Fermo e Lucia/Tomo Terzo/Cap IV

Tomo Terzo - Capitolo Quarto

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Ebbe appena Don Abbondio proferite queste ultime parole che se ne pentì, s’accorse d’aver detta una insolenza, e si aspettò che questa volta Monsignore monterebbe affatto in bestia. Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu molto maravigliato in vedere la faccia di quell’uomo, ch’egli era destinato a non poter mai né indovinare né comprendere, in vederla passare da quella gravità riprensiva ad una gravità tutta compunta e pensosa. «Pur troppo!» disse il Cardinale: «tale è la nostra miseria. Dobbiamo ripetere dagli altri quello che forse non sapremmo dare noi; dobbiamo riprendere altrui, e sa Dio quello che avremmo fatto noi nel caso stesso. Ma guaj se io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui! Pure è certo ch’io vi debbo l’esempio: non debbo essere il fariseo che impone altrui insopportabili carichi, ch’egli non vuol pure toccare colla punta del dito. Or bene: se voi m’avete veduto trascurare qualche mia obbligazione per pusillanimità, ditemelo francamente, correggetemi, fatemi ravvedere».

Vedendo Federigo che Don Abbondio non rispondeva, e sospettando ch’egli forse fosse rattenuto dal timore di offenderlo, riprese con tuono umile e cordiale: «Dite, che dinanzi a quel Dio che ci ascolta, io vi protesto, che non che sdegnarmene, vi sarò grato, e v’avrò più caro che mai non vi avessi». Ma i pensieri di Don Abbondio erano tutt’altri da quelli che s’immaginava il Cardinale.

— Oh che tribolatore! — pensava Don Abbondio. — Anche sopra di sè! purché frughi, rimescoli, esamini, critichi, è contento. Ora io andrò a fargli l’esame di coscienza! Farebbe meglio a non farmi tanta inquisizione sui fatti miei, che dei suoi io non mi piglio briga. — Ma come bisognava pure dir qualche cosa ad alta voce, ecco ciò che disse Don Abbondio.

«Oh Monsignore, mi burla! Chi non conosce il petto forte, l’animo coraggioso di Vossignoria illustrissima?» A questa dichiarazione fece poi nel suo cuore Don Abbondio questo commento: — Anche troppo, che un po’ di giudizio starebbe meglio: lasciare andar l’acqua all’ingiù, e non andare a comprarsi le brighe, nelle faccende cercare tutti i musi duri per cozzare e fino nelle visite andare a pescare tutti i pericoli, schivare le strade piane, e andare in cerca dei greppi e dei precipizi per fiaccarsi l’osso del collo.

Il Cardinale rispose al complimento di Don Abbondio: «Io non vi domandava una lode che mi fa tremare, perché chi può sapere come mi giudichi Chi vede tutto? ma voi dovete sapere che quando a servire il prossimo in quelle cose, dove egli ha ragione nei nostri servigj è necessaria una risoluzione coraggiosa, allora questa risoluzione è di stretto dovere. Ditemi dunque: che avete voi fatto dopo quella intimazione che avete detto?»

«Che ho fatto, Monsignore?» disse Don Abbondio. «Mi son messo a letto con la febbre». E aggiunse in cuor suo: — Stiamo a vedere che rimprovero mi farà per aver avuta la febbre.

«Vi tolse essa il sentimento e la favella?» domandò il Cardinale.

«Monsignor no», rispose Don Abbondio: «ma le so dire che fu una febbre fiera: sono spaventi che non gli auguro a nessuno».

«La carne è inferma», ripigliò Federigo: «ed è questa la nostra miserabile condizione: ma lo spirito fu egli pronto? Che avete voi fatto per quei due poveretti, dei quali voi, e voi solo allora conoscevate il pericolo?»

«Ma che cosa doveva fare, col nome di Dio?» disse Don Abbondio.

«Debbo io dunque dirvelo?» ripigliò Federigo: «non l’avete sentito? non lo sentite pur ora? Al vedere un tanto pericolo venir sopra due anime innocenti, che vi sono date in custodia, le vostre viscere non si sono commosse? Non avete tremato per essi? Non avete provato il tormento della carità? Il vostro corpo si abbattè sotto lo spavento: guai al tristo superbo, che ne pigliasse argomento di beffa e di dispregio: per questa debolezza che non è della vostra volontà, non sento altro che una pietà rispettosa: ma nella umiliazione del vostro terrore, ma nelle angosce della vostra infermità, come non avete pensato alle angosce che erano minacciate a quelli sui quali voi dovevate vegliare? Che! il lupo s’era mostrato, le pecore pascevano con sicurezza, e voi non avete pensato, non dico a difenderle, ma né pure a farle avvertite. Coi cenni l’avreste dovuto, quando la parola vi fosse mancata».

«Ecco come vanno le cose», disse Don Abbondio: «io mi confondo davanti a Vossignoria illustrissima, e faccio torto alla mia causa, per non saper ben dire le mie ragioni. Non le ho detto che quei due (due lì presenti, ma a contarli tutti, sono un reggimento) quei due mi hanno proibito espressamente, sotto pena della vita di parlare».

«Dio buono!» riprese Federigo, «voi avete creduto, voi credete ancora, voi sostenete dinanzi a me che una tale proibizione dovesse essere per voi un comandamento? Che doveste obbedire? Così dunque basterebbe un violento in ogni parrocchia per fare che il ministero fosse tutto sospeso, i pastori muti e schiavi? i deboli abbandonati? Che dovevate voi fare? Chiedere a Dio la forza che vi era necessaria, e Dio ve l’avrebbe accordata; non perdere un momento: avvertire quei due poveretti della iniquità potente che stava all’erta contra di loro, strascinarvi in Chiesa, e fare a malgrado dell’uomo quello che Dio vi comandava, consacrare la loro unione, e chiamare sopra di loro la benedizione del cielo: dovevate soccorrerli di consiglio, di mezzi per porsi al riparo con la fuga, cercar loro un asilo, fare quello che implorereste se foste perseguitato da un più forte di voi: dovevate informar tosto il vostro vescovo del loro, del vostro pericolo, dell’impedimento che una violenza infame poneva all’esercizio del vostro ministero. Io, io allora avrei tremato per voi; io avrei posto in opera tutto quello che Dio mi ha dato di ajuti, di aderenze, di autorità, per difendervi: io non avrei dormito fin che non fossi certo che non vi sarebbe torto un capello. Ah! per quanto l’iniquità trionfi, v’è pure ancora un po’ di forza per la giustizia: ma i poverelli, inesperti, ignari, sfidati, non sanno dove andarla a cercare: bussano alla prima porta; e se la trovano chiusa, sorda, crudele, si disanimano affatto, e non sanno come adoprarsi. Quell’uomo che ardì tanto credete voi che avrebbe tanto ardito se avesse saputo che le sue trame, le sue violenze erano note fuor di qui, note a me? Vi dico che sarebbe stato contento di ritrarsi, e voi dopo aver fatto il debito vostro, sareste stato sicuro. Quella inquetudine che avete provata, l’avrei provata io, incessante, intensa, ingegnosa: io vi avrei promosso in luogo, fin dove certo le braccia di costui non si sarebbero allungate. Ma voi non avete fatto nulla. Nulla! Dio ha salvata questa innocente senza di voi: l’ha salvata... se dico troppo, se il mio giudizio è temerario, smentitemi, che mi consolerete... l’ha salvata a mal vostro grado».

Don Abbondio taceva: il Cardinale continuò: «È doloroso il terrore, sono increscevoli le angosce, è amara la pressura: voi lo sapete: ma sapete voi misurare la paura e le angosce che ha sofferte una vostra parrocchiana innocente?»

Don Abbondio, dagli anni della pubertà in poi, non aveva mai occupato tanto poco di spazio come in quel momento: ad ogni parola del Cardinale egli si andava ristringendo, impicciolendo, avrebbe voluto sparire. Tacque egli per qualche momento, non trovando ragione da opporre in quel campo dove il Cardinale aveva posta la questione, e dove la teneva a forza. Finalmente per dir qualche cosa pensò a cangiarla e a ricriminare. Disse dunque con quella debolezza ostile che fa svanire anche la pietà che la debolezza ecciterebbe naturalmente:

«Quelli che vengono a rapportare, ad accusare, non dicono tutto, Monsignore illustrissimo. Questo bel fiore di virtù, questa povera giovane è venuta per sorprendere il parroco e per fare un matrimonio clandestino. E quel suo sposo, era una buona lana, è andato a Milano, e sa il... cielo che cosa ha fatto: a buon conto ha dovuto fuggire».

«Io lo sapeva», disse il Cardinale; «ma voi come osate parlare di questi fatti che aggravano la vostra colpa, che ne sono la conseguenza? Voi chiudete a dei poverelli la via legittima per giungere ad un fine legittimo, e siete voi quello che fate lor carico se ne hanno presa una illecita? Certo il vostro rifiuto non gli scusa: ma pensate voi bene in questo momento quale sia l’animo di colui a cui si nega quello che gli è dovuto? L’uomo è tanto artificioso per giustificare i mezzi, che lo possono condurre ai suoi desiderj! che debb’esser quando i desiderj sono giusti? Non è questa la più forte delle tentazioni? Mal fa chi soccombe anche a questa: ma che dite di colui che la dà? E quello sventurato giovane; bene avete detto, sa il cielo che cosa ha fatto! Ah! tutti errano pur troppo, anche quelli che dovrebbero raddrizzare gli errori altrui: v’ha tanti scellerati impuniti, Dio volesse che la pena, che il terrore della pena non cadesse mai sugli innocenti! Ma che ch’egli abbia fatto, egli profugo, esacerbato, col sentimento della giustizia negata, pregate Dio, io prego per lui e voi, che gli perdoni, e non vi accagioni di quello che egli possa aver fatto. Era egli prima d’ora uomo di risse, e di misfatti? e di rivolta? Io lo domando a voi, e Dio ascolta la vostra risposta».

«Questo non lo posso dire», rispose Don Abbondio.

«E voi non tremate?» ripigliò il cardinale. «Voi non pensate che se quest’anima la quale era stata affidata a voi, s’è pervertita, voi avete una terribile parte nel suo pervertimento? Un tiranno l’aveva contristata, provocata, esacerbata: era una tentazione: ma non la più forte; ma poteva divenire una occasione di offerta, di sagrificio, di rassegnazione. I poverelli sanno, debbono pur troppo saperlo, che v’ha dei soverchiatori violenti: hanno inteso dire fino dall’infanzia che Dio gli lascia spaziare alcun tempo su la terra per esercizio dei buoni, hanno appreso ad adorare, anche nella iniquità degli uomini, la giustizia, e la misericordia di Dio entrambe infallibili, ma riserbate entrambe a momenti ch’Egli solo conosce. E quante volte la persecuzione dell’empio non accresce in essi la fede? Ma quello che la turba, quello che inverte la loro coscienza, quello che travolge il loro proposito, è l’abbandono per parte di coloro che predicano la fede, la coscienza, il proposito. Un tiranno ha sbalzato questo sventurato giovane lontano dalla sua casa, l’ha staccato da quei mezzi, da quelle consuetudini, da quella vita nella quale egli poteva esser facilmente onesto. Ah! allora più che mai egli ha avuto bisogno di consiglio, e di soccorso! Allora una voce forte e amorosa doveva farsi sentire a quell’anima tentata; doveva dirle: bada! l’iniquità trionfante non ti confonda: ella non è eterna: la tua collera non ti vinca: ella non è giusta, perché non ha ancora veduto la fine. Quell’infelice era sopraffatto dallo spettacolo dell’ingiustizia d’un uomo; un altr’uomo doveva rendergli visibile la carità, perch’egli la credesse, perché l’amasse, perché non si staccasse da essa. Chi doveva esser quest’uomo? — Ma egli ha veduta, ha sentita l’ingiustizia sola, l’ha veduta impunita, temuta: ha veduto colui dal quale aveva imparato a detestarla, ritirarsi, cedere, assecondarla, quando si è mostrata nella sua forza; dopo averla abborrita, egli ne è stato abbagliato, ne ha fatto il suo Dio. Non dite ch’egli era disposto alla perversità, e che ha colta la prima occasione per darsi ad essa. Sarebbe questa una scusa dolorosa, ma una scusa per voi, se aveste fatto quello che per voi si poteva, qualche cosa, per ritrarlo da quella via, per ritenere nel bene i suoi pensieri dubbiosi. Che avete voi fatto? Che conforto, che ricordo, che esempio ha egli portato con sè, partendosi? Che ha egli avuto da voi? Un rifiuto. Chi non ha cura dei suoi, ha negato la fede, è peggiore dell’infedele. La sentenza è terribile, ma non viene da me: è del vostro Maestro, e del mio».

Il Cardinale cessò di parlare, ma nel suo volto composto al silenzio si dipingevano ancora i sentimenti che avevano mosse le sue parole, e che le sue parole avevano accresciuti: l’ira senza peccato, la commiserazione, un riflesso di terrore sopra se stesso al ricordo di quei doveri, che gli erano comuni con quello ch’egli riprendeva dell’averli sconosciuti. Don Abbondio sulle prime, quando aveva veduto che s’intonava un rabbuffo, aveva sentito un turbamento, una stizza, una tristezza tutta carnale; non poneva mente al senso della ammonizione, ma al tuono con cui era fatta: e non s’affannava d’altro che di sentirla finire. Ma dalle dalle, la pioggia continua di quelle parole dopo d’avere sdrucciolato su quella terra arida, l’aveva pure penetrata: erano conseguenze impensate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica pur nella mente di Don Abbondio; il quale cominciò davvero a comprendere quanto la sua condotta fosse stata diversa da quella legge, ch’egli stesso aveva sempre predicata. Taceva egli; ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso: taceva come quegli che ha più cose da pensare che non da dire. Il Cardinale s’accorse dell’effetto delle sue parole; ne sentì consolazione e pietà, in un punto, e riprese:

«Queste però, signor curato, non debbono essere le ultime nostre parole su questo affare. Sa il cielo come io avrei desiderato di tener con voi tutt’altro discorso. Siam vecchi entrambi: sa il cielo se m’è doluto di dover contristare con rimproveri questa vostra canizie; quanto avrei voluto piuttosto racconsolarmi con voi delle nostre cure comuni, dei nostri guaj, col pensiero della beata speranza, alla quale già già tocchiamo. La mezza notte è vicina; lo Sposo non può tardare: colmiamo d’olio le nostre lampade, affinché non sieno estinte al suo arrivo. Riempiamo il nostro cuore di carità: essa sola è eterna; essa sola può raddolcire quel momento. Amiamo, e sarem forti; amiamo e le debolezze, che pur ci rimarranno, saranno coperte e perdonate».

Federigo fece ancora pausa a queste parole: Don Abbondio non ruppe il silenzio, ma il Cardinale vide ch’egli gli assentiva con l’animo, e continuò:

«Il male avvenuto è irrevocabile; ma non irreparabile; speriamo. Le sventure di quei due poveretti possono ancora tornare in loro bene, e in bene vostro. Chi sa quante occasioni Dio vi prepara di soccorrerli, di divenir per essi un padre, di compensare il torto che la vostra negligenza può loro aver fatto. Deh! non le lasciate sfuggire. Deh! non indurate il vostro cuore; non restituite loro, nelle occasioni, l’amarezza che può avervi data questa riprensione, che io v’ho fatta, sa il cielo, per amor vostro non meno che pel loro. Pur troppo, io l’ho più volte esperimentato in questa difficile altezza: il debole che si richiama al superiore, che gli fa conoscere la sua ragione, che ottiene una giustizia, troppo spesso momentanea, peggiora spesso la sua condizione. Quegli che è stato ripreso per sua cagione, tace dinanzi alla riprensione, cede al suo maggiore, ma trova poi il mezzo di fare espiare al debole quel breve trionfo. Son tanti i mezzi di fare avere torto al debole! e colui che ne aveva assunta la protezione, è tanto distratto da altre cure, di sì corta vista, che è facile fargli credere ch’egli si è ingannato alla prima, che ha protetto un immeritevole. Deh! non fate così: poiché quand’anche riusciste a farmi travedere, non sono io quello che v’ha da giudicare. Amate quegli infelici perché son vostri figli, per quello che hanno sofferto, per l’occasione che v’hanno data di udir la voce sincera del vostro pastore, per l’amore che possono attirarvi da Dio. Amateli cordialmente, e saprete sempre quello che avrete da fare per essi».

«Monsignore», disse Don Abbondio, con voce commossa, «dinanzi a voi e dinanzi a Dio prometto di fare per essi tutto quello che potrò. Ma Vossignoria illustrissima pensi a mettere un buon guinzaglio a quel cane. Vossignoria ha avuta la degnazione di dirmi che avrebbe tremato per me povero prete: sappia, Monsignore, che v’è da tremare ancora, perché quando Vossignoria sarà a far del bene altrove, costui tornerà qui a fare alla peggio».

«Dio l’ha già atterrito senza di voi, senza di me», interruppe Federigo, «voi lo avete veduto fuggire: non è questo un pegno dell’aiuto celeste? Ma io non lascerò di mettere in opera ogni mezzo umano che sia in poter mio. Porrò in sicuro quella povera giovane, che non lo sarebbe forse qui: chiederò conto di quegli che le era promesso; e s’egli è innocente... se le mie parole possono giovargli... Dio buono son tanto sospette le parole in bocca nostra! Pure io spero in Dio. Quanto a quel Signore, spero pure di poter fargli sentire che v’è chi non ha paura di lui, e può fargliene. Ad ogni modo, ricordatevi ch’egli non può uccidere che il corpo, e temete Quel solo che può perdere il corpo e l’anima».

«Ah l’anima! è vero pur troppo!» disse Don Abbondio, lasciando interrotta la frase che il suo pensiero compì a questo modo: — ma se quel birbante mi dovesse uccidere il corpo, sarebbe dura —. «A proposito del corpo», disse poi dopo un momento, «non per dare un parere a Vossignoria illustrissima, ma per amore di quella regolarità che tanto le piace, mi faccio lecito di avvertirla che l’ora è avanzata, e che il mio povero pranzo non aspetta che Vossignoria».

«Andiamo», disse il Cardinale, con un sospiro.

Abbiamo detto che il Conte del Sagrato era venuto ogni mattina a quella Chiesa che il Cardinale visitava in quel giorno. Stava alquanto con lui in quell’ora di riposo che precedeva il pranzo, e poi ripartiva. Ma in questo giorno egli era venuto con un disegno che fu cagione di farlo rimanere più tardi. Sapeva il Conte che Lucia doveva tornare alla sua casa: il Cardinale lo aveva informato di questo, anzi gliene aveva chiesto consiglio: perché, dove si trattava di pericoli, e di cautela, di bravi e di tiranni, non v’era uomo più al caso di dare un buon consiglio: e il Conte aveva confortato il Cardinale ad installare pure sicuramente Lucia nel suo pacifico albergo. Prevedendo egli dunque che quel giorno Lucia si sarebbe trovata dal Cardinale, non vi si presentò all’ora consueta, ma stette nella Chiesa aspettando l’ora in cui il Cardinale era solito di desinare, e quando questa gli parve dover esser giunta, entrò nella cucina, dove Perpetua stava in grandi faccende, e le chiese con umile affabilità di poter ivi trattenersi ad attendere che il pranzo fosse finito per chiedere udienza a Monsignore. Chi entra in una cucina in un giorno di cerimonia, è sempre il mal venuto; ma il Conte aveva una antica riputazione di ribalderia, e una recente di santità, che imposero anche a Perpetua, la quale per levarsi dattorno nel modo più gentile quell’incomodo arnese, propose al Conte d’entrare nella sala del pranzo.

«Si faccia avanti», diss’ella «sulla mia parola: Monsignore la vedrà molto volentieri; e anche il mio padrone, e tutta la compagnia: non faccia cerimonie».

Ma il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto. Perpetua lo fece sedere al posto d’onore della cucina nel banco sotto la cappa del camino; dicendo: «Vossignoria starà come potrà: veramente avrebbe fatto meglio d’entrare coi signori, che quello è il suo posto: basta, com’ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a tenerle compagnia, perché oggi ho tante faccende: ella vede». Il Conte sedette, ringraziò, e cavato un tozzo di pane che aveva portato con sè, si diede a mangiare. Quando Perpetua vide questo, non lo volle patire. «Come?, un signore suo pari! non sarà mai detto ch’ella faccia questo torto alla mia cucina. Ecco, si serva: mangi di questo: e lasci fare a me per mandare in tavola il piatto, senza un segno: non faccia complimenti: che serve?» E come il Conte rifiutava, Perpetua gli si avvicinò all’orecchio, e gli disse a bassa voce: «Via, Signor Conte; che scrupoli son questi? so quello che posso fare: la padrona sono io qui». Ma tutto fu inutile. Il Conte ringraziò di nuovo, e continuò a rodere ostinatamente il suo pane.

Quando poi da quello che accadeva in cucina, s’avvide che erano cessati i cibi e levate le mense, fece chiedere udienza a Federigo, dal quale fu tosto fatto introdurre.

«Monsignore», diss’egli, quando gli fu in presenza, «questo è un giorno di festa singolare per questo paese e per voi, ma in questa allegrezza comune, io, io ho una parte ben diversa da tutti gli altri; il gaudio puro e sgombro della liberazione d’una innocente non è per colui che l’aveva vilmente oppressa, angariata. A me conviene dunque un contegno e un linguaggio particolare; lasciate ch’io faccia oggi la mia parte; approvate che io vada ad implorare un perdono da quella innocente, ch’io mi umilj dinanzi a lei, che le confessi il mio orribile torto, e che riceva dalla sua bocca innocente dei rimproveri che non saranno certo condegni alla mia iniquità, ma che serviranno in parte ad espiarla».

Federigo intese con gioja questa proposizione; e pel Conte a cui questo passo sarebbe un progresso nel bene e una consolazione nello stesso tempo; per Lucia, alla quale lo spettacolo della forza umiliata volontariamente sarebbe un conforto, un rincoramento dopo tanti terrori, e pel trionfo della pietà, e per l’edificazione dei buoni; e finalmente perché una riparazione pubblica e clamorosa attirerebbe ancor più gli sguardi sopra Lucia, e sul suo pericolo, sarebbe una più aperta manifestazione del soccorso che Dio le aveva dato, la renderebbe come sacra, e così più sicura da ogni nuovo attentato dello sciarrato suo persecutore. Approvò egli adunque con vive e liete parole la proposizione, e aggiunse: «Dite: dite se l’offesa la più ardentemente bramata, la più lungamente meditata, la meglio riuscita reca mai tanta dolcezza quanto una umile e volontaria riparazione?»

«Ah! la dolcezza sarebbe intera», rispose il Conte, «se la riparazione potesse esserlo; se il pentimento, se l’espiazione la più operosa, la più laboriosa, potesse fare che il male non fosse fatto, che i dolori non fossero stati sentiti».

«Ma v’è ben Quegli», rispose Federigo, «che può far di più; che può cavare il bene dal male, dare pei dolori sofferti il centuplo di gioja, fargli benedire a chi gli ha sofferti. E quando voi fate per Lui e con Lui, quel poco che v’è concesso di fare, Egli farà il resto: Egli farà che del male passato non resti a quella poveretta che un argomento di riconoscenza e di speranza, e a Voi di una afflizione umile e salutare».

Detto questo il Cardinale, chiamò il curato, e gl’impose che facesse avvisare Lucia del disegno del Conte, e le dicesse ch’egli stesso la pregava di accoglierlo. Partito il curato, Federigo richiese il Conte che aspettasse tanto che Lucia potesse essere avvertita.

Dopo qualche momento il Conte uscì dalla casa di Don Abbondio e s’avviò a quella di Lucia tra una folla di spettatori, fra i quali era già corsa la notizia di ciò che si preparava.

La forza che spontanea, non vinta, non strascinata, non minacciata si abbassa dinanzi alla giustizia, che riconosce nella innocenza debole un potere, e domanda grazia da essa, è un fenomeno tanto bello e tanto raro, che beato chi può ammirarlo una volta in sua vita. Quei buoni terrieri (in quel momento erano tutti buoni) non si saziavano di guardare il Conte, lo seguivano, lo circondavano in tumulto, lo colmavano di benedizioni. Tanta è la bellezza della giustizia: per tarda ch’ella sia, innamora sempre quando è volontaria: quelli che dopo aver fatti patir gli uomini si vendicano dell’odio loro che gli tormenta col fargli patire ancor più, non pensano che quell’odio è pronto a cangiarsi in favore, in riconoscenza, al momento che una risoluzione pietosa, un ravvedimento anche senza confessione faccia cessare i patimenti.

Il Conte camminava ad occhi bassi e col volto infiammato, tutto compunto e tutto esaltato, che poteva sembrare un re condotto in catene al trionfo, o il capitano trionfatore. Don Abbondio camminava al suo fianco, e pareva... Don Abbondio.

Giunti alla casetta di Lucia, il curato fece entrare il Conte, e con ambe le mani ritenne la folla, o almeno le comandò che si rattenesse, tanto che potè chiuder l’uscio, e lasciarla al di fuori.

Lucia, tutta vergognosa condotta dalla madre si fece incontro al Conte, il quale, trattenendosi vicino alla porta nell’atteggiamento di un colpevole, le disse con voce sommessa: «Perdono: io son quello che v’ha offesa, tormentata: ho messe le mani sopra di voi, vilmente, a tradimento, senza pietà, senza un pretesto, perché era un iniquo: ho sentite le vostre preghiere, e le ho rifiutate; ho vedute le vostre lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi, vi ho fatta tremare senza che voi m’aveste offeso, perché era più forte di voi, e scellerato. Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel colloquio, perdonatemi quella notte; perdonatemi se potete».

«S’io le perdono!» rispose Lucia. «Dio s’è servito di lei per salvarmi. Io era nelle unghie di chi mi voleva perdere, e ne sono uscita col suo ajuto. Dal momento ch’ella m’è comparsa innanzi, che io ho potuto parlarle, ho cominciato a sperare: sentiva in cuore qualche cosa che mi diceva ch’ella mi avrebbe fatto del bene. Così Dio mi perdoni, come io le perdono».

«Brava figliuola!» disse Don Abbondio, «così si deve parlare: fate bene a perdonare, perché Dio lo comanda; e già quando anche non voleste, che utile ve ne verrebbe? Voi non potete vendicarvi, e non fareste altro che rodervi inutilmente. Oh se tutti pensassero a questo modo, sarebbe un bel vivere a questo mondo!».

«È vero», disse Agnese, «che questa mia poveretta ha patito molto... ma bisogna poi anche dire che noi poveretti non siamo avvezzi a vedere i signori venirci a domandar perdono».

«Dio vi benedica», disse il Conte, «e vi compensi con altrettanta e con più consolazione i mali che io vi ho fatti, tutti quelli che avete sofferti». Indi soggiunse titubando: «Come sarei contento se potessi far qualche cosa per voi!»

«Preghi per me», disse Lucia, «ora ch’è divenuto santo».

«Quello ch’io sono stato, lo so pur troppo anch’io: quello ch’io ora sia, Dio solo lo sa!» rispose il Conte... «Ma voi, in questa vostra orribile sciagura... in questa mia scelleratezza... non avete avuto soltanto timori, e crepacuori... La vostra famiglia... una famiglia quieta e stabilita... i vostri lavori, l’avviamento... voi avete sofferti danni d’ogni genere... se osassi... se potessi parlare di compensar questi, io che v’ho fatto tanto male che non potrò compensar mai... ma Dio è ricco... frattanto: datemi questa prova di perdono... accettate», e qui cavò con peritanza quasi puerile, un rotolo di tasca... «accettate questa picciola restituzione... non mi umiliate con un rifiuto».

«No no», disse Lucia: «Dio mi ha provveduta abbastanza: v’ha tanti poverelli che patiscono la fame: io non ho bisogno...»

«Deh! non mi rifiutate...» replicò il Conte con umile istanza: «se sapeste! questa somma... questo numero... pesa tanto in mano mia... e sarei tanto sollevato se l’accettaste... Non mi farete questa grazia, per mostrarmi che m’avete perdonato?» e vedendo che il volto d’Agnese esprimeva il consenso che il volto e le parole di Lucia negavano, presentò alla madre il rotolo, implorando pur con lo sguardo il consenso di Lucia.

«Grazie», disse Agnese al Conte; «e tu», continuò rivolta a Lucia, «ora non parli bene. Questo signore lo fa pel bene dell’anima sua, e noi poveri non dobbiamo esser superbi». Così dicendo svolse il rotolo, e sclamò: «Oro!»

«Vostra madre ha ragione», disse Don Abbondio: «accettate quello che Dio vi manda, e se vorrete farne del bene non mancheranno occasioni. Così facessero tutti! Così Iddio toccasse il cuore a qualchedun altro e gli ispirasse di compensare anche me povero prete, delle spese che ho dovuto fare in medicine per quella maledetta...» Voleva dire — paura — ma ebbe paura di parlare imprudentemente e si fermò.

«Vi ringrazio della vostra degnazione», disse il Conte a Lucia, «e del vostro perdono. E se mai in qualunque caso voi credete ch’io possa esservi utile, voi sapete... pur troppo... dove io dimoro. Il giorno in cui mi sarà dato di fare qualche cosa per voi, sarà un giorno lieto per me: mi parrà allora che Dio mi abbia veramente perdonato».

«Ecco che cosa vuol dire avere studiato!» disse Agnese: «appena Dio tocca il cuore, si parla subito come un predicatore».

Lucia ringraziò pure il Conte, il quale dopo d’aver ripetute parole di scusa e di umiliazione e di tenerezza, si congedò, uscì con Don Abbondio, e sulla porta si divisero. Il Conte tra le acclamazioni della folla prese la via che conduceva al suo castello, e Don Abbondio tornò a casa.

Appena le due donne furono sole, Agnese svolse il rotolo, e in fretta in fretta si diede a noverare. «Dugento scudi d’oro!» sclamò poi: «quanta grazia di Dio! Non patiremo più la fame certamente».

«Mamma», disse Lucia, «poiché quel signore ci ha costrette ad accettare questo dono, e ha preteso che fosse una restituzione... quei denari non sono tutti nostri. Non siamo noi sole che abbiamo sofferti danni... non sono io sola che abbia dovuto fuggire, intralasciare i miei lavori. Io sono tornata finalmente... e se non istarò qui, ho almeno chi pensa a me, chi non mi lascerà mancare di nulla... Un altro è lontano, e che Dio sa quando potrà tornare. Mi parrebbe di aver rubati quei denari, se almeno almeno non gli dividessi con lui».

«Glieli porterai in dote», disse Agnese, studiandosi di rotolare come prima gli scudi, che facendo pancia da una parte o dall’altra sfuggivano dalle sue mani inesperte.

«Non parliamo di queste cose, mamma», disse Lucia sospirando; «non ne parliamo. Se Dio avesse voluto... ah! le cose non sarebbero andate a quel modo. Non era destinato che fossimo... non ci pensiamo per carità».

«Ma s’egli torna», voleva cominciare Agnese.

«È lontano, è profugo, ramingo... ah! c’è altro da pensare: forse egli stenta, forse non ha pane da mangiare. Forse con questo ajuto, egli potrà collocarsi bene altrove, farsi un avviamento, uno stato...»

«Ohe!» disse Agnese, «tu non pensi più a lui?...»

«Penso a toglierlo d’angustia, e di bisogno», rispose in fretta Lucia. «Questo lo possiamo fare, al resto provvederà Iddio».

Agnese era onesta e buona, e per quanto le piacessero quei begli scudi giallognoli, non avrebbe potuto possederli con un contento puro e tranquillo quando le fossero divenuti in mano un testimonio di dura e bassa avarizia. Consentì ella dunque a destinarne la metà a Fermo, e promise a Lucia che avrebbe cercato tosto il mezzo di farglieli tenere sicuramente. Ma Agnese era rimasta colpita di quella nuova rassegnazione di Lucia all’assenza del suo promesso sposo, e non lasciò di tentarla con interrogazioni, dirette, tortuose, calzanti, subdole, per venirne all’acqua chiara. Lucia però seppe per allora e per qualche tempo schermirsi dal soddisfare alla curiosità materna, allegando sempre che era inutile il pensare a cose che le circostanze rendevano impossibili.

Il Cardinale aveva risoluto di partire quella sera di là, per portarsi ad una parrocchia vicina; ma partiva col dispiacere di non avere ancora potuto provvedere Lucia d’un asilo; e quantunque tutto paresse ivi sicuro per essa, pure il cuore del buon vecchio non era abbastanza tranquillo. Per avere la certezza che desiderava, egli non si rivolse a Don Abbondio; perché teneva per fermo (e nessuno dirà ch’egli giudicasse temerariamente) che Don Abbondio per rispondere «Monsignor sì» o «Monsignor no», avrebbe consultato piuttosto l’interesse e la sicurezza sua propria che quella di Lucia.

Commise egli adunque al suo Cappellano crocifero di aggirarsi fra il popolo, e di osservare lo stato delle cose, la disposizione degli animi, di vedere se v’era rimasta in paese gente di mala intenzione, se insomma si poteva partire col cuore quieto, lasciando Lucia nel luogo, dove alcuni giorni prima non era stata sicura. Il Cappellano fece ciò che gli era stato imposto; parlò al sagrestano, agli anziani, al console, e da tutti fu accertato che nulla v’era da temere. Anzi appena si ebbe sentore di questa inquietudine del Cardinale, in un momento giovani e vecchi s’offersero di guardare la casa di Lucia; con quella risoluzione, con quell’ardore con cui si veggono offrire le alleanze ad un principe vittorioso. «Son qua io», diceva l’uno... «tocca a me», diceva l’altro: «io son cugino», gridava un terzo: «io io che non ho paura di brutti musi», schiamazzava il quarto, e così fino al centesimo. Non si sarebbe potuto credere che Lucia pochi giorni prima avesse dovuto fuggire segretamente da quello stesso paese. Perché costoro non si presentavano quando v’era il bisogno? Eh! perché v’era il bisogno.

Avuta questa sicurezza, il Cardinale partì, facendo ancora ripetere a Lucia, ch’egli non si sarebbe scostato da quei contorni prima d’aver provveduto alla sua sorte. Infatti egli andò sempre in quei giorni ripensando al modo di compire questa sua opera, e ricercando in ogni persona, in ogni circostanza se poteva farne un mezzo al suo benefico intento. A forza di attendere e di ricercare, l’occasione si presentò. Visitando una di quelle parrocchie, ricevette Federigo fra le altre visite che accorrevano da ogni parte, quella d’una famiglia potente di Milano che villeggiava in quelle vicinanze. Don Valeriano, capo di casa, Donna Margherita sua moglie, Donna Ersilia loro unica figlia, e Donna Beatrice sorella del capo di casa, rimasta vedova nel primo anno di matrimonio, e ritornata a vivere ritiratamente in casa. Dei primi tre il Cardinale non aveva conoscenza molto vicina: sapeva soltanto che la famiglia benché molto distinta, pure non faceva terrore, che Don Valeriano non aveva riputazione di soverchiante e di tiranno; e questo merito negativo bastava in quei tempi a conciliare ad una famiglia potente la stima e la fiducia dei più savj. Oltre di che, Donna Beatrice era nota a Federigo assai più da vicino; le abitudini di una vita tutta consecrata alla pietà e alla assistenza dei poveri le avevano data senza ch’ella se ne curasse, una riputazione di santità, e il Cardinale in più occasioni incontrandosi con essa nelle stesse intenzioni, e nelle stesse occupazioni aveva avuto campo di accertarsi che quella riputazione non era menzognera. Quando adunque questa visita gli fu annunziata, propose egli di trovare il modo che Lucia andasse in quella casa; ma non dovette studiar molto a condurre il discorso dov’egli desiderava; perché l’affare di Lucia era stato tanto clamoroso che Don Valeriano non mancò di parlarne per fare un complimento al suo liberatore. Questi allora dopo d’aver modestamente rifiutate le lodi ch’egli sapeva di non meritare, raccontando semplicemente il fatto, e togliendone tutto ciò che la fama vi aveva aggiunto in suo onore, aggiunse che però tutto non era finito, che quella povera giovane uscita da un tanto pericolo non era pure in sicuro, non aveva un asilo, e che certamente avrebbe compiuta una opera incominciata da Dio chi l’avesse raccolta. Don Valeriano guardò in faccia a Donna Margherita, la quale assentì con una occhiata: Donna Beatrice, non guardata da loro, gli guardò entrambi con ansietà per vedere se avevano inteso, se avrebbero fatto vista d’intendere: Donna Ersilia continuò a guardare la croce del Cardinale, la porpora, a seguire con l’occhio la mano per osservare l’anello, che erano le cose per le quali s’era fatta una festa di venire a far quella visita. Don Valeriano offerse al Cardinale di prendere Lucia al servizio della casa, o come il Cardinale avrebbe desiderato. Il Cardinale accettò lietamente: fece avvertire Lucia ed Agnese, le quali vennero all’obbedienza: Lucia fu consegnata a Donna Margherita, e posta ai servigj di Ersilia. Don Valeriano fu molto contento d’avere esercitata una protezione, Donna Margherita di avere in casa sua una persona alla quale potè metter nome: quella giovane che mi è stata affidata dal signor Cardinale arcivescovo, Donna Beatrice di vedere in sicuro una innocente, e di poterla soccorrere e consolare, Donna Ersilia, d’avere una donna al suo servizio, con la quale potere parlare senza che le fosse dato sulla voce. Lucia pure fu contenta di avere una destinazione che la toglieva da quel contrasto doloroso tra il voto e il cuore; Agnese di vedere la sua figlia in salvo, e in casa di signori, e finalmente il Cardinale di aver messa quella pecorella al sicuro dalle zanne del lupo.

Noi profittiamo di questa contentezza dei nostri personaggi d’antica e di nuova conoscenza, e prendiamo questo momento, in cui anche la buona ed infelice Lucia trova un po’ di riposo in una qualunque conformità tra la sua situazione e lo stato dell’animo suo, per lasciarla con la sua nuova compagnia, e parlare d’altri fatti indispensabili alla integrità della storia. Prima però di staccarci da Federigo, non possiamo a meno di non raccontare un tratto accaduto nella visita da lui fatta in quei contorni; perché questo racconto quale lo troviamo nel nostro manoscritto e altrove, serve assai a dipingere i costumi di quel tempo tanto lontani dai nostri, e osservabilissimi per una certa pienezza d’entusiasmo, per una esplosione di sentimenti, clamorosa, per un impeto veemente, come troppo spesso al male, così pure qualche volta verso ciò che era veramente stimabile. Oltre di che Federigo è personaggio tanto amabile, nelle sue azioni anche le più comuni v’è sempre una tale espressione di gentilezza, di bontà, che fa riposarvi sopra la fantasia con diletto; e cogliere ogni pretesto per rimanere il più che si possa in una tale compagnia. Che se qualche lettore osasse dire che noi ve lo abbiamo trattenuto troppo a lungo, osasse confessare d’aver provato un momento di noja, bisognerebbe concluderne delle due cose l’una: o che noi raccontiamo in modo da annojare anche con una materia interessante; o che questo lettore ha un animo ineducato al bello morale, avverso al decente, al buono, istupidito nelle basse voglie, curvo all’istinto irrazionale. Ma il primo di questi due supposti è manifestamente improbabile, a parer nostro. Veniamo al racconto.

Dalle Chiese delle quali abbiamo parlato si era Federigo trasportato a visitar quelle della valle di San Martino che era allora nel dominio veneto e nella diocesi milanese; e per tutto dov’egli si andava fermando, oltre la folla dei parrocchiani, la chiesa, la piazza, la terra formicolavano di moltitudine accorsa dai luoghi circonvicini. In una di quelle terre avendo egli sbrigate nella sera stessa del suo arrivo, le principali faccende, aveva egli disegnato di partire prima del pranzo, per giungere più tosto alla stazione vicina. Era la chiesa dov’egli si trovava, posta sulla cima d’un lento pendio che terminava in una vasta pianura. Celebrati i santi misteri si volse egli dall’altare per favellare al popolo, e stendendo dinanzi a sè il guardo che dalla elevazione dell’altare poteva trascorrere per la porta spalancata sul pendio e nel piano sottoposto, vide dalla balaustrata del presbitero, nella chiesa, sul pendio, nel piano, una calca non interrotta, come un selciato continuo di teste e di volti; se non che al di fuori quella superficie uniforme era interrotta da tende alzate che facevano parere quel luogo un campo, o una fiera; guardando poi più fisamente scerse fra quella moltitudine abiti diversi di ricchezza e di foggia che dinotavano una varietà di condizioni e di paesi. Chiese egli a chi lo serviva più da vicino che cosa volesse dire quel concorso; e gli fu detto che era gente accorsa da tutta la diocesi di Bergamo, e dalla città stessa per vederlo, per udirlo. «E perché» diss’egli, «non gli accoglieremo noi gentilmente come si conviene con ospiti?» Quindi dette alcune parole di insegnamento e di salute ai popolani che non avendo avuto viaggio da fare avevano i primi occupata tutta la chiesa, propose loro che facessero gli onori di casa, e cedessero il luogo a quegli estranei che erano venuti da lontano per sentire un vescovo. La voce corse tosto per la chiesa e per lo spazio di fuori; questi uscivano e cedevano il luogo con pronta cortesia, quegli entravano con ritegno e con rendimenti di grazie: contadini e signori parevano in quel momento gente bene educata. Cangiata a poco a poco l’udienza, il Cardinale parlò a quei sopravvenuti come gli dettava la sua abituale carità, e la simpatia particolare che aveva eccitata in lui quella ardente e comune volontà la quale egli si sforzava di credere mossa in tutto dal suo ministero e per nulla da una inclinazione alla sua persona. Terminato il discorso, benedisse egli tutto quel concorso, lo accomiatò, e si dispose a partire. Salito sulla sua mula, si mosse col suo seguito in mezzo a quella moltitudine, ma dopo alquanto viaggio, quando credeva d’abbandonarla, s’avvide che la moltitudine lo seguiva. Si volse egli allora, ristette in faccia a quella, e la benedisse di nuovo come per congedarla ultimamente. Ma rimessosi in via, s’accorse che non era niente, e che la processione continuava. Li fece pregare di ritornarsene, e di non aggravare inutilmente la stanchezza del cammino già fatto, ma tutto fu inutile: gli era come un dire al fiume, torna indietro. Si erano già fatte più miglia di cammino, l’ora era tarda, quando il Cardinale che era digiuno e già da lungo tempo combatteva con la fame, sentendo mancarsi le forze, e visto che quel giorno gli era forza desinare in pubblico, si fermò sulla cima d’una salita dove vide spicciare una sorgente da una roccia che fiancheggiava il cammino: e chiese così a cavallo che gli fosse servito il pranzo. L’ajutante di camera tolse da un cestello un pezzo di pane, e glielo presentò, Federigo lo prese indi chiese che gli fosse riempiuto un bicchiere a quella sorgente. Mentre questo si faceva, cominciò Federigo a banchettare, non senza un qualche pudore per tutti quegli spettatori, e chiuse il banchetto col bicchiere d’acqua che gli fu porto. Quando tutta quella folla vide quali erano le mense d’un uomo così dovizioso, e così affaticato, insorse un grido di maraviglia, un gemito di compunzione: e questi sentimenti crebbero quando fra quegli accorsi alcuni i quali conoscevano più degli altri le costumanze del Cardinale, affermarono che questo era il suo solito pranzo, quando doveva farlo in cammino, e che quello che gli era imbandito in casa non ne differiva di molto. I poveri si rimproveravano la loro intolleranza del disagio, i ricchi la loro intemperanza; e quivi tosto molti fra questi distribuirono ai bisognosi i danari che si trovavano indosso. Il Cardinale così ristorato pregò i più vicini che finalmente tornassero, e persuadessero gli altri a tornare, e alzata la mano su tutta la turba che egli dominava da quella altura, la benedisse di nuovo, stendendo poi verso di quella affettuosamente ambe le mani in atto di saluto. La turba rispose con nuove acclamazioni, e non osando più resistere al desiderio di quell’uomo, si rivolse, e tornò addietro. Federigo proseguì il suo cammino.

Venga ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di gloria a quel pranzo del Cardinale, a renderlo un argomento frequente di ammirazione e di memoria: non gli verrà fatto. È forse da dire che queste virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia degli uomini di che ammirare? Non già; poiché si parla tuttavia delle magre cene di quel Curio mal pettinato, come lo chiamò Orazio; è viva e comune la memoria del salino di Fabricio, e del suo piattello sostenuto da un picciuoletto di corno. E perché dunque il tozzo di pane di Federigo e il suo bicchier d’acqua non potranno ottenere una simile immortalità di gloria? Se alcuno ha in pronto una cagione ragionevole di questa differenza, la dica; per me non ho potuto trovarne che una, ed è: che il Cardinale Federigo non ha mai ammazzato nessuno. La più parte degli uomini, parlo degli uomini colti, non consente ad ammirare le virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù feroci un’altra ammirazione di terrore: non considera quelle come virtù che quando sieno unite ad un profondo sentimento d’orgoglio, e di disprezzo per qualche parte del genere umano. Se quel tozzo di pane fosse stato mangiato da un generale in presenza di venti mila cadaveri, sarebbe in tutti i discorsi, in tutti i libri; nessun fedele umanista avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una amplificazione in vita sua. Eppure la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo d’un uomo che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne asteneva per un sentimento profondo della dignità umana, e per dar pane a chi ne mancava, quel tozzo di pane mangiato tra le fatiche d’un ministero di misericordia, di pace, e di pietà, dovrebb’essere una rimembranza più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello che copriva la mensa d’un uomo che era sobrio per potere esser forte contra gli uomini; che godeva di essere un povero Fabricio per essere un potente Romano. Le idee di cui si componeva il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili, sprezzanti, superficiali: quelle di Federigo umane, gentili, benevole, profonde. In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio diede quelle prove della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire manifestamente quel suo animo: ivi all’udire le dottrine epicuree esposte da Cinea, disse egli quelle atroci parole, tanto lodate dagli antichi, e, chi lo crederebbe? dai moderni: «Oh Ercole!» (il santo era degno del voto) «Oh Ercole!» diss’egli: «fa che queste dottrine sieno ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo romano». Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sè, se avesse potuto anche un momento desiderare la perversità ai suoi nemici, ai nemici del suo popolo. Egli desiderava la giustizia, la fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava per loro, per sè, per la gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta la sua vita fu spesa a promuoverla. La sua benevolenza non era nazionale, né aristocratica, egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne un’altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per dividere la condizione dei suoi fratelli poveri, e per migliorarla. A dispetto di tutta la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica, Federigo Borromeo era più grand’uomo che Fabricio; o per meglio dire Federigo era veramente grand’uomo, per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un sì misero sostantivo.