Libro quarto - Capitolo 11
Videro Filocolo e’ suoi compagni Febeia cinque volte tonda e altretante cornuta, avanti che Noto le sue impetuose forze abandonasse: né quasi mai in questo tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa gravissima malinconia e ira la disiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo ricevere gli pareva. E più volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e con umili prieghi s’ingegnò di piegare, ma venire non ne poté al disiderato fine, anzi parea che quelli più nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva dicendo: - Oimè, che ho io verso gl’iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non sono accettati? Io non sacrilego, io non invido de’ loro onori, io non assalitore de’ loro regni, né tentatore della loro potenza ma fedelissimo e divoto servidore di tutti: adunque ché mi nuoce? -. Egli dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a’ marini liti, e in quella parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva e rimirava, dicendo: - Sotto quella parte del cielo dimora la mia Biancifiore. Quella parte è testé da lei veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch’ella adduce seco, presa dalla luce de’ begli occhi di Biancifiore -. E poi bassati gli occhi sopra le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle sue rotture con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti stimolare quelle, turbato in se medesimo dicea: - O dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio andare? Forse tu pensi ch’io un’altra volta porti il greco fuoco alla tua fortezza, come fecero coloro a’ quali se tu così crudele, come a me se’, fossi stato, ancora le sue mura vedresti intere e piene di popolo sanza essere mai state offese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col cuore acceso di fiamma inestinguibile, per lo piacere d’una bellissima giovane, sì come tu già avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovare lei, allontanata per inganni d’alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono più coloro nel tuo cospetto, che portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso, che commesso più che gli ausonici mercatanti? Niuna cosa: con continui sacrificii ho la tua deità essaltata cercandola di pacificare verso me. Alla quale s’io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io m’avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non è lungo tempo passato, quando me e’ miei compagni per morti quasi in questo luogo ci gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché sanza utilità più avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati brieve quantità come da Leandro erano, con la virtù dell’anello ricevuto dalla pietosa madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere e crederei poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sì lungo cammino per quelli ho ad andare, che più tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere m’offendesse: e per questo la tua pace cerco e quella disidero; non la mi negare, io te ne priego per quello amore che già per Esmenia sentisti. E tu, o sommo Eolo, spietato padre di Cannace, tempera le tue ire, ingiustamente verso me levate. Apri gli occhi, e conosci ch’io non sono Enea, il gran nemico della santa Giunone: io sono un giovane che amo, sì come tu già amasti. Pensi tu forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire, racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra: io non sono Macareo, né mai in alcuna cosa t’offesi. Sostieni ch’io compia lo incominciato viaggio, e quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti piace soffia: graziosa cosa mi sarà di quel luogo mai non partirmi. Allora mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sarà il dimorare. Ma ora che con angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che ’l mio disio io il possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi in pace -. Poi diceva: - Oimè, ove mi costrigne amore di perdere i prieghi? Alle sorde onde e a’ dissoluti soffiamenti, ne’ quali niuna fede, sì come in cosa sanza niuna stabilità, si truova! -.