Fermo e Lucia/Tomo Quarto/Cap IV

Tomo Quarto - Capitolo Quarto

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Andavano intanto coll’avanzare della primavera sempre più spesseggiando gli ammalamenti e le morti. I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e al continuo battere della luce, si risenta da un alto sonno, cominciavano a riandare ciò ch’era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a sospettare, quindi a risolversi che bisognava far qualche cosa. Ordinarono contumacie, bollette, purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte, delegarono nobili che vi assistessero, intimarono pene a chi trasgredisse gli ordini della Sanità, o turbasse con minacce o con insulti quegli che gli eseguivano, consultarono sui mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del Lazzeretto, e di tutti gli altri servizj, e di nutrire una gran parte della popolazione alla quale cessavano i lavori e i mezzi di sussistenza. Ma la difficoltà era appunto nel trovare questi mezzi.

Il Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto Casale, occupato nel suo principal mestiere d’eroe. I Decurioni spedirono deputati a rappresentargli le urgenze dello Stato, l’esaurimento delle casse municipali, l’impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non erano pagate per inabilità, e ad implorare che l’erario reale assumesse queste spese straordinarie ed inevitabili. Il Marchese accoglieva i deputati con molta buona grazia. Del resto rispose spiacergli assai di non trovarsi a Milano a fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i Decurioni avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini che erano, al modo di far danari; esser questo il tempo di non guardare a spese, di profondere per la salvezza della patria; tutte le risoluzioni che essi avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe approvate. Su le domande, rispose che avrebbe pensato. Più tardi poi, nel maggior fervore della peste, il governatore pigliò il partito di lavarsene le mani; trasferì con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a lui e agli altri magistrati la fame e la peste, non ritenendo per sè che la guerra. In quelle angustie i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne chiedevano in elemosina, ponevano contribuzioni particolari ai più facoltosi, aumentavano i carichi, ne inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai bisogni, e le cose andavano come potevano. La confusione cresceva di giorno in giorno: quella qualunque azione dei magistrati che nei tempi ordinarj serviva a mantenere quel qualunque ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole, più incerta, più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso tempo tutti gli elementi di disordine diffusi in quel corpaccio sociale, acquistavano un nuovo vigore.

I ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d’impunità poteva trovarsi per essi nel pubblico turbamento, nello sbalordimento dei magistrati, e degli uomini quieti, e ne approfittarono. Nè basta; l’autorità publica, istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro, e ad affidare a quelle mani una porzione spaventosa di forza legale. Convenne arruolare in fretta e in furia uficiali d’ogni genere pel servizio straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica denominazione milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al lazzeretto gl’infermi, a sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe infette, a vivere insomma della peste in mezzo alla peste. A questo tristo e pericoloso uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più bassi e penosi, si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali l’attrattiva delle paghe, della rapina e della licenza era più potente che il timore della morte. Sul principio fu pure fattibile contenerli entro qualche regola, ma coll’estendersi della peste andò crescendo la loro licenza; e a grado a grado, le case, le cose, le persone furono in loro balìa.

I tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da virtù più solenni, più risolute, straordinarie anch’esse; e di tali non mancò il tempo di cui parliamo. Si videro esempj di rassegnazione sentita ed animosa, di liberalità costosa, di carità ardente, e per così dire spensierata, di zelo, di attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in gran parte dai suoi ministri.

Fino dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal pulpito sul pericolo vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non dubitate, fate animo, che né da me, né da miei preti non sarete giammai abbandonati». Venuto il caso, egli attenne in tutto la promessa.

Dando per supposto, o accennando come cosa già nota che l’esporre la vita pei fratelli è un obbligo del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a tutti gli ecclesiastici nuove regole sul modo di amministrare i soccorsi della religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da erogarsi in ajuti temporali. Corresse severamente e svergognò quelli che si ritiravano dall’assistere agli infermi: il primo che disertando la sua parrocchia, s’era rifuggito in campagna, lo richiamò egli con rampogne e con minacce d’interdetto al suo posto; né trovo che da poi gli sia più convenuto di ricorrere al rigore per simile motivo. Egli con quella sua consueta composta operosità, attendeva in casa alla direzione di tutte le opere imposte al clero, non rispingendo mai chi avesse bisogno di conferire con lui; percorreva la città accompagnato da uno che portava moneta da distribuirsi in elemosina; fermandosi sotto le finestre, alle porte dei poverelli per informarsi dei bisogni, e sovvenire, per ascoltare le querele, e dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto, dava consigli, e colla sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la sfrenatezza dei ribaldi, ed eccitava i ministri publici ad adempire coraggiosamente agli uficj loro. Rimaso quasi unico superstite di tutta la sua famiglia vescovile, consigliato, tempestato dagli amici, dai parenti, dai medici, da uomini potenti, perché non si esponesse a tanti rischj, e si ritirasse in qualche sua villa, non fu scosso un istante dal suo proposito; tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto notabile davvero, e che può esser di esempio e di consolazione a quegli che si rammaricano di veder censurate le loro azioni. Rimase egli dunque fino alla fine; ma non per questo lasciò di trarre profitto dalle sue ville: scelse tra i giovanetti che si educavano al ministero ecclesiastico alcuni distinti per morigeratezza e per diligenza; e gli mandò quivi per sottrarli al comune pericolo, e in tanta strage serbare almeno il meglio ad un migliore avvenire.

La condotta del clero non fu difforme dall’esempio del pastore: non vi fu appestato che desiderasse invano l’assistenza del sacerdote: preti e frati nel lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al bisogno, ne andavano in cerca; e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello della peste, loda con gratitudine i molti che in quell’opera avevano perduta la vita, e i superstiti, che non l’avevano però risparmiata.

Fra quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se la storia fosse consecrata a descrivere lo stato delle società nei diversi tempi, e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono a far conoscere la natura umana. Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati, v’era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di persone per la severa santità della vita, per una straordinaria potenza d’animo, e per fama di sapere. I Decurioni impacciati com’erano, pensarono che un tanto frate poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso non pensasse; e lo scongiurarono d’assumere il governo del lazzeretto. Egli andò a chiedere il consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a più riprese, lo animò ad accettare l’incarico. Il Presidente della Sanità, che era più impacciato d’ogni altro, condusse nel giorno di Pasqua, il Padre Felice con altri capuccini al lazzeretto, e quivi, chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo: «questi è il presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente». Mirabile spettacolo! vedere un magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati puntigli delle preminenze, abbassarsi volontariamente, discendere al secondo grado, mettere un altro sopra di sè. Ma vi voleva la peste.

Col crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano scemando le mormorazioni e le beffe del popolo; la parola peste era profferita più sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi condotti al lazzeretto, e case sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei provvedimenti, cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che finalmente sentivano essere un pericolo.

Per qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei poveri; finalmente, dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj, perché più esposti alla osservazione, produssero una impressione più generale e più forte. E più d’ogni altro caso fè specie l’udire che era caduto infermo di contagio quel Ludovico Settala che lo aveva da tanto tempo segnalato indarno, e con suo pericolo. Avranno eglino detto allora: «il povero vecchio aveva ragione»? Probabilmente l’avranno detto quei soli, che fino da principio gli avevano creduto; perché essi soli potevano dar ragione al povero vecchio, senza dar torto a se stessi. Il povero vecchio, e un suo figliuolo guarirono: la moglie, un altro figliuolo, e sette persone di servizio morirono di peste.

A malgrado d’una sì terribile evidenza, v’era ancora alcuni ostinati: per far capaci anche costoro, il tribunale della Sanità ricorse ad uno strano espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente all’intelletto di chi doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei tempi. Era morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine che un giorno festivo in cui il popolo era solito concorrere alla chiesa di San Gregorio posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero trasportati sovra un carro, ignudi. La lurida pompa attraversò la folla; alcuni torcevano con orrore e con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare con ansiosa curiosità; e questi videro su quei cadaveri i lividori, e i buboni pestilenti, comune cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie. Non restò finalmente chi dubitasse che il male era contagioso.

Ma il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata l’ostinazione: da una verità riconosciuta cominciò un periodo di demenza e di atrocità publica, non inaudito certamente nella storia dei traviamenti umani, ma per durata e per casi, notabile e spaventoso.

Riconosciuta una volta l’esistenza del contagio in Lombardia, non pare che si dovesse scrutiniar molto, andar molto lontano a cercarne la causa: ell’era in pronto, immediata, naturale, manifesta; la calata delle truppe alemanne. Ma non fu così. Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per sei mesi; non avevano mai voluto ammettere, né sofferire che altri supponesse relazione tra la venuta dell’esercito, e il nuovo malore che regnava in Lombardia: confessare ora finalmente questa relazione, sarebbe stato un confessare d’essere stati bestialmente ostinati e ciechi. Non vollero quindi né ricordarsi, né parlare, né udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la causa naturale, ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che sarebbe ridicola, se quella immaginazione non avesse avute conseguenze, che udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per qualche tempo ancora da poi che il racconto è cessato. S’immaginarono che la peste fosse disseminata con unguenti, non so, né essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati sotto qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col demonio. A diffondere questa insana credenza contribuiva la disposizione universale a supporre cause soprannaturali, che ammesse una volta spiegano tutto senza difficoltà, stornando gli ingegni dall’esame delle cose e delle relazioni reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte. E fra queste cause soprannaturali una che più facilmente si ammetteva era l’intervenzione del demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera angusta delle cognizioni, e della esperienza comune, era opera del demonio, non solo nel male, ma nelle cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che rimane tuttavia un vestigio in più d’un dialetto e d’una lingua che, per dinotare un uomo di abilità straordinaria in qualunque genere, hanno tuttavia questa formola: egli è un diavolo; ha il diavolo addosso. Contribuiva l’opinione universale, congenere a questa che abbiam detta, sulla esistenza, sulla frequenza delle streghe e degli stregoni: opinione che applicata poi a tanti infelici, faceva nascere dei sospetti che nella persuasione divenivano fatti, e davano così alla opinione stessa la forza e l’autorità della esperienza. Contribuiva la facilità a credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una perversità infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una esperienza troppo reale: non eran rari gli uomini che a forza di conceder delitti alle passioni loro eran giunti a segno, di farsi una passione e una gloria del delitto stesso. Dei veleni poi l’uso era tanto frequente, come attesta il cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si conserva manoscritto nella biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli artefici e le officine.

L’ignoranza e l’irriflessione portavano poi leggiermente una tale corrività a creder misfatti, al di là delle nozioni dell’esperienza; e specialmente in ciò che risguardava le nazioni straniere; l’orgoglio, una stolta rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata le più atroci imputazioni, o le interpretazioni più assurde di fatti reali: queste erano gettate in mezzo ad una popolazione che non aveva né le notizie di fatto, né le idee generali necessarie per farvi sopra un esame, né l’abitudine di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a crederne altre, formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato. Contribuivano certe tradizioni confuse, ma ridette con asseveranza fra il popolo, di simili trame scoperte nella peste del 1576, e in altri tempi d’eguale sciagura. Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili erudizioni di molti dotti d’allora, che andavano a pescare nelle storie, e in narrazioni ancor più favolose, ogni menzione di pesti propagate con sortilegj, e con veleni, o come dicevano manofatte: materia pur troppo abbondante; giacché da quella peste che, al dir di Tucidide, gli Ateniesi supponevano cagionata da veleni gettati nei loro pozzi dai Peloponesi, fino alla peste di Roma che nel consolato di P. Cornelio Cetego, e di M. Bebio Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto del simulacro di Giunone Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non vi fu peste, quasi fino ai nostri giorni, della quale il popolo che la pativa non desse cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj superstiziosi. Ma quello che fissò ad un punto d’errore questa vagabonda ed inquieta credulità, fu una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto, spedita fino dall’anno antecedente al Marchese Ambrogio Spinola, nome ancor celebre per le spedizioni di Fiandra, che era stato surrogato al Cordova nel governo di Milano. In quella lettera si dava avviso al governatore che quattro Francesi sorpresi nell’atto di spargere unguenti pestiferi nella Corte di Madrid, erano sfuggiti, né dove si sapeva: dovesse egli quindi stare all’erta se mai fossero capitati a Milano.

Al primo divolgarsi di quell’avviso non vi si badò più che tanto: ma il contagio che nelle credule menti, era stato associato alla idea di quelle unzioni come un effetto di esse, comparendo ora realmente, risvegliò tosto la ricordanza della sua immaginata cagione; l’idea di unzioni venefiche, che era rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un germe maligno profondamente sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa alla superficie del terreno. Unguenti, polveri, comete, malie, trame, congressi, demonio, erano le parole che tornavano in tutti i discorsi. Si venne tosto a sapere che il demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava il quartiere, si ripeteva il nome del locatore. Che più? Un uomo e si diceva chi, fermatosi un giorno su la piazza del duomo aveva veduto giungere in carrozza a tiro sei con gran corteggio un gran signore col volto fosco ed abbronzato, cogli occhi infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso alla minaccia, un viso insomma di quei che il buon milanese non aveva mai veduti. Mentre questi guatava, il cocchio era ristato, e a colui fatto invito di salire: egli aveva condisceso; e dopo un certo giro il cocchio s’era fermato a quella tal casa, ed ivi egli era smontato con gli altri. La casa era degna del fittajuolo: andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui larve sedute a consiglio, amenità di giardini, e orrore di caverne. Quivi al galantuomo erano stati mostrati grandi tesori, e promessi, se volesse servire a quel signore nella grande impresa ch’egli macchinava. Ma il galantuomo, avendo ricusato, era stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla piazza del duomo. Questa storia non fu soltanto creduta in Milano dov’era nata, ma si diffuse per tutta Europa, e in Germania se ne incise un disegno. L’arcivescovo elettore di Magonza chiese per lettera al cardinale Federigo Borromeo che fossero tutti codesti portenti che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano sogni e delirj.

Quand’ecco, il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle loro faccende, videro le muraglie sparse di macchie viscide, giallastre, ineguali, come impresse da spugne lanciate; le porte pure imbrattate della stessa materia, e intrisi i martelli. Per quanto sia da diffidare delle affermazioni di quel tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacché i contemporanei lo riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in dubbio; e fra que’ testimonj si trova il Ripamonti il quale non poteva essere illuso dalla prevenzione, poiché da tutte le sue parole traspare chiaramente ch’egli non partecipava alla persuasione comune. D’altronde è ovvia una spiegazione naturale di quel fatto. V’ha in ogni tempo degli uomini pei quali il terrore pubblico è un divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo, o di accrescerlo; e ve n’aveva una trista abbondanza a quei tempi, in cui gli animi erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi a cercare una superiorità propria nell’abbattimento altrui, una gloria nel fare il male con destrezza, con audacia, e con pericolo. È probabile che uomini di questa bella indole abbiano vegliata una notte a quelle gloriose pitture, per vedere nel giorno l’effetto che produrrebbero sulle fantasie dei loro concittadini, e per ridere sicuramente d’una paura, della quale essi conoscevano l’illusione. E in quel trattatello del Cardinal Federigo è scritto che alcuni ebbero poi a confessare di avere unti più luoghi per farsi beffe della gente. È poi anche probabile che le fantasie insospettite ingrandissero la realtà, e vedessero unzioni artificiali e recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più volte prima di quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti.

I primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in un momento le vie brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a quelle macchie come ora ai quadri più lodati in una esposizione publica. Il terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante ed incerto alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacché la moltitudine si accontenta bensì dell’indeterminato nei ragionamenti; ma nei fatti vuole del positivo, e lo vuol tosto. Per alcuni il capo degli untori (il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe, che voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva; per altri era il Cordova che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che nel suo partire l’aveva accomiatato il popolo memore della fame durata nel suo governo; altri nominava D. Giovanni Padilla figlio del Castellano di Milano; altri il duca di Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si trovava a Roma; e questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era stato preso, ed era mandato a Milano per subirvi il supplizio: l’universale lo aspettava con ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto era un sogno. Alcuni disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini sconosciuti; alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi. Il furore era al colmo, nessun supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici. Nè è da farsene maraviglia; un tal sentimento è troppo facile a nascere in un popolo il quale crede che v’abbia degli uomini che tentano di avvelenarlo in massa. Dal che si vede, che a volere impedire gli effetti talvolta tanto iniqui e tanto crudeli di simili esacerbazioni popolari, è scarso, e tardo rimedio l’intercedere, il predicare la moderazione, il perdono, quando gli animi sono persuasi della realtà dell’attentato; bisogna cercare di prevenire la persuasione, e sopra tutto guardarsi dal secondarla ripetendo ciecamente i primi romori publici. Ho detto si vede, e dovetti dire: si dovrebbe vedere; giacché osservando le piaghe dei nostri maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi alle nostre; e questa corrività a credere senza prova attentati contra il publico, contra una parte di esso, ad attribuire alle persone fatti e parole immaginarie è una piaga viva tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico anche negli uomini più colti di questi popoli. È cosa strana e trista che nelle cose contemporanee anche molti uomini colti si accontentino di ragioni che gli farebbero ridere applicate in una storia ad avvenimenti lontani. Nei nostri tempi in cui i fatti si sono affoltati con una terribile celerità, è incredibile l’influenza che hanno avuta in essi queste opinioni così leggermente ricevute: le più inverisimili son divenute spesso norma infallibile, impulso potente di condotta e di azioni: effetti terribili di cause immaginarie, furono poi cagioni di azione pur terribile, vasta, e prolungata. Su questa corrività non posso trattenermi dal trascrivere alcune parole d’oro da un libro d’un uomo singolarmente osservatore, il quale si trovò ravvolto in avvenimenti d’una terribile complicatezza: «Si je ne l’avois pas vu moi-meme, et plusieurs fois, je ne le croirois pas: il a été fait par des hommes de bien à des hommes atroces, des inculpations qui n’ètoient ni vraies ni vraisemblables.»

Tornando al nostro proposito, v’ebbe pure alcuni i quali pensarono, e dissero che tutto quell’infardamento doveva essere una burla; e l’attribuirono a scolari dello studio di Pavia. Ma questa opinione non fece presa: quella che supponeva una intenzione più rea, una intenzione atroce era troppo conforme alle altre idee dell’universale: e del resto nelle grandi sciagure gl’ingegni si pascono volentieri di supposizioni orribili. Quegli che opinavano per la burla non osarono troppo insistere, per non esser presi essi stessi in sospetto di complici o di fautori dell’attentato. Dal non credere un delitto all’approvarlo il salto è grande; ma la logica delle passioni è agile, e sa farne senza difficoltà anche dei maggiori. Il suo modo di procedere in questo caso è tale. Quando a persone inebbriate d’odio e di indegnazione contra il supposto autore d’una grande iniquità contra il pubblico, voi negate che quegli ne sia colpevole, l’idea che rimane nei vostri uditori è che voi intendete di scusarlo. Ora nelle menti loro, atrocità del delitto, certezza del delitto, reità del tale o dei tali sono idee affatto indivisibili; e quindi scusare la persona è per essi scusare la cosa. Scusare poi, approvare, favorire, esser complice, esser capo, sono salterelli, che la logica fa quasi senza avvedersene.

Ma ciò che reca maraviglia anche a chi avendo letti i libri di quel tempo ha potuto avvezzarsi al ragionare dei loro autori, si è l’udire taluno di quei medici stessi che avevano sostenuto, insegnato, osservato alla giornata come il contatto trasmettesse e diffondesse rapidamente la peste, udirli dico poi attribuirne la diffusione alle unzioni. Ai 19 di Maggio, il tribunale della sanità con publica grida, offerse premio ed impunità a chi rivelasse gli autori delle unzioni. Altre consimili furono poi publicate d’ordine del governatore e del senato.

In mezzo alle suspicioni, ai furori, alle accuse avventate e crudeli, in mezzo pure alla licenza che né le sventure, né le ire avevano frenata, sorse una smania generale di placare la collera di Dio con una processione publica nella quale si portasse per la città il corpo di San Carlo. Il Vicario e i Dodici di Provvisione, i sessanta decurioni fecero di ciò richiesta al Cardinale Federigo; il quale ricusò da prima, adducendo motivi, che da un tal labbro pare che dovessero portare la persuasione; ma talvolta la ragionevolezza, o l’opportunità delle parole toglie ogni forza anche alla autorità. Allegava l’uomo savio che il popolo aspettava da quella supplicazione solenne la liberazione dalla peste, non con una speranza condizionata e rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa, quando fosse delusa, succederebbe una incredulità egualmente superstiziosa, una indegnazione empia. Un altro motivo da lui addotto era anche conforme ai più cari pregiudizj del publico: e pur non valse. «Una tale ragunata di popolo», diceva egli, «potrà essere una troppo comoda occasione per questi untori, quando sia pur vero che ve n’abbia». Giacché Federigo, quantunque fosse lontano dall’ammettere tutte le ragioni che persuadevano su quel punto la maggior parte dei suoi contemporanei, quantunque anche in iscritto abbia mostrato la frivolezza, e l’illusione di alcune, e segnate le cagioni e i modi dell’errore, pure sbalordito da tante grida, sopraffatto da tante testimonianze non ebbe il coraggio di pensare che il delitto era tutto immaginario: e con tutta la nostra riverente propensione per quell’uomo, non possiamo dargli una tal lode, che pur fu meritata da alcuni suoi contemporanei, dei quali non già i nomi, ma una memoria confusa ci è stata conservata dagli scrittori. E, cosa singolare! tutti quegli scrittori, meno il Ripamonti, insorgono contra quei pochi increduli; di modo che se noi posteri sappiamo che alcuni uomini furono esenti da un funesto errore comune, lo sappiamo soltanto per l’accusa di cecità e di stranezza che gli scrittori credettero di portare contro di quelli al nostro riverito tribunale.

Un’altra ragione, e savia davvero, allegava il buon vescovo: che un pericolo ben più certo, e ben più funesto sarebbe la frequenza, l’addensamento, e la mistura di tante persone: e che era troppo da temersi che un mezzo cercato per ottenere la liberazione della peste, ne divenisse un terribile propagatore. Ma le insistenze, le importunità furono tali ch’egli acconsentì. Su di che noi non osiamo né assolvere, né censurare la sua memoria: perché non possiamo sapere quali sarebbero state le conseguenze d’una ripulsa diffinitiva. Quegli uomini avrebbero potuto fare a furore la loro processione senz’altro permesso; e farla meno ordinata e di più funesto effetto, avrebber potuto fare Dio sa che. A chi volesse giudicare a rigore il nostro Federigo, noi non auguriamo di aver mai a competere con un qualche migliajo di furiosi ostinati.

Tre giorni furono spesi in preparamenti: si ornarono in fretta le vie per cui doveva passare la processione: i ricchi cavarono fuori le più preziose suppellettili; le fronti delle case povere furono addobbate dai vicini doviziosi, o per cura del publico. Il tribunale della sanità bandì che nessuna persona di terra sospetta potesse entrare quel giorno in Milano; anzi per accertare l’esecuzione del bando, fece chiudere le porte della città. E parimenti, perché nessuno dei cittadini infetti o sospetti potesse in quel giorno uscire e mischiarsi alla folla, fece inchiodare le porte delle case già sequestrate. Con questi ordini si credette che fosse bastantemente ovviato ai pericoli di una accolta così numerosa. Un momento di riflessione avrebbe dovuto bastare a sbandire una tale fiducia da qualunque intelletto umano: e tanto più fa stupore come ell’abbia potuto prevalere in coloro i quali avevano dovuto vedere e sperimentare quanto rapidi, facili, moltiplici fossero i modi per cui il contagio si comunicava; e quanto scarsi in paragone i mezzi di riconoscere tosto le persone, le cose a cui si era comunicato. Certo non potevano nutrire la pazza lusinga di aver saputo discernere e sequestrare tutti gli infetti; dovevano anzi tenersi pur troppo certi che molti giravano liberamente, molti si sarebbero trovati in quella folla i quali avevano già nei loro corpi, o nelle vesti appiccato il contagio; non ignoravano che un solo di questi sarebbe bastato ad infettare una città intera: e si fidarono a quei loro provvedimenti.

All’alba del giorno 11 di giugno, festivo a quei tempi nella diocesi milanese pel nome di San Barnaba, il clero e il popolo, ragunatosi parzialmente nelle diverse chiese, convenne in drappelli al Duomo, donde tutti poi insieme si mossero a processione. Andava innanzi una gran troppa di popolo misto di età, di condizione, e di sesso; quali portando un cero, quali un rosario; molti in segno di penitenza, scalzi. Venivano quindi con ceri le confraternite vestite di fogge varie di colori e di forme, poi le arti distinte, e precedute ognuna dal suo confalone; poi le varie congregazioni dei frati, neri, bigi, e bianchi, poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie divise; quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante d’incenso, portata da quattro canonici, l’arca dove giacevano le reliquie invocate di San Carlo. Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva il corpo coperto di splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo squallore delle vuote occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate, della cute abbronzata, aggrinzata su l’ossa, traluceva ancora qualche vestigio della faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai vecchj che avevano veduto vivo il santo pastore. Gli altri cercavano di raffigurare in quelle reliquie una immagine più presente e più reale di quella faccia che dalla infanzia avevano osservata e venerata nelle imitazioni dell’arte. Dietro le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed imitatore Federigo, consunto egli pure e pallido di vecchiezza, di penitenza, e di accoramento, in quell’aspetto di compunzione che nessuna ipocrisia può contraffare, poiché è l’effetto involontario d’un sentimento che non conosce i modi pei quali si esprime. Le affezioni temporali pel parente, appena si facevano sentire in quell’animo, assorbite dalla riverenza del santo, e dalla invocazione all’intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi vissuti insieme, si perdevano nella fede: non era più che un vescovo che pregava l’uomo vivente presso Dio perché pregasse pel suo popolo. Colui che aveva cercato di stornare quella cerimonia, vi portava ora forse l’animo il più fervente: le ragioni che l’avevano renduto ritroso ad approvare una risoluzione imprudente non venivano ora a distrarre con ricordi superbi e dispettosi la sua mente dall’intento ragionevole e santo di quella risoluzione: il culto, e la preghiera. Perché, egli era di quei pochi che adoperano le loro ragioni sol tanto quanto possono sperare di ottenere con esse una utile persuasione; avuto o disperato questo intento non le vanno più rivangando con un inquieto brontolamento: rodersi, o insuperbirsi d’essere stati saggi indarno, non pare ad essi un esercizio ragionevole dell’intelletto; far vedere, e far confessare agli altri che essi avevano meglio pensato di loro, non pare ad essi uno scopo. Certo anche quei pochi sono soggetti all’errore; ma di quanto scemerebbero in numero gli errori, e quanto meno sarebbero funesti nell’effetto quegli che rimarrebbero, se tutti gli uomini osservassero le cose con una mente disinteressata d’orgoglio.

Dopo l’arcivescovo venivano i magistrati, e i nobili, quali rivestiti di ricche divise, come a dimostrazione solenne di culto, quali in segno di penitenza a piè nudo, coperti di sacco coi cappucci rovesciati sul volto, forati come a finestra dinanzi agli occhi, e cadenti in acuta punta sul petto. Quindi ancora un’altra gran frotta di popolo; e alla coda i vecchj stanchi, le donne rimaste addietro coi fanciulli, gli attratti, i zoppi, i deboli; molti ritardati dal fermento della peste che già covavano senza saperlo, o senza volerlo sapere, e che toglieva loro a grado a grado le forze.

La processione sboccata dalla porta maggiore del Duomo, s’incamminò per la via de’ cappellaj, al crocicchio detto il Bottonuto, dove allora era una croce, e quindi con un giro interno, toccando tutti i quartieri, e sostando a tutti i crocicchj dove erano allora le croci, alcune delle quali rimangono tuttavia, tornò al Duomo per la piazza dei mercanti. Tutta la via era adombrata da una striscia perpetua di tele, sostenuta da pali e da correnti composti come a pergolato; i pali rivestiti di rami frondosi tagliati di fresco; e tra gl’intervalli, drappelloni di varie stoffe rannodati e pendenti; le pareti tutte coperte di tappeti, di strati, di quadri; i davanzali delle finestre ornati di fiori o a mazzi, o vegetanti nei vasi, e di arredi antichi, o preziosi, e da per tutto ceri ardenti che restituivano la luce esclusa da quei folti adornamenti. Fra tanta pompa si vedevano alle finestre molti di quei poveri sequestrati, alcuni scarnati, e coi segni della morte in volto, tendere a stento le braccia supplichevoli all’arca che passava. Da quelle case usciva un ronzio di voci che accompagnavano gli inni dei passeggeri; e di tratto in tratto un risalto di gemiti, uno sclamar di preghiere che terminavano in singhiozzi ed in guaj. Nè alle finestre soltanto, ma sui tetti delle case vicine e soprastanti si vedevano di quegli spettatori ai quali non era stato concesso di mescersi alla supplicazione comune; e sur alcuni tetti si distinguevano all’abito drappelli di monache ivi tirate dalla curiosità e dalla divozione. Gli altri quartieri della città deserti, muti, se non dove giungeva a poco a poco il mormorio della processione che passava non lontano, e pure a poco a poco diveniva più fievole, e moriva. Quegli abitanti tendevano l’orecchio appoggiati alle finestre, o sollevati sul letto mortale; per distinguere il suono della preghiera nella quale erano ricordati anch’essi, quasi per udire in quel muto abbandono un romore che gli assicurasse che altri pure viveva e si moveva in quella città di cui non vedevano che la solitudine. La processione tornò al duomo dopo un giro di dodici ore. L’arca rimase esposta sull’altare maggiore del duomo per otto giorni.

Il tristo presagio del Cardinal Federigo non tardò ad avverarsi. Prima della processione le case chiuse erano intorno a cinquecento; pochi giorni dopo, si notavano quelle dove il contagio non fosse entrato. V’era due mille persone nel lazzeretto; in breve crebbero a dodici mila: non bastando le stanze e i portici, furono in fretta, costruite capanne di legno nel vasto ricinto: né quelle pure bastando furono eretti tre altri lazzeretti in diversi punti fuora delle mura della città. La mortalità comune che era prima di cento trenta persone alla giornata, per rapidi salti venne a mille ottocento. Due fosse erano state scavate pei cadaveri, ampie, si diceva, enormi, quasi per lusso di previdenza; sperando che in giorni non lontani, lieti per un gran timore cessato, quella stessa terra, che ne era stata cavata servirebbe in gran parte a ricolmarle: ma i cadaveri deposti, poi ammucchiati, poi gettati a fascio, venivano rapidamente adeguandosi al terreno: convenne scavarne cinque altre.

La cagione d’un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce di popolo agli untori: si disse con asseveranza, e si ripetè con furore, che quegli uomini congiurati allo sterminio della città, prendendo il destro della processione, che l’aveva posta tutta unita per così dire in loro balìa, avevano unti in quel giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri venefiche, per le quali il contagio s’era appiccato alle vesti, ai piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti. L’opinione delle unzioni che fino allora non aveva prodotta che una vaga inquietudine, e ciarle, dopo questo, ch’ella prendeva per un gran fatto, cominciò a partorire ben altri effetti. Due principali furono distinti, e notati dal Ripamonti, uomo, che in molti punti liberandosi, e segregandosi dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la mira delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini della questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo stesso. Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti, per arzigogolare quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta, e dalla oscurità stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza che è compagna della disperazione. L’altro effetto più deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e di giustificare di santificare, tutte le offese più crudeli che quei sospetti potevano suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico, dalla via publica si temeva, ma si guardava alle mani dell’amico, del servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa, ma orribil cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale. Il viandante straniero che non ben sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdrajasse per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo la mano, colui che inavvertentemente toccasse la parete d’una casa, l’affrettato che urtasse altri per via, erano untori; al terribile grido d’accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l’infelice era oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o strascinato alle carceri tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto. E quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune, di quegli stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d’un simile furore.

Così l’irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta. Dico l’irreligione, perché se l’ignoranza e la falsa scienza delle cose fisiche, e tutte le altre cagioni di cui abbiamo parlato di sopra poterono far ricevere comunemente l’opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di quel popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva, e feroce nell’applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che dispone gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone; se fosse stata insomma congiunta con quella carità che è paziente, benigna, che non s’irrita, che non pensa il male, che tutto soffre. Ma l’intolleranza della sventura, la disistima e l’obblio delle speranze superiori a tutte le sventure del tempo, l’orrore pusillanime e furioso della morte, erano le cagioni che mantenevano negli animi una irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di fatti che ne dessero l’occasione, quindi ancora pronta a trovar questi fatti ad ogni momento.

Il Ripamonti riferisce due esempj di quel furor popolare, avvertendo bene i suoi lettori di averli trascelti, non già perché fossero dei più atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perché di quei due egli fu testimonio.

Tre giovani francesi, un letterato, un pittore, e un meccanico in mal punto venuti per istudio, e per guadagno, stavano contemplando il duomo al di fuori. «È tutto marmo», dicevano; e come per accertarsi, stesero la mano a toccare la liscia superficie. Bastò! la folla agglomerata in un istante gl’involse; furono stretti, tenuti, percossi con tanto più di furore, perché le vesti, la chioma, il volto, le grida stesse gli accusavano stranieri, e quel che era peggio, francesi. A calci, a pugni, a strascichi, furono menati in carcere. Per buona sorte le carceri eran vicine, e vi giunsero vivi; e per una sorte ancor più felice, i giudici gli trovarono innocenti, e gli rilasciarono. L’altro caso fu più funesto. Un giorno solenne, nella chiesa di Sant’Antonio, frequente di popolo quanto poteva comportare quel tempo, un vecchio più che ottogenario aveva orato lungamente ginocchioni. E forse, pensando agli anni suoi, e al contagio che minacciava ogni persona, egli avrà offerto a Dio il sacrificio d’una vita ormai tanto caduca. Ma un destino più maturo della vecchiezza, più sollecito della peste, il furore degli uomini gli stava sopra. Stanco egli volle sedersi; e prima con la cappa spolverò alquanto la panca. «Il vecchio unge le panche!» gridarono alcune donne che videro quell’atto. Il vecchio! e a quel nome che richiama pensieri di compassione e di riverenza, il sospetto in quel momento non lasciò associare altre idee che di una più fredda malizia, d’una perversità incallita. Il grido passò di bocca in bocca; tutti si levarono; una turba fu addosso al vecchio. Lo presero, gli stracciarono i capegli bianchi, gli acciaccarono di pugni il volto e le membra: avrebbero ficcati i pugnali in quel corpo quasi esanime; se un furore più pensato non gli avesse consigliati di serbarlo alle carceri, ai giudici, alle torture. «Io lo vidi, così strascinato», dice il Ripamonti, «né altro seppi della fine; ma stimo ch’egli sia tosto morto dagli strazj. E alcuni» aggiunge questo scrittore, «che mossi a pietà di così indegno caso, chiesero contezza dell’essere di quello sventurato, riseppero che egli era un uomo dabbene».

I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell’iniquo furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei popolari che abbiam riferiti, con carnificine più lente, più studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero.

Gli abbiamo dunque riserbati ad un’appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero.