Libro quarto - Capitolo 46
- Molto t’inganna il parer tuo - rispose la reina - e di ciò non è maraviglia, però che tu se’, secondo il nostro conoscimento, più ch’altro innamorato, e sanza dubbio il giudizio degli innamorati è falso, però che il lume degli occhi della mente hanno perduto, e da loro la ragione come nimica hanno cacciata. Adunque, a noi converrà alquanto, oltre al nostro volere, d’amore parlare: di che ci duole, sentendoci a lui suggetta, ma per trarti d’errore il licito tacere in vere parole rivolgeremo. Noi vogliamo che tu sappi che questo amore niun’altra cosa è che una inrazionabile volontà, nata da una passione venuta nel cuore per libidinoso piacere che agli occhi è apparito, nutricato per ozio da memoria e da pensieri nelle folli menti: e molte fiate in tanta quantità multiplica, che egli leva la ’ntenzione di colui in cui dimora dalle necessarie cose, e disponlo alle non utili. Ma però che tu essemplificando ti ’ngegni di dimostrarne da costui ogni bene e ogni virtù procedere, a riprovare tuoi essempli procederemo. Non è atto d’umiltà l’altrui cose ingiustamente a sé recare, ma è arroganza e sconvenevole presunzione: e certo queste cose usò Marte, cui tu sai per amore divenuto umile, a levare a Vulcano Venere sua legittima sposa. E sanza dubbio quella umiltà che nel viso appare agli amanti, non procede da benigno cuore, ma da inganno prende principio. Né fa questo amore i cupidi liberali, ma quando in tanta copia, quanta poni che in Medea fu, abonda ne’ cuori, quelli del mentale vedere priva, e delle cose, per adietro debitamente avute care, stoltamente diventa prodigo, non quelle con misura donando, ma disutilmente gittando: crede piacere, e dispiace a’ savi. Medea, non savia, della sua prodigalità assai in brieve tempo sanza suo utile si penté, e conobbe che se moderatamente i suoi cari doni avesse usati non saria a sì vile fine venuta. E quella sollecitudine, la quale in danno de’ sollecitanti s’acquista o s’adopera, non ci pare per alcuno dovere essere cercata: molto vale meglio ozioso stare che male adoperare, ancora che né l’uno né l’altro sia da lodare. Paris fu sollecito alla sua distruzione, se ’l fine di tale sollecitudme si riguarda. Menelao non per amore, ma per racquistare il perduto onore, con ragione divenne sollecito, come ciascuna persona discreta dee fare. Né è ancora questo amore cagione di mitigata ira; ma benignità d’animo, passato l’impeto che induce quella, la fa tornare nulla, e rimettesi l’offesa a chi contro s’adira: ben che gli amanti, e ancora i discreti uomini, sogliono usare di rimettere l’offese a preghiera di cosa amata o d’alcuno amico, per mostrarsi di ciò che niente loro costa, cortesi, e obligarsi i pregatori: e per questa maniera Achille più volte già mostrò di cacciare da sé la concreata ira. Similemente ne mostri che costui fa gli uomini arditi e valorosi; ma di ciò il contrario si può mostrare. Chi fu più valoroso uomo d’Ercule, il quale innamorato mise le sue forze in oblio, e ritornò vile, filando l’accia con le femine di Iole? Veramente, alle cose ove dubbio non corre, gente arditissima sono gl’innamorati; e se dove dubbio corre si mostrano arditi, e mettonvisi, non amore, ma poco senno a ciò li tira, per avere poi vanagloria nel cospetto delle sue donne, avvegna che questo rade volte avviene, che dubitano tanto di perdere il diletto della cosa amata, che essi consentono avanti d’essere tenuti vili. E non ancora dubitiamo che questi mise ogni dolcezza nella cetara d’Orfeo: questo consentiamo che sia come tu porgi, ché veramente, al generale, amore empie le lingue de’ suoi suggetti di tanta dolcezza e di tante lusinghe, che essi molte fiate farieno con le loro lusinghe volgere le pietre, non che i cuori mobili e incostanti; ma di vile uomo è atto il lusingare! Come adunque diremo che tal signore si deggia seguire per bene propio del seguitore? Certo questi coloro in cui dimora fa dispregiare i savi e utili consigli: e male per li troiani non furono da Paris uditi quelli di Cassandra. Non fa costui similmente a’ suoi sudditi dimenticare e dispregiare la loro fama buona, la quale dee da tutti, come etterna erede della nostra memoria, rimanere in terra dopo le nostre morti? Quanto la contaminasse Egisto basti per essemplo, avvegna che Silla non meglio operasse che Pasife. Non è costui cagione di rompere i santi patti e la pura fede promessa? Certo sì. Che aveva fatto Adriana a Teseo, per la quale cosa rompendo i matrimoniali patti, dando a’ venti sé son la donata fede, misera la dovesse ne’ diserti scogli abandonare? Un poco di piacere, veduto negli occhi di Fedra dallo scelerato, fu cagione di tanto male, e di cotal merito del ricevuto onore. In costui ancora niuna legge si truova: e che ciò sia vero, mirisi all’opere di Tireo, il quale, ricevuta Filomena dal pietoso padre, a lui carnale cognata, non dubitò di contaminare le sacratissime leggi tra lui e Progne, di Filomena sorella, matrimonialmente contratte. Questi ancora, chiamandosi e faccendosi chiamare iddio, le ragioni degli iddii occupa. Chi porria mai con parole le iniquità di costui narrare appieno? Egli, brievemente, ad ogni male mena chi ’l segue: e se forse alcune virtuose opere fanno i suoi seguaci, che avviene rado, con vizioso principio le incominciano, disiderando per quelle più tosto venire al disiderato fine del laido lor volere. Le quali non virtù ma vizio più tosto si possono dire, con ciò sia cosa che non sia da riguardare ciò che l’uomo fa, ma con che animo, e quello vizio o virtù riputare, secondo la volontà dell’operante: però che già mai cattiva radice non fece buono arbore, né cattivo arbore buon frutto. Adunque questo amore è reo, e se egli è reo, è da fuggire: e chi le malvage cose fugge, per consequente segue le buone, e così è buono e virtuoso. Il principio di costui niuna altra cosa è che paura, il suo mezzo peccato e il suo fine dolore e noia: deesi adunque fuggire e per riprovarlo e temere d’averlo in sé, però che egli è impetuosa cosa, né in niuno suo atto sa aver modo, e è sanza ragione. Egli è sanza dubbio guastatore degli animi, e vergogna e angoscia e passione e dolore e pianto di quelli; e mai sanza amaritudine non consente che stia il cuore di chi il tiene. Dunque chi loderà che questi sia da seguire, se non gli stolti? Certo, se licito ne fosse, volontieri sanza lui viveremmo, ma tardi di tal danno ci accorgiamo; convienci, poi nelle sue reti siamo incappati, seguire la sua vita, infino a tanto che quella luce, la quale trasse Enea de’ tenebrosi passi, fuggendo i pericolosi incendii, apparisca a noi, e tirici a’ suoi piaceri -.