Libro quarto - Capitolo 128
Piangendo Biancifiore così col suo amante sospesa, Filocolo con forte animo serrò nel cuore il dolore, e col viso non mutato né bagnato d’alcuna sua lagrima sostenne il disonesto assalto della fortuna, la quale, perché l’angoscia dell’animo non menomi, niuna sua felicità gli leva della memoria. Egli, vedendosi solo e sanza speranza d’alcuno aiuto, le forze de’ suoi regni fra sé ripete, e loro, per adietro poco amate, ora avria molto care. Egli si duole degli abandonati compagni, nescii di tale infortunio, da’ quali soccorso spererebbe, se credesse che ’l sapessero. Egli, pensando alla vile morte che davanti si vede, appena può le lagrime ritenere. Ma sforzando col senno la pietosa natura, quelle dentro ritiene, e dopo alquanto pensiero, con gli occhi a se medesimo volti, così fra sé cominciò a dire: - O inoppinato caso! O nimica fortuna! Ora l’ultimo fine delle tue ire sopra me sazierai. Ora i lunghi tuoi affanni finirai. Tu per molti strabocchevoli pericoli m’hai recato a sì vile fine, non sostenendo più volte, quando il morire m’era a grado, che vita mi fallisse. Oh, quante volte sarei io potuto morire con minor doglia che ora non morrò, e più laudevolmente! Se tu, o iniquissima dea, avessi sostenuto che io, la prima volta ch’io da costei mi partii, fossi nelle sue braccia morto, com’io cercava, sentendo io per la mia partita intollerabile dolore, gl’iddii infernali avriano presa lieta la mia anima! O almeno m’avesse la ingiusta lancia del siniscalco passato il cuore, quando con lui, mai più non usato all’armi, combattei! O mi fosse stato licito l’uccidermi, quando costei tanto piansi, credendola morta! Almeno qualunque di queste morti presa avessi, nel cospetto della mia madre sarei morto, e ella col mio padre insieme il pietoso uficio avrebbero adoperato, guardando poi le mie ceneri con pietoso onore, le quali mai non rivedrà, se Eolo con le sue forze non le vi porta mescolate con ravolti nuvoli e con la non conosciuta arena. Ora, se tu forse questa misera grazia agl’indegni parenti non volevi concedere, perché nelle marine onde, dove la spaventevole notte, della quale io ho poi sempre avuto paura, tanto mi spaventasti, non mi facesti ricevere a’ marini iddii? E ben che assai mi fosse stata dura la morte, perché più presso era a’ miei disiri, l’avrei io più tosto voluta, quando nelle tue mani mi rimisi, nascondendomi sotto le frondi mobili sì come tu. Perché allora così la persona mia, come i capelli, non palesasti agli occhi del nimico? Tu, crudelissima, di questi e di molti altri pericoli m’hai campato, non per grazia ch’io aggia nel tuo cospetto avuta, ma per conducermi a più disprezzevole fine, come ora hai fatto. E certo tutto questo mi saria assai meno grave a sostenere, se a sì fatta vergogna mi vedessi solo. Oimè, quanto m’è grave a pensare che colei cui io amo sopra tutte le cose del mondo, colei per cui i passati pericoli mi sono paruti leggieri a sostenere per vederla, colei che me più che io lei ama, mi sia compagna a sì vile morte! O Filocolo, più ch’altro uomo misero, hai tu tanto affanno durato per conducere la innocente giovene a sì vile fine? Ella muore per te, e per te un’altra volta a simil morte fu condannata, per te venduta e per te vituperata. La fortuna, forse verso lei pacificata, l’apparecchiava degna felicità alla sua bellezza, se tu non fossi stato, e però tu giustamente muori. Ma ella perché, con ciò sia cosa ch’ella non sia colpevole? Sola l’angoscia di lei mi duole, ché la mia io la passerei con minore gravezza! O crudel padre, o dispietata madre, oggi di me rimarrete quieti: voi non mi voleste pacificamente avere, e voi oggi di me vedovi rimarrete. Né vi concederà la fortuna di chiudere i miei occhi nella mia morte, né di riporre le mie ceneri ne’ cari vasi. Oggi della vostra nimica Biancifiore, da voi con tante insidie perseguitata, sarete diliberati, ma non sanza vostra tristizia, né potrete per me spandere lagrime, che per lei similemente non le spandiate. Un giorno, una ora, una morte vi ci torrà: e non ingiustamente, ché convenevole cosa è che chi non vuole il bene quietamente possedere, che tribolando sanza esso viva. Rimanete adunque in etterno dolore, e di tal peccato siano gl’iddii giusti vendicatori. O gloriosi iddii, non si parta del vostro cospetto inulta la iniquità del mio padre. O sommi governatori de’ cieli, i quali in tanti affanni avete le mie fiamme udite, aiutate la innocente giovane. Venga sopra me, il quale ho commessa l’offesa, la vostra indignazione. O Imineo, o Iuno, o Venere, i quali io l’altra notte, se io non errai, vidi per la lieta camera portanti i santi fuochi del novello matrimonio, riservatevi Biancifiore al buono agurio di quelli, e se alcuna infernale furia fu tra voi con quelli mescolata, o se alcun gufo sopra noi cantò, caggiano sopra me i tristi agurii. Io non curo della mia morte, però che io l’ho con ingegno cercata: sia solamente costei, che per me sanza colpa muore, aiutata da voi -.