Libro terzo - Capitolo 22
"Non furono sanza molte lagrime gli occhi miei, quando primieramente videro la tua pistola, o nobilissimo giovane, sola speranza della dolente anima, la quale con gravissima angoscia molte fiate rilessi. E certo ella non fu dal tuo pianto macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono. E più volte leggendo quella, fra me pensai aver difetto d’intendimento, alcuna volta dicendo fra me medesima: "Io non la intendo bene, però che non potrebbe essere che intendimento di Florio fosse di scrivermi le parole che semplicemente guardando pare che questa pistola porga". Altra volta dicea: "Forse Florio mi tenta, e vuole vedere se io mi muto per asprezza di parole". Ma poi che ogni intendimento si cessò da me, e lasciommisi credere che tu credevi quello che scrivevi, appena credetti potere a tanto sforzare la deboletta mano che la penna in quella sostenere si potesse per volerti rispondere; ma poi che pure sforzandomi gl’iddii mi concedono potere a te rispondere, per questa, quella salute che per me disidero, ti mando. E se alcuna fede merita il leale amore ch’io ti porto, ti giuro per gl’immortali iddii che e’ non t’era bisogno distenderti in tanto scrivere per mostrarmi quanto sia stato o sia l’amore che mi porti, però che molto maggiore credo che sia che la tua lettera non mostra, né tu per parole potresti mostrare. E similmente i lunghi affanni e i gran meriti, a quali io mai aggiunger non potrei a remunerare il più picciolo, per quella conobbi. Ma il sentirti piagnere della intera fede la quale mai né ti ruppi, né disiderai di romperti m’ha mossa a lagrimare e istrinta a scriverti, disiderosa di farti certo te mai da me non essere dimenticato, né potere possibile mai divenire che io ti dimentichi. Io, o grazioso giovane, non credo me essere nata de’ ferocissimi leoni barbarici, né delle robuste querce d’Ida, né delle fredde marmore di Persia, dalle quali cose risomigliando passi di rigidezza i libiani serpenti; ma di pietoso padre e di benigna madre, sì come più fiate m’è stato detto, discesi, e per quella legge che sono gli umani corpi dalla natura tratti, e io similemente, ma non dalla fortuna. Né appresi mai, né so essere, né disidero di saperlo, crudele e sanza umano conoscimento come tu imagini. Tu mi scrivi che Amore me, come te, ne’ nostri puerili anni, insiememente ferì: della qual cosa io non meno di te mi ricordo. E certo egli mi trovò atta e disposta ad amare come te similemente, né più durezza credo che trovasse nel mio che nel tuo cuore, o abbia mai trovata. Per la qual cosa, se tu con affanni infiniti se’ lontano a me dimorato, io non dimorai mai né dimoro con diletto a te lontana, anzi mi sento da diverse punture molestare per simile cagione che senti tu, né mai infinta lagrima né falsa parola per più accenderti udisti da me: ma volessero gl’iddii che possibile fosse te aver potuto vedere e udire le vere, le quali se vedute avessi, forse più temperatamente avresti scritto, quando dicesti me non essere costante a sostenere per te uno affanno, né in amarti. Ma però che tutto questo spero con l’aiuto degl’iddii ancora doversi manifestare a te con apertissimo segno, più non mi stendo a scrivertene, essendo non meno da più grave dolore costretta, sentendo te credere essere da me per Fileno abandonato, sì come la tua lettera mostra, la quale quando vidi, assalita da non picciola doglia, per poco non morii. Oimè, quanto m’è la fortuna avversa! Tu vai cercando di mostrarmi cagioni per le quali io debbia aver te per Fileno lasciato, e quelle tu medesimo l’annulli: e veramente da annullare sono! E se di te quel senno non è partito che aver suoli, dovresti pensare che io non sono del senno uscita, che io non conosca manifestamente te di nobiltà avanzare Fileno, semplice cavaliere della tua corte, e me picciolissima serva di te e del tuo padre, a cui tu rimproveri, faccendoti beffe di me, me esser discesa degli antichi imperadori romani, i quali gl’iddii guardino che sì poco torni la loro potenza, che ad essere servi, com’io sono, torni la loro sementa. Né ancora mi si occulta la tua virtù, né la tua bellezza piena di graziosa piacevolezza, a me cagione d’intollerabile tormento: per le quali cose saresti più degno amante dell’alta Citerea che di me. E certo, ben che io ti conosca nobilissimo, virtuoso e pieno di bellezza più che alcuno altro, e me sanza alcuna di queste cose, non sono io però invilita ch’io non abbia ardire di perfettamente amarti, come che mi si convenga o no. Ora dunque, se tutte queste cose sono da me conosciute, come è credibile che io per Fileno te potessi dimenticare? E non ti ritenesti di dire che io, femina di fragilissima natura, niuna avversità per amor di te sostenere non avea potuto, volendo quasi dire che per alleggiare i sospiri, che per te, a me lontano, sento insieme con molte pene, cercai di volere prossimano amadore, il quale più spesso veggendo, mi rallegrassi. Oimè, che falsa oppinione porti, se questo credi! Ma certo più per tentarmi, che per altro il fai, però che io so che tu conosci che io mai dal mio nascimento, risomigliando da’ miei parenti, sanza avversità non fui, per la qual cosa a forza m’è convenuto divenire maestra di sostenere quelle: e se io l’ho sostenute grandissime tu il sai, che gran parte con meco insieme n’hai sentite. Pensa certamente che alcuni sospiri mai non furono cocenti come sono quelli i quali io per troppo disio di te mando fuori della mia bocca, né lagrime mai con tanta copia bagnarono petto, quanto hanno le mie il mio bagnato, solo per lo tuo essere lontano. Ma veramente non molto tempo passerà che tu potrai dire che io sia fragile a sostenere l’avversità nelle quali io sono circuita, però ch’io sento la mia vita fuggire da me con istudioso passo, e l’anima, che il dolore del dolente cuore non puote sostenere, l’ha già più volte voluto abandonare, e solo alcuno conforto, che io allora ho preso sperando di rivederti, l’ha ritenuta. Ma se così fatti dolori aggiugni a quelli che io ho infino a qui sentiti, come fatto hai al presente per la tua pistola, io non aspetterò che l’anima cerchi congedo, anzi gliele darò costringendola del partire, se ella forse volesse dimorare. Io sono entrata in nuova dubitazione, la quale m’è a pensare molto grave, e appena mi si lascia credere. Ma Amore, che ammollisce i duri cuori, mel fa tal volta credere e alcuna altra discredere, che tu, o signor mio, scritto non m’abbia che io abbia te per Fileno dimenticato, acciò che io ragionevolemente di te piangere non mi possa, se per alcuna altra me hai costà dimenticata; ma tutta fiata non sono di tanta falsa oppinione che io il possa credere, anzi dico, qualora quel pensiero m’assale, niuna ragione farà mai che Biancifiore sia se non di Florio, o Florio se non di Biancifiore. Ma sanza fine mi s’attrista il cuore, qualora in quella parte della tua pistola leggo, ove scrivi me dovere avere donato a Fileno in segno di perfetto amore il velo della mia testa, il quale di’ che quando il ti mostrò, volontieri avresti levatogliele, squarciando lui tutto. La qual cosa volessero gl’iddii che tu fatto avessi, però che a me sarebbe stata non picciola consolazione nell’animo, e la cagione è questa: io non niego che quel velo, vilissima cosa, non fosse a lui donato dalle mie mani, ma certo il cuore nol consentì mai, ma così costretta dalla tua madre mi convenne fare. Per lo quale egli, forse pigliando intera speranza di pervenire al suo intendimento per tale segnale, più volte con gli occhi e con parole mi tentò di trarmi ad amarlo, la qual cosa credo impossibile sarebbe agl’iddii; né mai da me più avanti poté avere. Né è però da credere che in un velo o in altro gioiello si richiuda perfetto amore: solamente il cuore serva quello, e io, che più che altra giovane il sento per te, posso con vere parole parlarne. E che io niuna persona amai, se non solamente te, ne chiamo testimonii gl’iddii, a’ quali niuna cosa si nasconde: e però io ti priego che il velo, non volonterosamente donato, non ti porga nel cuore quella credenza che da prendere non è. Niuna persona è nel mondo amata da me se non Florio. Lascia ogni malinconia presa per questo, se la mia vita t’è cara, e spera che ancora fermamente conoscerai ciò che io ora ti prometto, e la tua vita con la mia insieme caramente riguarda: a luogo e a tempo gl’iddii rimuteranno consiglio, forse concedendoci migliore vita che noi da noi non eleggeremmo. Rifiuta i non dovuti ozii e seguita i leali diletti; e se tu mi porterai tanto nell’animo quanto io fo te, tu conoscerai me non essere meno affannata da’ pensieri che tu sii. E caramente ti priego che con sì fatte lettere tu non solleciti più l’anima mia, disposta a cercare nuovo secolo: che posto che tu con forte animo il mio coltello tenghi nella mano, a me corto laccio non farebbe sostenere di leggiere la seconda, solo che in quella così come in questa mi parlassi. Biancifiore non fu mai se non tua, e tua sarà sempre. Adoperino i fati secondo che ella ama, e sanza fallo contento viverai".