Libro quarto - Capitolo 13
- A me parea essere da tutti voi lasciato e dimorare sopra lo falernese monte, qui a questa città sopraposto, e sopra quello mi parea che un bellissimo prato fosse, rivestito d’erbe e di fiori dilettevoli assai a riguardare, e pareami di quello potere vedere tutto l’universo; né mi parea che alli miei occhi alcuna nazione s’occultasse. E mentre che io così rimirando intorno le molte regioni dimorava, vidi di quello cerreto ove noi la misera fontana trovammo, uno smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato, pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una fagiana bellissima e volante molto, che levata s’era d’una pianura fra salvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta Naso: e nel già detto prato a me assai appresso mi parea ch’egli la sopragiungesse, e ficcatasela in piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso, assai vicino di quel luogo onde levata s’era la fagiana, mi parve vedere levare quello uccello che a guardia dell’armata Minerva si pone, e con lui uno nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quella isola la quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi di quindi levare e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre che io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l’ultimo ponente e i regni di Trazia di sopra a Senna levarsi uno sparviere bellissimo e uno gheppo, e seguitare un girfalco e un moscardo e un rigogolo e una grua, che di sopra alla riviera del Rodano levati s’erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in più prossimana parte tirati gli occhi, vidi delle guaste mura, lasciate da noi nel piano del fratello del Tevero, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de’ suoi popoli nimica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando seguiva: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d’Elena, e quivi venne, e d’una costa d’una di queste montagne vicine venne uno avoltoio e con gli altri nel bel prato si pose. E mentre che io della adunazione di questi uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia molti e diversi altri levarsi, e con gli sopradetti giugnersi: e’ mi parea, se bene estimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri precedere, e, a loro dietro, una delle figliuole di Piero conobbi, e una ghiandaia che pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il mirifico tiratore de’ carri di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un grande aghirone con la misera Filomena e con Tireo, a’ quali dietro volava un indiano pappagallo e un frisone, e con gli altri accolti, fatto di loro un cerchio dintorno alla fagiana, da’ piè di Niso sopr’essa. Io maravigliandomi incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti incominciarono a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni allo smerlo, gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti; e chi penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando, sanza ghermirla punto, quanto potea da tutti la difendea; e in questa battaglia per lungo spazio dimorò, e quasi io più volte fui mosso per andare ad aiutarlo, poi ritenendomi fra me dicea: "Veggiamo la fine di costui, se egli avrà tanto vigore che da tutti la difenda". E così attendendo, delle montagne vicine a Pompeana vidi un gran mastino levarsi e correre in questo luogo, e tra tutti gli uccelli ficcatosi, con rabbiosa fame il capo della fagiana prese, e quello divorato, per forza l’altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so come in tortola essere trasmutato, e sopra un vicino albero, nel quale fronda verde il nuovo tempo non avea rimessa, posarsi, e sopra quello a modo di pianto umano quasi la sentiva dolere. E così stando, mi parve vedere il cielo chiudersi d’oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch’egli ne cominciò a scendere un’acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta: e i tuoni e’ lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io dubitava non il mondo un’altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa pistolenzia parea che sopra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con l’alie chiuse tutta la sostenea. La terra e ’l mare e ’l cielo crucciati e minacciando peggio, pareano contra a quella commossi, né parea che luogo fosse alcuno ove essa per sua salute ricorso avere potesse. E così di questa visione in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non stante fantasia, infino a quell’ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora nella mente turbato della compassione avuta al povero uccello -.