beffe, né sanno quello che fanno. Tardi conosco i tuoi effetti, ma certo, mentre ignorante di quelli fui, niuno suggetto avesti che più fede di me ti portasse, né che più la tua potenza essaltasse: e ancora in quella semplicità ritornerei, se benigno mi volessi essere, come già fosti a molti. Oimè misero, che io non so che io mai contra te adoperassi, per la qual cosa così incrudelire in me dovessi, come fai! Io mai non ti rimproverai la tua giovanezza, né biasimai la forza del tuo arco, come fece Febo, né alla tua madre levai il caro Adone, né scopersi i suoi diletti i quali con Marte prendea, come tutto il cielo vide. Io mai non adoperai contro a te, perché tu mi dovessi nuocere; ma tu di mobile natura, e nescio di quel che fai, mi tormenti oltre al dovere. Solo in uno atto si conosce te avere alcun sentimento, in quanto mai non cerchi d’essere se non in luogo a te simigliante, avvegna che questa discrezione più tosto alla natura che a te si dovrebbe attribuire. Il tuo diletto è di dimorare ne’ vani occhi delle scimunite femine, le quali a te costrigni con meno dolore che i miseri che in tale laccio incappano; e poi con esse di quelli ti diletti di ridere, consentendo loro il potersi far beffe de’ tristi sanza niuno affanno d’esse: delle quali, schiera di perfidissima iniquità piene, non posso tenermi ch’io non ne dica ciò che dentro ne sento.