Fermo e Lucia/Tomo Quarto/Cap VI
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S’io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l’aspetto d’una città in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in un’altra occasione: che sarebbe un meritarsi l’accusa di sterilità d’invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle sue leggi. Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all’invenzione, procedono con tutt’altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse possibile assoggettarli all’andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare. Per questo incolto e materiale procedere dei fatti, è avvenuto che Fermo Spolino sia giunto due volte in Milano appunto in due epoche, diversamente singolari, e che l’una e l’altra volta abbia ricevuta dall’aspetto di quella città una impressione, che noi dobbiamo pur riferire, trattandosi d’uno dei nostri protagonisti. Nè in questo solo ma anche fra i due soggiorni di Fermo in Milano, anche fra le due partenze v’è un principio singolare di somiglianza: cui ella spiacesse, se la pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel modo.
Per una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè delle mura, Fermo sostette pensoso, e preso da quella specie di spavento che si prova al trovare una vasta, ostinata solitudine in mezzo alle tracce dell’abitato: tese l’orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d’uomini, nessun segno di vita, nessun movimento; se non che d’in su la mura, ad intervalli, sorgevano colonne di fumo, che s’allargavano in globi scuri, bigi, folti, e quindi abbattute dal vento si curvavano, scendevano giù al di fuori, diradandosi e diffondendosi nell’aria, e si stendevano sul piano esteriore in nebbia lenta, crassa, fetente. Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di letti, di spazzature d’ogni sorta che si facevano portare al bastione, e quivi abbruciare. Tale era il fastidio che quella nebbia diffondeva nell’aria, che Fermo, benché avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all’entrare e all’avanzarsi nella città, non solo il lezzo, ma ogni sorta di fastidio l’avrebbe assalito da tutte le parti, e che bisognava risolversi ad affrontarlo, non pensare a ripararsene. Fuori della porta era una capannuccia di legno, stazione delle guardie e d’un deputato che doveva guardare a chi entrava ed usciva, richiedere le bollette, escludere i sospetti. Ma in quella comune disperazione ogni disciplina era dismessa; il deputato a quella porta era caduto di peste il giorno antecedente, le poche guardie stavano nella capanna, badando più a tener lontani i passeggieri dalle loro persone che ad esaminarli. Dinanzi alla porta era un cancello, ma spalancato, e Fermo vi passò senza che alcuno lo chiedesse di nulla. Procedendo per quel primo spazio della città tra i bastioni, e il canale chiamato naviglio, spazio occupato da orti (o se volete da ortali, che sarà più vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi sparso qualche convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse indizio esser quello un luogo abitato da uomini. Il primo indizio di persona viva gli venne, mentre egli passava tutto costernato per quella stradaccia che dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio, e alcune casuccie, va alla piazza di San Marco. Un gemito che si sforzava d’essere una chiamata uscì d’una di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino alla finestra che scuoteva una funicella alla quale era appeso un sacchetto che scendeva presso al pavimento della strada. Fermo si fece vicino, e udì una voce fioca: «carità ai poveri sospetti». Cavò egli una moneta, e la ripose nel sacchetto; ma colui invece di tirar la fune a sè, disse con un tuono misto di supplica e d’impazienza: «un po’ di pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci hanno dimenticati; e moriamo di fame». Fermo aveva ancora uno dei pani di Agnese: lo cavò tosto, e lo legò alla fune. Il rinchiuso, benedicendolo, la trasse in fretta, e Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani, porselo a bocca, e addentarlo avidamente. Dopo due passi udì un romore confuso che si avvicinava, e cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio di cavalli, uno squillare di cento campanelli, un baccano di grida; guatò dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov’egli camminava spuntare due uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le mani alzate accennavano, e ad alta voce gridavano ai passeggeri di ritirarsi. Dietro a questi vide comparire cavalli che allungando la cervice, e puntando le zampe, avanzavano a stento; e ad ogni passo le campanelle che essi avevano appese intorno alle teste e ai colli, mandavano un tintinnio acuto e assordante: e a fianco dei cavalli, vide monatti in lacere divise rosse, essi pure con le campanelle ai piedi, che a forza di punte e di flagelli e di bestemmie li forzavano a camminare, a proseguire la corsa ritardata dal peso crescente dei cadaveri che raccolti sul passaggio erano gettati sui carri. I cadaveri v’erano ammonticati, e intrecciati insieme, quasi come un gruppo di serpi che lentamente si svolga al tepore della primavera: nudi la più parte, o male avviluppati in lenzuola cenciose. Dopo un carro che attraversò la via, ne venne un altro, e poi un altro: dieci ne contò Fermo. Di tratto in tratto, si vedevano i cadaveri, ad una forte scossa, tremolare sconciamente, e scompaginarsi; le gambe, le braccia, le teste con le chiome arrovesciate si svincolavano dal mucchio, e spenzolavano dal letto del carro, talvolta involte nelle ruote traevano seco i cadaveri sotto di quelle, come per mostrare che quello spettacolo poteva divenire ancor più disonesto e più miserando. Fermo ristette alquanto, fin che il convoglio fosse passato; e ripresa da poi la via, e giunto in capo a quella su la piazza di San Marco, presso il ponte che ne piglia il nome, vide di nuovo per di dietro quel sozzo corteggio, che per la via del pontaccio, si avviava alla fossa scavata fuori della porta comasina.
Ma un altro spettacolo, su quella piazza, attirò i suoi sguardi, e gli diede a pensare: erano due travi alzate e infisse nel suolo, e una corda passava dall’uno all’altro capo fra due carrucole. Fermo riconobbe (ella era cosa famigliare a quel tempo) l’abbominevole stromento della tortura; ma non sapeva perché fosse collocato in quel luogo. La sua maraviglia crebbe da poi quando ne incontrò uno per ogni piazza, in ogni via spaziosa. V’erano posti, affinché i deputati delle porte e delle parrocchie, muniti a questo d’ogni facoltà più arbitraria, potessero, immediatamente farvi tormentare chi loro paresse, o sequestrati che uscissero, o ministri disubbidienti, o violenti di qualunque sorta. Era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci di cui principalmente in quel tempo si faceva scialacquo: era un dispotismo che non toglieva l’anarchia. Dopo avere inutilmente guardato su quella piazza, se potesse scorgere alcuno a cui chiedere conto della via dove abitavano i padroni di Lucia, il nostro pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il convento di San Marco, giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome di Beatrice sua moglie; e per quello entrò nella città propriamente detta. Quale città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di carrozze, non grida di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti, urli che uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o quel che dava un suono ancor più atroce, il baccano festoso, e la ilarità infernale dei monatti. Lo spazzo sparso e talvolta ingombro di mobili, di coltrici, di vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose e sanguinate; e a quando a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si vedevano camminare i cittadini che qualche necessità faceva uscire di casa: una parte era fuggita; un’altra parte, al numero circa di quattordici mila, abitava, o moriva nel lazzeretto; un’altra languiva nelle case; e forse cento venti mila erano i morti a quell’ora; prima della peste la popolazione della città era stimata dugento mila persone; numero al quale non risalì mai più dopo quel disastro. Andavano quei pochi, scompagnati, in silenzio, con la faccia lurida, coi capegli lunghi ed incolti, con le barbe arruffate, perché da quando nella casa dell’infelice barbiere Giangiacomo Mora s’era creduto scoprire la fucina principale delle unzioni, ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti. Andavano quei viandanti succinti in farsetto, deposte le cappe, le toghe, le cocolle, ogni ampio vestimento che svolazzando, potesse moltiplicare coi casi di contatto, i rischj della contagione. Ognuno cercava di tenere il mezzo della via; si aveva orrore delle pareti che potevano esser unte; si temeva che dalle finestre si gettassero sui passeggeri polveri venefiche; e troppo spesso realmente si gettavano i letti, le vesti, le suppellettili dei morti di contagio; talvolta, orribil cosa! i morti stessi; talvolta gli infermi trasportati dalla frenesia del morbo, o spinti dalla disperazione, si gettavano da sè. Nessuno che parlasse, nessuno che stesse a musare: non v’era creatura ferma fuor che i cadaveri. Il solo vivente che il nostro pellegrino vedesse immoto nella via presso al muro, fu un uomo che sedeva a canto ad una porta in atto di chi assorto in qualche cura non badi a ciò che accade intorno a lui. Era un prete che posato sur un trespolo, udiva, dalla porta socchiusa la confessione d’un appestato. I viandanti portavano per lo più in mano certe palle crivellate di piccioli fori con entro spugne intinte di aceti medicati, di spiriti, e ad ogni momento le fiutavano; e si aveva gran fiducia in quei preservativi: tenevano nell’altra mano un bastone, non tanto per appoggiarsi, come per rimuovere chi avesse troppo voluto accostarsi; alcuni perfino tenevano invece del bastone, una pistola, accennando ai sopravvegnenti che dessero luogo; con quello stromento atto ad ottenere una più certa e più pronta obbedienza. Se due amici s’incontravano a caso, il saluto era uno stringersi nelle spalle, un alzar delle mani, un sospiro, una occhiata quasi di maraviglia, che voleva dire: — voi siete ancor vivo! — ogni altra più intima accoglienza era dismessa, e in due mesi non accadde forse mai che due mani si stringessero ad espressione di amicizia. I medici, i chirurghi si distinguevano per un capuccio che portavano come da disciplinati, per calarlo sul volto quando s’appressassero ad un infermo, avevano guanti alle mani per preservarle nel toccare dei polsi, nel medicare; e sospeso a cintola un fiaschetto d’aceto per lavarsi ad ogni visita, e per lavare i danari che erano loro dati in mercede, e che molti con crudele avarizia imponevano esorbitante, non volendo toccare un polso a meno d’uno zecchino. Su quelle poche facce che si vedevano in volta era per lo più scolpito, compenetrato, e come divenuto fisonomia, l’accoramento, lo stupore, la sfidanza; le forme irrigidite, e come stagnanti in una trista quiete; e gli sguardi non avevano vita che dal terrore e dal sospetto. Pochissimi però fra quei pochi andavano con passo più alacre, e mostravano una fronte men costernata: erano i guariti dalla peste; altri che portavano al collo o amuleti dai quali speravano d’esser preservati, o una boccetta di vetro con entro argento vivo, persuasi che questo metallo avesse la virtù di assorbire ogni influsso maligno; altri che prima d’uscire avevan mangiata una noce, due fichi secchi, e un po’ di ruta, che da essi era riputato efficacissimo preservativo. E pur troppo tutti questi rimedii producevano un effetto; ma era di crescere la mortalità, rendendo men guardinghi in tutto il resto coloro che avevan fede nell’uno o nell’altro di essi. Fermo, benché ansioso di giungere al luogo dov’era, dov’egli sperava ancor tremando che fosse colei per cui sola aveva intrapreso quel viaggio, desideroso anche di abbreviare il più che fosse possibile un così tristo cammino, non aveva mai però scorto un volto che gli facesse animo ad interrogare. Finalmente essendo capitato in uno di costoro, si risolse di rivolgersi a lui, e fece atto di accostarglisi. Ma costui, che a malgrado del preservativo, era però dei cauti, levò il suo bastone che terminava in uno spiedo, e appuntandolo in dirittura alla pancia di Fermo, disse con voce risoluta: «lontano!» Fermo non si mosse; ma a quella distanza pregò il cittadino che volesse udire una parola, soltanto una parola; e gli chiese dove fosse la tal via, la tal casa. Non era molto lungi di là; e il cittadino diede brevemente a Fermo l’indirizzo ch’egli desiderava; ma quando questi, dopo averlo ringraziato, si mosse per andare innanzi, l’uomo cauto ripetè: «lontano»; girò il bastone descrivendo intorno a sè un quarto di cerchio a mezz’aria, e segnando così a Fermo la giravolta che doveva fare per non passargli troppo vicino. Fermo proseguì il suo cammino con un’ansia e con una sospensione d’animo cresciuta dal saper vicino il termine dov’egli sarebbe uscito d’un terribil forse. Ma per quanto la sua mente tendesse a ricadere in quel pensiero, ne era pure ad ogni momento stirata via dagli oggetti fra i quali egli doveva scorrere. Dove che i suoi sguardi cadessero non incontravano che dolore e ribrezzo. Le porte o chiuse per guardia, o spalancate per desolazione; molte segnate d’una croce rozzamente tirata col carbone: quei segni eran posti dai commissarii della Sanità, per indicare ai monatti che vi eran morti da prendere. Dove lo sgombro era già fatto, le croci si vedevano cancellate; e mettevano ancor più ribrezzo le tracce del segno di salute e di morte, guaste e confuse con le tracce delle palme impure dei monatti, o dei sozzi arredi che egli avevano adoperato a quell’uso. Qualcheduno pur si mostrava alle finestre, qualche voce si udiva; erano guai di languenti, o urla di frenetici; erano chiamate e suppliche ai monatti, perché venissero a togliere qualche cadavere. Nei principii della peste, il terrore di vedersi in casa quegli uomini senza legge, aveva fatto che molti nascondessero i cadaveri, gli seppellissero negli orti, nelle cantine, dove, come che fosse; ma poi crescendo il funesto da farsi, e il fastidio vincendo il terrore, si desideravano i monatti per liberarsi da uno spettacolo intollerabile, da una infezione talvolta invecchiata. E quegli scellerati che da prima usavano introdursi a forza dove non erano richiesti, ora negavano talvolta di entrare pregati, se alle preghiere non si aggiungeva la ricompensa. Posto il piede nelle case, vi si portavano non da padroni, da guastatori: ma era venuto il tempo che delle ribalderie e delle nefandità loro, già temute più della peste, non si faceva più caso: la disperazione aveva ottuso nei più ogni altro sentimento. Pure, dinanzi a qualche casa, dove la sciagura non aveva estinto affatto ogni coraggio, né confusi tutti i pensieri, stavano distesi cadaveri, deposti ivi ad aspettare il passaggio del carro funebre; e alcuni pur piamente composti, ravvolti in qualche lenzuolo e celati al ribrezzo dei passeggieri. E tali depositi, che, in tempi ordinarii, farebbero altrui torcere il guardo, erano allora quasi un conforto pel guardo, troppo offeso dallo spettacolo di altri corpi, che pure avevano ricettata un’anima immortale, e giacevano gettati brutalmente dalle finestre, travolti dalle cadute, o caduti dai carri, mostrando tutte le più diverse e dolorose immagini della morte, salvo l’immagine del riposo.
Aveva Fermo già scorse due vie, e passata la metà del viaggio, quando presso alla rivolta d’un canto, udì un frastuono, e vide due o tre che camminavano dinanzi a lui, dare addietro l’un dopo l’altro, e riprendere la strada donde erano usciti. Giunto al canto, guardò che fosse la cagione di questi lor pentimenti, e vide nel mezzo di quella via quattro carri fermati; e come in un mercato di grani si vede un andare e venire di gente dai mucchj ai carri, un caricare, un rovesciare di sacca; così era la pressa in quel luogo; monatti che entravano nelle case, monatti che uscivano recandosi un carico su le spalle; e lo ponevano su l’uno o su l’altro carro: talvolta ripigliavano il peso già deposto, sul carro degli infermi, e lo gettavano su quello dei morti; era uno che preso semivivo su le loro spalle, aveva esalato l’ultimo respiro su quel letto abbominato. Alle finestre, o presso ai carri si vedeva qualche congiunto pio e animoso piangere i suoi morti che partivano, o dare un tristo addio agli infermi. Il resto della via era sgombro, e muto; se non che da qualche finestra partiva di tratto in tratto una voce sinistra: «qua monatti»: e con suono ancor più sinistro da quel lurido e affaccendato bulicame si sentiva venire per l’aria morta un’aspra voce di risposta: «adesso».
Fermo a quello spettacolo, stette in forse se dovesse egli pure tornare indietro; ma egli era presso al termine della via, d’una via che a stento aveva potuto farsi indicare; se l’abbandonava, chi sa quando avrebbe trovato chi volesse rimetterlo su quella, e chi sa quali inciampi dello stesso genere avrebbe trovati anche in tutt’altra: con questi pensieri e con animo già agguerrito a tali viste, egli proseguì. Giunto a paro del convoglio, accelerava il passo, e cercava di non guardar quegli orrori se non quanto era necessario per cansarli; ma il suo sguardo vagabondo si abbattè in un oggetto dal quale usciva una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; e quasi senza avvedersene egli rallentò il passo. Sur una di quelle soglie stavasi ritta una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza matura ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata ed offuscata da un lungo patire, ma non iscomposta; quella bellezza molle e delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per così dire, solenne, che brilla nel sangue lombardo. I suoi occhi non davano lagrime, ma portavan segno di averne tante versate; come in un giardino antico e trasandato, una fonte di bianchissimi marmi che inaridita, tien tuttavia i vestigi degli antichi zampilli. V’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che raffigurava al di fuori un’anima tutta consapevole, e presente a sentirlo, e quel solo aspetto sarebbe bastato a rivolgere a sè gli sguardi anche fra tanta miseria; ma non era il solo aspetto della donna che ispirasse una sì rara pietà. Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove anni, morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in su la fronte, ravvolta in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani l’avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e concessa poi come un premio. Nè era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le braccia, col petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo posava su le spalle della madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, perché se anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente l’affetto che si dipingeva su quello che era ancora animato. Fermo ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in quello spettacolo. Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue braccia quel peso; ma pure con una specie d’insolito rispetto, con una esitazione involontaria. Ma la donna, ritraendosi alquanto, in atto però che non mostrava né sdegno né dispregio: «no», disse, «non la mi toccate per ora; io, deggio comporla su quel carro: prendete». E così dicendo, aperse una mano, mostrò una borsa, e la lasciò cadere nella mano che il monatto le tese. Poscia continuò: «promettetemi di non torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s’attenti di farlo, e di porla sotterra così. L’avrei ben posta io; ma ella deve riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v’è lassù chi mi aspetta». Mentre la donna parlava il monatto, divenuto ubbidiente forse più per una nuova riverenza, che pel guadagno, aveva fatto sul carro un po’ di luogo al picciolo cadavere. La donna diede un ultimo bacio alla figlia, la collocò ivi come sur un letto, ve la compose; e rivolta al monatto disse: «ricordatevi: Dio vedrà se mi tenete la promessa; e ripassando di qua sta sera, salite a prender me pure, e non me sola».
Così detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con un’altra più tenera fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare la figlia giacente sul carro, fin che il carro si mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto quell’altra cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire insieme; come la pianta s’inchina col fiore appena sbucciato, al radere della falce che, dove passa, agguaglia tutte l’erbe del prato.
Fermo si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato in tutto quel viaggio, e per la prima volta, molle di lagrime. «O Signore!» diss’egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una ventura per quella travagliata l’uscire di tanti guai... Una ventura! E Lucia!» Con questa parola in sul cuore egli s’affrettò su quella via, alla quale, se il cittadino lo aveva bene indirizzato, metteva capo quell’altra a cui egli agognava e tremava di arrivare. Ed ecco, da quella parte appunto venire un frastuono sordo, poi più risuonante, ma confuso, un suono diverso di voci alte, brevi, e imperiose, di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi femminili, di garriti fanciulleschi.
A quel suono, al pensiero del luogo donde partiva, Fermo si sentì colpito d’una tristezza più nera che mai, d’una tristezza sospettosa, atterrita, tanto che non potè tenersi, e quasi smarrito andò a corsa verso il crocicchio che faceva la via nella quale egli si trovava con quella a cui era avviato. Quando fu presso, vide nella via a mano diritta, per quella appunto ov’egli doveva entrare, una torma di gente guidata o cacciata al lazzeretto da un commissario, e da molti monatti.
A misura che quella trista processione passava dinnanzi a Fermo, il suo occhio inquieto, quasi appannato, correva e ricorreva per la moltitudine, trasceglieva e spiava con terrore ogni volto femminile, si spingeva verso quelli che arrivavano, tornava a quegli che erano passati... Lucia non v’era. Fermo su le prime respirò come uscito d’un grande spavento; ma tosto ricadde nella sua ambascia, pensando che egli andava non a veder forse, ma ad udire di peggio. Erano languidi che si strascinavano a stento, alcuni sostenuti dalle braccia di figli, di padri, di fratelli, di mogli, che per pietà o per disperazione sprezzavano il pericolo del contatto; alcuni spinti a forza, resistenti in vano, gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e rispondendo bestemmie impotenti alle bestemmie imperiose dei conduttori; altri che, appoggiati ad un bastone, andavano in silenzio dove erano comandati, senza dolore, senza speranza, insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quei comandi, da quello spettacolo più che dal pensiero oscuro della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre, e le sue braccia fidate, e di restare nel noto soggiorno. Ahi! e forse la madre, che essi credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, vi s’era gittata oppressa tutt’ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi. Talvolta, oh sciagura degna di lagrime ancor più amare! la madre tutta occupata dei suoi patimenti, si stava dimentica d’ogni cosa, anche dei figli, e non aveva più che un amore: di morire in riposo. Pure in tanta confusione si vedeva ancora qualche esempio di costanza; e di pietà: parenti, fratelli, figli, consorti che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto; né adulti soltanto, ma garzoncelli, ma giovinette appena adolescenti che facevano scorta a fratellini più teneri; e con senno e con misericordia virile li confortavano ad essere obbedienti, promettevano di accompagnarli in luogo ove si terrebbe conto di loro per farli guarire.
Quando Fermo vide la processione quasi tutta passata, e sgombra la sua via, si volse ad uno dei monatti che chiudeva il corteggio, e gli chiese conto della casa di Don Ferrante. Il monatto non rispose se non: «va in malora, tanghero». Fermo aveva tutt’altro in testa che di risentirsi, e non replicò: guardò al commissario, gli parve un volto più cristiano; fece a lui la stessa inchiesta; e il commissario, accennando con un bastone la via dalla quale egli veniva disse: «l’ultima casa nobile, a destra»; e passò.
Quelle parole per sè indifferenti, e che non esprimevano se non la nuda notizia che Fermo aveva desiderata, lo colpirono però, come se fossero una sentenza ambigua e temuta. Egli impallidì dopo d’averle intese, e tremò d’esser giunto al termine che aveva tanto bramato, pel quale aveva intrapreso quel viaggio doloroso, e sostenuto di passare per tanta gramezza. S’avanzò per quella via a passo interrotto, giunse dinanzi alla casa, la distinse tosto fra le case vicine più umili, e più disadatte, si appressò alla porta che era chiusa, pose la mano al martello, ve la tenne sospesa, come avrebbe fatto se la tenesse in un’urna, prima di cavarne la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte. Finalmente alzò il martello, e bussò.
Si apre una finestra, e vi compare una donna: era la signora Ghita, che guardò con sospetto se fossero monatti, malandrini, qualche cosa di tristo, di quello che girava in quel tempo: vide quello sconosciuto, e prima ancora d’intendere che egli volesse, disse, o rispose: «Qui non c’è niente».
«Signora», disse Fermo con voce tremante, «sta qui una forese, che si chiama Lucia Mondella?»
«Non c’è più; andate», rispose la Signora Ghita.
«Non c’è più!» gridò Fermo, spaventato da quella ambigua risposta. «Dov’è ella? per amor del cielo».
«Al lazzeretto grande».
«Con la peste!»
«Con la peste: che maraviglia? andate».
«Da quando v’è ella? e come si può trovarla? Oh Dio! era ella molto aggravata?»
«Non è tempo da rispondere a tante cose», disse col suo tuono agro la signora Ghita. «V’ho detto anche troppo pel tempo che corre. Vi replico, andate». E così dicendo, fece vista di chiudere la finestra.
«No, no», disse Fermo: «che carità è questa? voglio saper nuove di questa creatura; non parto di qui se prima...» Ma mentre egli parlava, la finestra era stata chiusa.
«Quella signora! una parola, una parola!» gridò Fermo, ma non ebbe risposta.
Costernato da un tale annunzio di sventura, smanioso del non aver potuto né pur conoscere quanta ella fosse, incerto qual fosse il più pronto mezzo per trovar conto di Lucia, se insister quivi con preghiere o con minacce, o andare a dirittura al lazzeretto, Fermo stava appoggiato alla porta, tenendo la mano sul martello, talvolta lo alzava, per picchiare alla disperata, poi pentito, lo riteneva, lo stringeva nella mano come se volesse storcerlo, come per isfogare la sua passione. In questa agitazione, egli per quell’istinto che in qualunque angustia muove l’uomo a cercar soccorso all’uomo, si rivolse alla strada, per vedere se mai gli cadesse sott’occhio qualche vicino, a cui chiedere informazione, indirizzo, consiglio. Ma quel che vide fu una vecchia, dietro a lui forse a venti passi, la quale con un volto che esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, sbarrando la bocca come se volesse gridare, ma tenendo anche il respiro, sollevando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinze e adunche, come s’ella traesse a sè qualche cosa, accennava manifestamente di voler chiamar gente in modo che un qualcheduno non ne fosse avvertito. Alla guardatura della vecchia, Fermo s’accorse tosto ch’egli era quel tale; e più stupito che atterrito dal vedersi oggetto di tante passioni, voleva gridare: «che diamine...», quando la vecchia, vedendo ch’egli s’era accorto di lei, e disperando di poterlo sorprendere, lasciò uscire il grido che aveva compresso fin allora: «Ajuto! Ajuto! L’untore! L’untore! dalli! dalli!»
«Taci, bugiarda strega», sclamò Fermo alla vecchia, e le si mosse incontro per farle paura e metterla in fuga. Ma nello scostarsi dalla porta vide che la fuga diveniva necessaria per lui: lo strillo della vecchia era stato inteso, e dalla parte verso la quale ella lo aveva mandato, usciva gente, e guardava dove fosse l’untore, gente, che forse a qual fosse più pietoso chiamar di soccorso non sarebbe uscita dalle tane dove si stava rimpiattata per paura; ma per graffiare e per prendere un untore era pronta; tanto era il furore contra quegli che si credevano la cagione primaria di tanti mali. Nello stesso istante s’aperse di nuovo la finestra, e di quivi la signora Ghita gridava a testa: «cacciate quel garritore, che dev’essere un di quei ghiotti, che vanno facendo le poltronerie alle porte e alle muraglie».
Alcuni cominciavano già a correre verso Fermo, urlando: «piglia, piglia, dalli, dalli». Fermo vide la mala parata; per buona sorte il lato della strada dove stava la vecchia, era quasi sgombro d’altra gente: uno che era accorso per di là volle gittarglisi addosso, ma egli lo stramazzò a terra d’un urto; e a gambe. Allora la folla vie più ad inseguirlo. E non era ancora giunto al capo della via che già sentiva quelle grida amare risuonar più forti all’orecchio, sentiva appressarsi il calpestio dei più leggieri ad inseguirlo. In quell’estremo, egli che sapeva, come ognuno lo sapeva, qual fosse la sorte di chi cadeva nelle mani del popolo o dei giudici col nome di untore, risolse di non lasciarsi pigliare alle spalle da quei furibondi, ma di rivolgersi, di mostrar loro il viso, e di difendere disperatamente la sua vita.