Libro quinto - Capitolo 26
Asenga, nel mezzo di queste due, paurosa né fuggiva, né chiedeva mercede. E chi poria davanti dell’ira degli iddii fuggire? La Luna turbata le sopravenne, dicendo: "O misera, quale cagione a contaminare la nostra bellezza ti mosse? Mai da noi offesa non fosti, fuori solamente se io a tuoi furtivi amori avessi forse già porta luce, fuggendola tu; ma perché io di ciò a te dispiacessi, io ad infinita gente ne piaceva: né però fu che io alcun tempo, a te e all’altre di ciò dilettantesi, non lasciassi atto a’ vostri falli. Tu noi mille forme mutare in un mese confessi, tra le quali una volta bella e non più paiamo, e te continua bellezza essere affermi; ma tu in picciolo pruno voltata, partorirai fiori alla tua bellezza simili, i quali di mostrare quella una volta l’anno saranno contenti, e poi che le loro frondi poco durabili cadute fieno, in quel colore che per eclissi ne dicesti rivolgere, maturandosi, le tue bocciole torneranno: e quelle tanto dal tuo pedale fieno guardate, quando le frondi, di verdi tornate in gialle, fiano dal primo autunno percosse". E questo detto, il bel corpo in gracile fusto mutossi, a cui le gambe in pilose barbe e le braccia in pungenti rami, e la verde vesta in verdi frondi si mutaro, e ’l candido viso e le belle mani bianche rose sopra quelle rimasero in questo luogo.