Libro quarto - Capitolo 138
Pingesi avanti Ascalion e ficca gli occhi per l’oscurità del fummo, disiderando, se in alcun modo esser potesse, di veder Filocolo, ma per niente s’affatica: per che dirizzatosi sopra le strieve, vede i compagni pure a lui guardare. Ond’egli recatasi la forte lancia in mano, e chiusa la visiera dell’elmo, e imbracciato il buono scudo, ardendo tutto di rabbiosa ira, fra sé dice: - O graziosa anima, dovunque tu dimori, avendo in queste fiamme di Filocolo lasciato il corpo, rallegrati, però che a vedere l’infernali fiumi gran compagnia d’anime de’ tuoi nemici ti seguirà, e poi quelle de’ tuoi compagni, de’ quali niuno al tuo padre intende di rapportare novelle della tua morte. Veramente, o anima graziosa, chiunque gliele dirà, con la tua morte la vendetta fatta d’essa e le morti di noi tutti racconterà. Prestinci gl’iddii sì lunga vita, che, prima che i nostri occhi si chiudano, noi veggiamo le nostre spade tinte di ciascun sangue di qualunque ha nociuto a te, e poi ci facciano cadere con loro insieme sanza vita nel sanguinoso campo: dove se mai chi ci uccida non troveremo, noi con le nostre mani, per seguirti, la morte ci porgeremo -. E questo detto, dirizzatosi verso Ircuscomos, il quale davanti a sé vedea, gridando disse: - Ahi, crudel barbaro, oggi la tua crudeltà avrà fine: la tua morte sarà merito della mia lancia! - E corsogli sopra, dirizzata verso lui la lucente punta, il ferì nello scudo, sopra ’l quale quella si ruppe sanza offenderlo niente. Il barbaro, questo vedendo, con altissime voci richiama la sparta masnada sopra i sette compagni, non avendo ancora veduto l’ottavo: e sì come il porco poi che ha sentite l’agute sanne de’ caccianti cani, squamoso con furia si rivolge tra essi, magagnando qual prima con la sanna giunge, così Ircuscomos rabbioso, con ispiacevole mormorio, con una mazza ferrata in mano sopra cavallo con tutta sua forza si dirizzò per ferire Ascalion sopra la testa. Ma Ascalion, savio, lo schifa, e, mentre che il peso del corpo tira Ircuscomos abasso, Ascalion, tratta la spada, il fiere sopra il sinistro omero sì forte, che di poco non il braccio con tutto lo scudo gli mandò a terra. Ircuscomos sente la doglia, e ricoverato il corpo, fiere sì forte Ascalion sopra l’elmo, che, fatto di quello molti pezzi, lui tutto stordito fé bassare sopra il collo del suo cavallo; ma poco stato, tornato in sé, si levò più fiero. E come tal volta il leone, poi che ’l suo sangue in terra vede, diviene più fiero, così Ascalion, divenuto più sopra il barbaro animoso, con la spada in mano tornò verso lui, e dandogli più colpi, uno con tutta sua forza ne gli diede dove ferito l’avea sopra l’omero altra volta, e mandò in terra il braccio con tutto lo scudo. Il libiano, doloroso di tale accidente, non però lascia di ferire Ascalion; ma egli spaventato del gran colpo, gli altri sopra lo scudo riceve. Ma Ircuscomos già debile per lo perduto sangue, vedendosi sanza scudo, volta e redine del destriere, e lasciando il campo, verso Alessandria se ne fugge. Il romore per gl’incominciati colpi multiplica: gli altri compagni d’Ascalion, poi che videro lui cominciare, ciascuno, bassata la lancia, corre verso i nimici, e, per essemplo del vecchio cavaliere, ciascuno vigorosamente combatte, e sanza alcuna paura di morire. Ma Parmenione che con Flagrareo s’era scontrato, datisi due gran colpi nell’affrontare, combatte maravigliosamente, e punto non spaventato per la fierezza del nimico, né della moltitudine circustante, con maestrevoli e forti colpi il reca a fine, e semimorto quivi il lasciò davanti al fummo, correndo agli altri. Bellisano, ormai anziano cavaliere, d’armi gran maestro e di guerra, faceva mirabili cose. Egli, andando dietro ad Ascalion, quanti davanti del misero popolazzo gli venieno, tanti n’uccideva o feriva, né alcuno a’ suoi colpi poteva riparare. Il duca dall’altra parte, scontratosi con un turchio chiamato Belial, ferocissimo e di gran forza, combattea mirabilmente bene, ma resistere non gli avria potuto, se non che venendo Menedon di traverso con una scure in mano levata ad un cavaliere, che morto avea, quella alzando, sì forte diede sopra la testa al turchio che feritolo a morte e storditolo, tutto sopra ’l collo del cavallo caduto stette grande ora, difeso da molti; ma poi risentendosi, recatosi il freno in mano, e cominciando a fuggire tenne la via verso il mare con molti altri, e seguiti dal duca e da Menedon, per tema de’ mortali colpi con tutti i cavalli fuggirono in mare, de’ quali assai, credendo morte fuggire, morirono. Messaallino e Dario erano più che gli altri vicini al fummo venuti, correndo dietro a’ due cavalieri; e incappati tra grande moltitudine d’armati pedoni, quivi combattendo, furono loro uccisi i buoni cavalli: per che rimanendo a piede, forte combattendo con la scelerata turba, di quelli intorno a sé ciascuno avea fatto gran monte d’uccisi, sopra i quali saette e lance, in grandissima quantità, quasi in forma di nuvoli si saria veduta continuamente cadere. E ben che ciascuno de’ sette mirabili cose facesse, di niuno fu maraviglia il campare sanza morte quanto di questi due. Andavano adunque combattendo i sette compagni valorosamente, più per vendicare la morte di Filocolo e per morire, che per vaghezza d’acquistar vittoria. E già presso che al loro intendimento venuti, avendone essi molti uccisi, e ciascuno debole e stanco e in molte parti ferito, ognora più multiplicando il popolo e la quantità degli armati cavalieri, si disponeano a rendere l’anime. Il feroce iddio, che ciò conosceva, mossosi, dietro se li raccolse, e con veloce corso intorniando il prato tutti e otto, col suo aspetto a qualunque era nel campo tanta paura porse, che come a Noto, robustissimo vento, fugge davanti alla faccia la sottile arena sanza resistenza, così a lui generalmente ogni uomo fuggiva, trepidando la morte, non altrimenti che la timida cerbia veduto il fiero leone.