Libro terzo - Capitolo 11
Era quel giardino bellissimo, copioso d’arbori e di frutti e di fresche erbette, le quali da più fontane per diversi rivi erano bagnate. Nel quale, come il sole ebbe passato il meridiano cerchio, le due giovani, vestite di sottilissimi vestimenti sopra le tenere carni, e acconci i capelli con maestrevole mano, con isperanza di più piacere ad acquistare cotal marito, se ne entrarono solette, e quivi cercarono le fresche ombre, le quali allato ad una chiara fontana trovate, a seder si posero attendendo Florio. Venuta l’ora che già il caldo mancava, Florio malinconico, uscito della sua camera e con lento passo, di queste cose niente sappiendo, vestito d’una ricca giubba di zendado, soletto se n’entrò nel giardino, sì come egli era per adietro usato, e verso quella parte dove già avea il bianco fiore altra volta tra le spine veduto, dirizzò i suoi passi; e quivi venuto si fermò dimorando per lungo spazio pensoso. Le due giovinette s’avean ciascuna fatta una ghirlanda delle frondi di Bacco, e aspettando Florio si stavano alla fontana insieme di lui parlando; e non avendolo veduto entrare nel giardino, per più leggermente passare il rincrescimento dell’attendere, incominciarono a cantare una amorosa canzonetta con voce tanto dolce e chiara, che più tosto d’angioli che d’umane creature pareva: e di queste voci pareva che tutto il bel giardino risonasse allegro. Le quali udendo, Florio si maravigliò molto, dicendo: - Che novità è questa? Chi canta qua entro ora sì dolcemente? -. E con gli orecchi intenti al suono, incominciò ad andare in quella parte ove il sentiva; e giunto presso alla fontana, vide le due giovinette. Elle erano nel viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si convenia di rosso colore era mescolata. I loro occhi pareano matutine stelle; e le piccole bocche di colore di vermiglia rosa, più piacevoli diveniano nel muovere alle note della loro canzone. E i loro capelli come fila d’oro erano biondissimi, i quali alquanto crespi s’avolgeano infra le verdi frondi delle loro ghirlande. Vestite per lo gran caldo, come è detto sopra, le tenere e dilicate carni di sottilissimi vestimenti, i quali dalla cintura in su strettissimi mostravano la forma delle belle menne, le quali come due ritondi pomi pingevano in fuori il resistente vestimento, e ancora in più luoghi per leggiadre apriture si manifestavano le candide carni. La loro statura era di convenevole grandezza, e in ciascun membro bene proporzionate. Florio, vedendo questo, tutto smarrito fermò il passo, e esse, come videro lui, posero silenzio alla dolce canzone, e liete verso lui si levarono, e con vergognoso atto umilmente il salutarono. - Gl’iddii vi concedino il vostro disio - rispose; Florio. A cui esse risposero: - Gl’iddii ne l’hanno conceduto, se tu nel vorrai concedere -. - Deh! - disse Florio - perché avete voi per la mia venuta il vostro diletto lasciato? -. - Niuno diletto possiamo avere maggiore che essere teco e parlarti - risposero quelle. - Certo e’ mi piace bene - disse Florio. E postosi a sedere con loro sopra la chiara onda della fontana, incominciò a riguardare queste, ora l’una e ora l’altra, e a rallegrarsi nel viso, e a disiderare di potere loro piacere. E dopo alquanto le dimandò: - Giovani donzelle, ditemi, che attendevate voi qui così solette? -. - Certo - rispose Edea - noi fummo qui maggior compagnia, ma l’altre disiose d’andar vedendo altre cose, noi qui, quasi stanche, solette lasciarono, e debbono per noi tornare avanti che ’l sole si celi: e noi ancora volontieri rimanemmo, pensando che per avventura potremmo vedere voi, sì come la fortuna ci ha conceduto -. Assai era graziosa a Florio la compagnia di costoro, e molto gli dilettava di mirarle, notando nell’animo ciascuna loro bellezza, fra sé tal volta dicendo: - Beato colui a cui gl’iddii tanta bellezza daranno a possedere! -. Egli le metteva in diversi ragionamenti d’amore, e esse lui. Egli aveva la testa dell’una in grembo, e dell’altra il dilicato braccio sopra il candido collo; e sovente con sottile sguardo metteva l’occhio tra ’l bianco vestimento e le colorite carni, per vedere più apertamente quello che i sottili drappi non perfettamente copriano. Egli toccava loro alcuna volta la candida gola con la debole mano, e altra volta s’ingegnava di mettere le dita tra la scollatura del vestimento e le mammelle; e ciascuna parte del corpo con festevole atto andava tentando, né niuna gliene era negata, di che egli spesse fiate in se medesimo di tanta dimestichezza e di tale avvenimento si maravigliava. Ma non per tanto egli era in se stesso tanto contento che di niente gli pareva star male, e la misera Biancifiore del tutto gli era della memoria uscita. E in questa maniera stando non piccolo spazio, questi loro e esse lui s’erano a tanto recato, che altro che vergogna non li ritenea di pervenire a quello effetto dal quale più inanzi di femina non si può disiderare. Ma il leale amore, il quale queste cose tutte sentia, sentendosi offendere, non sofferse che Biancifiore ricevesse questa ingiuria, la quale mai verso Florio non l’avea simigliante pensata; ma tosto con le sue agute saette soccorse al cuore, che per oblio già in altra parte stoltamente si piegava. E dico che stando Florio con queste così intimamente ristretto, e già quasi aveano le due giovani il loro intendimento presso che a fine recato sanza troppo affanno di parole, l’altra delle due donzelle chiamata Calmena, levata alta la bionda testa, e rimirandolo nel viso, gli disse: - Deh! Florio, dimmi, qual è la cagione della tua palidezza? Tu ne pari da poco tempo in qua tutto cambiato. Hai tu sentito alcuna cosa noiosa? -. Allora Florio, volendo rispondere a costei, si ricordò della sua Biancifiore, la quale della dimandata palidezza era cagione, e sanza rispondere a quella, gittò un grandissimo sospiro, dicendo: - Oimè, che ho io fatto? -. E quasi ripentuto di ciò che fatto avea, alquanto da queste si tirò indietro, cominciando forte a pensare con gli occhi in terra a quello che fatto avea, e a dire fra se medesimo: - Ahi! villano uomo, non nato di reale progenie, ma di vilissima, che tradimento è quello che tu hai pensato infino a ora? Come avevi tu potuto per costoro o per alcuna altra donna mettere in oblio Biancifiore, tanto che tu disiderassi quello che tu disideravi di costoro, o che tu potessi mostrare amore ad alcuna, come tu a costoro toccandole, già mostravi? Ahi! perfidissimo, ogni dolore t’è bene investito, ma certo cara l’accatterai la tua nequizia. Ora come ti dichinavi tu ad amare queste, la cui beltà è piccolissima parte di quella di Biancifiore? E quando ella fosse pur molta più, come potresti tu mai trovare chi perfettamente t’amasse come ella t’ama? Deh! se questo le fosse manifesto, non avrebbe ella ragionevole cagione di non volerti mai vedere? Certo sì -. Con molte altre parole si dolfe Florio per lunga stagione; e così dolendosi tacitamente, Calmena, che la cagione ignorava, gli si rappressò, dimandando perché a lei non rispondeva, dicendogli: - Deh, anima mia, rispondimi; dimmi perché ora sospirasti così amaramente, e dimmi la cagione della tua nuova turbazione, né ti dilungare da colei che più che sé t’ama -. Allora Florio con dolente voce disse: - Donne, io vi priego per Dio che elli non vi sia grave il lasciarmi stare, però che altro pensiero che di voi m’occupa la dolorosa mente -. E detto questo, levato si sarebbe di quel luogo, se non fosse che egli non le volea fare vergognare. Disse allora Edea: - E qual cosa t’ha sì subitamente occupato? Tu ora inanzi eri così con noi dimestico, e parlando ne dimandavi e rispondevi cianciando, e ora malinconico non ci riguardi, né ci vuoi parlare: certo tu ci fai sanza fine maravigliare -. A niuna cosa rispondea Florio, anzi a suo potere, col viso in altra parte voltato, si scostava da loro, le quali quanto più Florio da loro si scostava, tanto più a lui amorosamente s’accostavano. E in tal maniera stando, Calmena, che già s’era dell’amore di Florio accesa oltre al convenevole, più pronta che Edea, s’appressò a Florio, e quasi appena si ritenne che ella nol baciò, ma pur così gli disse: - O grazioso giovane, perché non ne di’ tu la cagione della tua subita malinconia? Perché, dilungandoti da noi, mostri di rifiutarci, che ora inanzi eravamo da te sì benignamente accompagnate? Non è la nostra bellezza graziosa agli occhi tuoi? Certo gl’iddii si terrebbono appagati di noi, né non crediamo che Io, tanto perseguitata da Giunone, fosse più bella di noi quando ella piacque a Giove, né ancora Europa che sì lungamente caricò le spalle del grande iddio, né alcune altre giovani crediamo essere state più belle di noi: e sì ne veggiamo il cielo adorno di molte! Adunque tu, perché ne rifiuti? -. E con queste parole e molte altre, con atti diversi e inonesti sospirando guardavano di ritornare Florio al partito nel quale poco davanti era stato. Alle quali Florio disse così: - Ditemi, giovani, se gl’iddii ogni vostro piacere v’adempiano, foste voi mai innamorate? -. A cui esse subitamente risposero: - Sì, di voi solamente; né mai per alcuna altra persona sospirammo, né tale ardore sentimmo se non per voi -. - Certo - disse Florio - di me non siete voi già innamorate; e che voi non siate state né siate d’altrui si pare manifestamente, però che amore mai ne’ primi conoscimenti degli amanti non sofferse tanta disonestà, quanta voi verso me, con cui mai voi non parlaste, avete dimostrata: anzi fa gli animi temorosi e adorni di casta vergogna, infino che la lunga consuetudine fa gli animi essere eguali conoscere. E che questo sia vero assai si manifestò nella scelerata Pasife, la quale bestialmente innamorata, con dubitosa mano ingegnandosi di piacere, e temendo di non spiacere, porgeva le tenere erbe al giovane toro. Ora quanto più avria costei temuto d’un uomo, in cui ragionevole conoscimento fosse stato, poi che d’un bruto animale dubitava? Certo molto più, però che era innamorata. E chi volesse ancora nelle antiche cose cercare, infiniti essempli troverebbe d’uomini e di donne, a cui le forze sono tutte fuggite ne’ primi avvenimenti de’ loro amanti. E però che di me innamorate siate non mi vogliate far credere, che io conosco i vostri animi disposti più ad ingannare che ad amare. E appresso, che voi non siate d’altrui innamorate, come voi dite, m’è manifesto, però che non m’è avviso che verso me, dimenticando il principale amadore, potreste dimostrare quello che dimostrate, ché il leale amore non lo consentirebbe. Onde io vi priego, belle giovani, che mi lasciate stare, però che voi con le vostre parole credete i miei sospiri menomare, e voi in grandissima quantità gli accrescete: e di me in ogni atto, fuori che d’amore, fate quello che d’amico o di servidore fareste -. Udendo questo, Edea, la quale le infinite lagrime non avea guari lontane, bagnando il candido viso, con lagrimevole voce, messesi le mani nel sottile vestimento tutta davanti si squarciò, dicendo: - Oimè misera, maladetta sia l’ora ch’io nacqui! E in cui avrò io oramai speranza, poi che voi, in cui io ora sperava e per cui io credeva sentir pace, mi rifiutate, né credete che ’l mio cuore per lo vostro amore si consumi, però che forse troppo pronta a volere adempiere i miei disiderii vi sono paruta? Crediate che niuna cosa a questo m’ha mossa altro che soperchio amore, il quale del mio petto ha la debita vergogna cacciata, e me quasi furiosa ha fatto nella vostra presenza tornare. Ahimè misera, sarà omai disperata la mia vita! O misera bellezza, partiti del mio viso, poi che colui per cui io cara ti tenea, e ti guardava diligentemente, ti rifiuta. Deh, Florio, poi che a grado non v’è consentirmi quello che lunga speranza m’ha promesso, piacciavi che io nelle vostre braccia l’ultimo giorno segni. Io sento al misero cuore mancare le naturali potenze per le vostre parole. Oimè, uccidetemi con le propie mani, acciò che io più miseramente non viva. Mandatene la trista anima alle dolenti ombre di Stige, là dove ella minor doglia aspetta che quella che ora sostiene. Ahimè, quanto degnamente da biasimare sarete, quando si saprà la dolente Edea essere per la vostra crudeltà partita di questa vita! -. Florio, che le lagrime di costei non potea sostenere, per pietà la confortava, dicendo: - O bella giovane, non guastare con l’amaritudine del tuo pianto la tua bellezza; spera che più grazioso giovane ti concederà quello ch’io non ti posso donare. Ritruova le tue compagne, e con loro l’usata festa ti prendi, né non impedire i miei sospiri con la pietà del tuo pianto: ché io ti giuro per li miei iddii, che se io fossi mio e potessimi a mia posta donare, niuna m’avrebbe se l’una di voi due non m’avesse. Ma io non posso quello che non è mio sanza congedo donare -. Cominciò allora Calmena a dire: - O crudelissimo più che alcuna fiera, e come puoi tu consentire di negare a noi quel che ti domandiamo? Certo se tu hai il tuo amore ad altra donato, niuno amore è tanto leale, che a’ nostri prieghi non dovesse essere rotto. E pensi tu che s’egli avviene che per la tua crudeltà alcuna di noi sofferisca noiosa morte, che quella giovane di cui tu se’, se tu se’ per avventura d’alcuna, te ne ami più? Certo no, anzi biasimerà la tua crudeltà! E i nostri prieghi son tanti, che certo il casto Ipolito già si saria piegato. Or come ci puoi tu almeno negare alcuno bacio, de’ quali poco avanti ci saresti stato cortese, se sì ardite come tu ci fai fossimo state? Certo se alcuno ce ne porgessi con quel volere che noi il riceveremmo, egli sarebbe non poco refrigerio de’ nostri affanni. Deh, adunque, concedicene alcuno, acciò che gl’iddii più benivoli s’inchinino a concedere a te quello che tu disii, se alcuna cosa da te in questo atto è disiata -. A cui Florio rispose: - Giovani donzelle, ponete fine a questi ragionamenti, però che quella parte che di me dimandate, più cara che altra è tenuta da me, con ciò sia cosa che niun’altra ancora ne sia stata conceduta a quella di cui io sono interamente, e più avanti non mi dimandate ché da me altro che dolore avere non potreste. E priegovi che me, che più di sospirare che di parlare con voi ora mi diletto, qui solo lasciate, e andatevene, però che ciò che mi dite è tutto perduto -. Questo udendo le due giovani, col viso dipinto di vergogna, della sua presenza si levarono sanza più parlare; e però che già il sole cercava l’occaso, tornate nel gran palagio si rivestirono, dicendo l’una all’altra: - Ahi, come giusta cosa sarebbe se mai d’alcuno giovane la grazia non avessimo, pensando al nostro ardire, le quali avemo tentato di volere questo giovane levare alla sua donna sanza ragione, avegna che gl’iddii e egli ce n’hanno ben fatto quello onore che di ciò meritavamo! -. E rivestite, raccontarono al duca la bisogna come era, con non poca vergogna; e da lui, con grandissimi doni, sconsolate si partirono, tornando alle loro case.