Libro quinto - Capitolo 52
Dimorando adunque costoro, per conoscere di loro operare il migliore, Filocolo solo con Menedon dall’ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di Roma mirando, le quali saziare non si poteano di guardare, lodando la magnanimità di coloro che fatte l’aveano fare e de’ facitori il maestro. E così andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s’adorna che prima nel diserto comandò penitenza a’ peccatori, annunziando il celeste regno essere propinquo, e dalla rana cognominato del rabbioso Nerone; e in quello entrarono, e rimirando di quello le grandezze in una parte videro effigiata di colui la figura che fu dell’universo salute. Questa si pose Filocolo con ammirazione grandissima a riguardare: e qual fosse la cagione delle forate mani, de’ piedi e del costato pensare non sapea, per che sopra questo imaginando dimorava sospeso. Nella quale dimoranza stando, uno uomo antico non troppo e di bella apparenza, in iscienza peritissimo, il cui nome, secondo ch’egli poscia manifestò, era Ilario, disceso di parenti nobilissimi, d’Attene quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo dell’inclito imperadore Giustiniano, quivi venuto, e all’ordine de’ cavalieri di Dio scritto, forse a guardia del bel luogo diputato, gli sopravenne, e vide Filocolo così quella imagine riguardare. Ma avanti che alcuna cosa gli dicesse, il mirò molto, e parvegli nello aspetto nobile e di grande affare, per che con reverenza, non conoscendolo, così l’incominciò a parlare: - O giovane, con molta ammirazione l’effige del creatore di tutte le cose riguardi, come se mai da te non fosse stato veduto -. A cui Filocolo graziosamente rispose: - Sanza dubbio, amico, ciò che tu di’ è vero; e però ch’io mai più nol vidi, con ammirazione ora il riguardava -. - E come può essere - disse Ilario - che tu molte volte non l’abbi veduto, se de’ servatori della sua legge se’? -. - Certo - disse Filocolo - né lui, come già dissi, mai più vidi, né qual sia la sua legge conosco -. - Adunque qual legge servi, o cui adori? - disse Ilario. A cui Filocolo rispose: - La legge che i miei predecessori servarono e che ancora i popoli del paese ond’io sono servano, e io servo: e da noi è adorato Giove, e gli altri immortali iddii posseditori delle celestiali regioni, a’ quali, quante volte di loro abbiamo bisogno, tante volte accendiamo fuochi sopra i loro altari e diamo incensi, e le dimandate cose riceviamo -. - Dunque tu idolatrio se’ della setta de’ gentili? -. - Così sono come tu di’ - rispose Filocolo. - Ora ignori tu - disse Ilario - che noi cotesta setta abbiamo, e degnamente, in odio, sì come eretici e operatori delle cose spiacenti a Dio? -. - Non lo ignoro - disse Filocolo. - Dunque - disse Ilario - come sicuro qui, gentile, vivi tra ’l popolo di Dio? Non sai tu che come voi a noi parate insidie, così a voi potrebbero essere da noi parate? Ma che? Di questo per nulla ti domando, ché chi alla salute dell’anima non ha cura, come è da presumere che egli di quella del corpo si deggia curare? Poi che tu la nostra legge non servi, non contaminare il nostro tempio sacro: escitene fuori! -. A cui Filocolo disse: - Male può servare persona la cosa che mai non li fu nota; forse se io questa vostra legge udissi o quello ch’io dovessi credere mi fosse mostrato, poria essere che, dannando la mia, seguirei questa, e con voi insieme del popolo di Dio diventerei -. - Già per udirla, se mai più non l’udisti, non perderai: io la ti mostrerò tutta, avvegna che a ben volerlati fare intendere mi converrà distendere in molte parole, le quali dubito non ti fossero tediose ad udire -. A cui Filocolo disse: - A te non sia affanno il dire, che a me mai l’ascoltare non rincrescerà -. - Adunque - disse Ilario - sediamo, e colui cui tu hai infino ad ora riguardato, il quale di tutti i beni è donatore, e in cui presenza noi dimoriamo, mi conceda che fruttuose siano le mie parole -.