Fermo e Lucia/Tomo Quarto/Cap III

Tomo Quarto - Capitolo Terzo

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Tomo Quarto - Cap II Tomo Quarto - Cap IV

Il giorno 22 d’ottobre di quell’anno 1629, Pietro Antonio Lovato, fante in un reggimento italiano alloggiato nel territorio di Lecco, entrò in Milano, carico di vesti rubate o comperate dai soldati alemanni; e andò a porsi in una casa di suoi parenti nel borgo di Porta Orientale. Appena giunto s’ammalò; fu portato allo spedale: e morì nel quarto giorno. Nel cadavero si scoperse un carbone che diede sospetto di peste; i parenti del morto, spaventati dall’idea di divenire sospetti anch’essi, e di essere assoggettati alle precauzioni sanitarie, accorsero ad asseverare che quel tumore era stato cagionato dalla fatica del viaggio e della soma. Tuttavia gli abiti del Lovato e il letto dov’era giaciuto furono arsi nello spedale; ma non si pensò a più lontani provvedimenti. Tre giorni dopo, due serventi dello spedale, che avevano governato quell’infermo, e un buon frate che lo aveva assistito, si posero giù con febbre, che fu giudicata pestilente.

Allora il tribunale della sanità fece sequestrare la famiglia del Lovato dalle molte altre famiglie, che abitavano nella stessa casa. Quest’ordine fu dato per abbondare in cautela, a quel che lasciò scritto il Tadino; ma se la cautela fu abbondante, certo non fu a tempo; poiché egli stesso racconta come un Carlo Colonna sonatore di liuto, che dimorava sotto quel tetto, s’ammalò ben tosto, e visitato da lui, morì in breve spazio con tutti i segnali del contagio.

Tutti gl’inquilini di quella casa furono allora mandati al lazzeretto. Ma dall’arrivo del Lovato erano già corsi forse venticinque giorni, nei quali i parenti, i vicini che avevano praticato con lui, avevano praticato pure con altri senza sospetto e senza riguardo. Furono ricercate tutte le robe del Lovato e del Colonna; e fatte ardere quelle che si poterono rinvenire. Ma una parte era stata trafugata, dispersa, nascosta, con quella destrezza, con quella diligenza che tutti noi figli d’Adamo sappiamo mettere nel far male a noi stessi. I conservatori della sanità lo riseppero da una donna che si moriva per avere avuto di quella abilità; e non poterono fare altro che concepire un gran sospetto per l’avvenire. Ben presto ogni più tristo sospetto cominciò ad avverarsi: la più parte dei sequestrati nel lazzeretto s’infermarono, e tutti coi medesimi tremendi segnali; e molti di essi morivano in poco d’ora. Lo stesso accadeva di quando in quando in varj quartieri della città, o per comunicazioni avute colla gente di quella casa funesta, o per nuovo arrivare d’uomini dalle parti del contado dove la peste era più diffusa. Ma le nuove di quegli accidenti giungevano al tribunale, tarde per lo più, incerte, contraddette. Il terrore del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni, e faceva sormontare ogni altro terrore: si dissimulavano gli ammalati, si occultavano i cadaveri, si procuravano false attestazioni. Quegli poi che avevano ottenuto l’intento di evitare il lazzeretto, o la quarantena in casa, e di conservare le robe dei congiunti o degli ospiti loro, cadevano poi talvolta repentinamente nelle vie, nelle chiese soprappresi dalla peste, e manifestavano in se stessi il malore che insensatamente avevano voluto nascondere in altri. Il tribunale avvertito, faceva portare gl’infermi e i sospetti al lazzeretto, e sequestrare gli altri nelle case.

Ma lo schiamazzare che si faceva contra quel tribunale non è da dirsi: i suoi atti erano oggetto di amara censura e di derisione; le persone oggetto di avversione e di disprezzo. A volerlo ora dopo due secoli, giudicare con discrezione, bisogna vedere ciò ch’esso poteva fare per distornare la peste, o per diminuirne il guasto; e ciò che fece. Ora, prima di tutto è cosa troppo evidente che il tribunale della sanità non poteva impedire che entrasse la peste nello stato, quando v’entrava un esercito nel quale era appiccata. Fin da quando si seppe che la calata di questo esercito era risoluta, quei poveri galantuomini, — e questo fu veramente un abbondare in cautela — rappresentarono al Signor Don Fernando Gonzales di Cordova la rovina che infallibilmente ne sarebbe venuta al paese: ma Don Fernando Gonzales di Cordova rispose chiaramente che il fine politico per cui si faceva passare quella truppa, importava più che non la sanità pubblica. Non parlò dunque con esattezza quel valentuomo, il quale in un libretto, per altro lodevolissimo, ricercando le cagioni per cui quella peste fu tanto micidiale in Lombardia, nota per la prima «una somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza»: e fa nascere questa spensieratezza «dalla ignoranza e dalla sicurezza nei loro errori, che formò il carattere dei nostri avi». La non fu spensieratezza; fu posponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli che lo commisero non sono nostri avi. A ciascheduno quel che gli si viene.

Ma data questa inevitabile ospitalità ad appestati, poteva il tribunale impedire ogni contatto dei paesani con quelli? Qui pure l’impossibilità è manifesta: poiché si trattava di migliaja d’uomini che violentemente si ponevano nelle case, occupavano i letti, prendevano, adoperavano, brancicavano, mal menavano le cose e le persone che potevano aver nelle mani.

Entrato così il contagio negli abitanti, poteva il tribunale circoscriverlo tosto a quei primi infetti, isolarlo, costringerlo nei luoghi dove si manifestava, ottenere quei due scopi egualmente sacri, e tanto difficili a conciliarsi, l’assistenza agli infermi, e la preservazione dei sani? Quando si consideri che i soldati avevano percorse forse cento cinquanta miglia del Milanese, e s’erano diffusi a destra e a sinistra per trovare alloggiamenti, e per rapinare; che in varie parti di quel tratto la pestilenza si manifestò ad un punto, in moltissime persone, si vedrà che anche quest’ultimo scopo era se non impossibile, difficilissimo ad ottenersi dal tribunale, quand’anche questo avesse avuti a sua disposizione mezzi grandissimi, e avesse trovata da per tutto una pronta, attiva, e sapiente cooperazione; del che non era niente.

Ma per conchiudere finalmente, adoperò il tribunale tosto o tentò tutti quei mezzi che aveva se non per distruggere, se non per ridurre a poco, almeno per iscemare in qualche parte il contagio, e per salvare i paesi non ancor tocchi? Qui bisogna distinguere fra le persone stesse del tribunale.

I due medici, convinti dal primo momento della gravità del pericolo, insistettero tosto e sempre perché si dessero pronti provvedimenti; ma non furono secondati dai loro colleghi. Proposero per esempio che fosse proibito sotto pene severissime, il comperar robe dai soldati alemanni; «ma», dice ingenuamente il Tadino, «non fu possibile persuaderlo al presidente pieno di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaja di persone, per il commercio di questa gente e loro robbe». Così l’avere a quel primo avviso del Settala, anzi dopo gli iterati avvisi che giungevano dal territorio di Lecco, spedito un ignorante commissario, col solo carico di riferire, fu atto di trascuranza inescusabile; per non parlare di molti altri atti di egual valore. Certo una condotta simile in simili circostanze d’un tribunale della sanità ai nostri giorni ecciterebbe uno scandalo universale; o per meglio dire non vi sarebbe ora forse in Europa tribunale della sanità che operasse a quel modo.

Ma — e qui appare il carattere singolare di quei tempi — non erano queste le accuse che gli uomini d’allora facevano al tribunale; lo accusavano, indovinate mò; di corrività, e di precipitazione, lo accusavano di credere pazzamente ad un male che non esisteva, di atterrire, di contristare, di tormentare con ordini inutilmente i cittadini. Dopo tante calamità, parlare anche di peste pareva un raffinamento di crudeltà; il popolo bene o mal vestito gridava ad una voce che quell’orrendo sospetto era una invenzione di alcuni medici per guadagnare sul pubblico terrore. Molti fra i medici stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso — se è lecito fare una eccezione ad un proverbio — non era certamente voce di Dio, ridevano al nome di peste, attribuivano la mortalità ai disagj degli anni scorsi, ed avevano in pronto molti nomi per qualificare variamente gli accidenti di quel male nelle varie persone; quando qualche infermo, rimovendo tristamente la coltre, mostrava loro un tumore che gli dava da pensare, essi sogghignando gli domandavano se non aveva mai veduto foruncoli; quando si parlava di taluno estinto repentinamente, o dopo brevissimo languore, domandavano se non si erano mai conosciute apoplessie. Con una disposizione universale di questo genere, gli ordini del tribunale dovevano incontrare da per tutto ostacoli, resistenze, inesecuzione. Così era in fatti; e per immaginarsi a qual segno, basti sapere che gli ufiziali stessi del tribunale, quelli che dovevano fare eseguire gli ordini, erano, come l’universale convinti che fossero pazzie. Come però erano ordini, che davano ad essi una autorità, e ordini spiacenti a chiunque vi si doveva assoggettare, una gran parte di quegli ufiziali faceva un traffico della inesecuzione.

Era venuto il carnevale; e agli animi avidi di tripudio diveniva ancor più insopportabile la tirannia del tribunale che per un supposto ostinato, per un suo capriccio vi poneva inciampo in mille modi. Non consta veramente che giungesse all’eccesso di proibire le mascherate; ma faceva far visite incessanti, ma prescriveva sequestri, ma separava gente da gente, ma non rifiniva di tappezzare gli angoli delle vie di ordini minacciosi, malinconici, ma insomma voleva intrudere a forza quella idea di peste in tutto, amareggiava e teneva su la corda ogni galantuomo. Più ancora fremevano coloro che come sospetti erano rinchiusi nel lazzeretto; e ripensavano tristamente ai divertimenti dai quali erano tenuti in bando; si rodevano di non potere, come i loro concittadini, gettare alle finestre, alle carrozze delle signore uova industriosamente ripiene di acqua odorosa o fetida, secondo il genio leggiadro o spiritoso del dilettante: sollazzo renduto più piccante dal divieto annuo, e dalla destrezza che si doveva impiegare a far le cose in modo da non esser sorpresi, e da schifare la multa di venticinque scudi se il reo era un galantuomo, e due tratti di corda se scarseggiava di scudi. Pensarono dunque al modo di divertirsi almeno in quel tristo ricinto; e con danari ottennero facilmente dai ministri del tribunale, di confondersi e di praticare liberamente fra loro; ottennero di più che si desse adito nel lazzeretto a chi voleva venire a rallegrarli: vi si fecero feste e balli: la licenza fu tanto più sfrenata in quanto aveva costato desiderj, e denari: e quel luogo che in verità pare dovesse ispirare tutt’altri pensieri, divenne un ridotto di tresche romorose, e di sozzi baccani.

Similmente, molti in casa di cui moriva uno appestato con denaro ottenevano dai ministri del tribunale che la casa non fosse dichiarata sospetta, ottenevano di poter sottrarre all’incendio prescritto dagli ordini le robe del defunto. Vedendo poi molti di costoro che guadagno ritraevano dalla loro condiscendenza, pensarono a farla comperare anche a chi non ne aveva bisogno; e quel traffico tanto insensato e colpevole si cangiò di più in concussione. Minacciavano essi del lazzeretto o della quarantena famiglie dove era morto qualcheduno, quantunque con nessun indizio di peste, e per altro male manifesto; prolungavano ad arbitrio le quarantene, intimavano la qualità di sospetti, e le conseguenze di questa qualità coi più vani pretesti a chi conveniva loro; e il solo mezzo d’uscire da quegli artigli era di ugnerli, come si dice.

Queste vessazioni crescevano il malcontento e i clamori: di tutto si dava cagione al tribunale, e alla opinione che vi fosse la peste; giacché tolta questa opinione sarebbero necessariamente cessati colle prescrizioni di cautela, gl’incomodi e gli abusi di quelle. Ormai chi avesse voluto parlar seriamente di peste sarebbe stato accolto non più con risate, ma con minacce e con insulti: quei medici, che lo ardivano erano nominati, notati, mostrati a dito come pubblici nemici.

Sa il cielo quante quei poveri galantuomini avranno dovuto ingozzarne; le quali sono sepolte nell’obblio con chi le ha fatte e con chi le ha patite. Uno di quei casi però parve ai contemporanei degno d’esser tramandato ai posteri; e in servizio di quei posteri che forse non l’avessero mai inteso, lo racconteremo di nuovo anche noi.

Ludovico Settala era generalmente riputato il primo medico del suo tempo in Lombardia; e questa riputazione gli è conservata tuttora da coloro che sono in caso d’avere una opinione ragionata su questo fatto. Oltre questa superiorità di dottrina, era egli celebrato e venerato per bontà di costumi, per uno grande zelo e un gran disinteresse e beneficenza nell’esercizio della sua professione. Vecchio venerabile, autore di molte opere la più parte latine, lodato dagli esteri, uomo che per amore del luogo natale aveva rifiutati gl’inviti splendidi del duca di Baviera, del granduca di Toscana, del cardinal legato di Bologna, dei signori veneziani, protofisico, lettore di filosofia, egli avrebbe potuto slanciare impunemente, anzi con applauso qualunque sproposito. Ma egli abusò di tanta popolarità; volle dire una cosa vera, che importava a tutti, e che nessuno voleva intendere; e ne fu severamente punito. La popolarità e il favore si cangiò in avversione. Egli, il primo a denunziare la peste, aveva sempre persistito nel proporre provvedimenti, aveva messa ogni cura nel farli eseguire, e più sicuro degli altri per una lunga abitudine di autorità aveva sempre predicato in ogni occasione e con chi che sia che pur troppo il male era certo, e che l’ostinarsi a negarlo, non poteva fare altro che dargli più campo a dilatarsi. Un giorno sul finire del Marzo 1630, appunto quando il contagio che aveva lentamente serpeggiato nel verno, cominciava a mostrarsi più frequente, essendo il buon vecchio portato in lettiga a visitare suoi malati, cominciarono alcuni del popolo a seguirlo nella via, a mostrarlo agli altri, a sussurrargli intorno. Si fece folla, e allora si cominciò a gridare più chiaramente: «è il capo della lega: è quegli che vorrebbe che ci fosse la peste: per sostenere il suo puntiglio: per far lavorare i suoi medici impostori. Uh! Uh! È quegli che mette la paura in corpo alla gente con quel suo cipiglio aggrondato, con quella sua barbaccia. L’amico della peste: il protettore del contagio. Uh! Uh! È ora di finirla: Si vorrebbe insegnargli a spaventare tutta una città colle sue imposture».

I lettighieri vedendo la mala parata, approfittarono della vicinanza d’una casa conoscente del loro padrone, e ve lo portarono in salvo da quel tumulto, da quello sdegno che minacciava di diventar furore; ivi il vecchio dovette rifugiarsi come un omicida per avere avuto ragione, e voluto far del bene.

Da avvenimenti di questa sorte si trae troppo spesso una conseguenza falsa e perniciosa: che è pazzia far del bene a noi uomini. Far del bene è sapienza; la pazzia è proporsi per fine o per premio la nostra riconoscenza, e la lode che noi diamo e ritogliamo a capriccio, come un ragazzo il suo balocco.

Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po’ più reconditi, e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico. Per darcene un saggio, l’autore del manoscritto, riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante, e un Magnifico Signor Lucio, del quale l’autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità. Era costui professore d’ignoranza, e dilettante d’enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d’ogni cosa; «perché i libri» diceva egli «fanno perdere il buon senso». Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza, e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che bugie.

Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che divenendo di giorno in giorno più risoluti cominciavano a non far distinzione di persone, e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza incomoda.

«Tutto questo», diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine, che hanno scaldata la testa d’alcuni i quali per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia, e pietà nello stesso tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant’anni, e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d’un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perché? perché l’ha trovata nei suoi autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl’impicci».

«Piano, piano», disse Don Ferrante, il quale benché occupato a dissertare in un altro crocchio aveva intesa quella scappata del Signor Lucio. «Piano, piano; se si tocca la scienza son qua io a difenderla».

«Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d’una dama che gli comparte tanti favori», disse una signora, e il tratto riscosse un mormorio di applauso da tutta la brigata.

«Quand’anche ciò fosse vero», disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo minuto, «una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del sesso. Comunque sia», continuò egli, «son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome».

«Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere», rispose il Signor Lucio, «che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, che so io, non sieno cavate dalla scienza».

«Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie», rispose Don Ferrante. «Anzi la scienza, chi la scava un po’ al fondo, dice tutto il contrario, e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera, un non-ente».

«Son cose che le donne possano intendere?» domandò quella signora.

«La materia è un po’ spinosa», disse Don Ferrante; «ma vedrò di renderla trattabile. Dico dunque che in rerum natura non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può essere né dell’uno né dell’altro genere; dunque non può esistere in rerum natura. Le sostanze... prego di tener dietro al filo del ragionamento... sono semplici o composte. Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea; perché se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi; non è acquea, perché bagnerebbe; non è ignea, perché brucierebbe; non è terrea, perché sarebbe visibile. Sostanza composta, né meno; perché tutte le sostanze composte si fanno discernere all’occhio o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi sarà quell’Argo che possa dire d’aver veduto, non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all’altro; sarebbe dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all’altro. Mi pare che la cosa sia evidente».

«Intanto», disse il signor Lucio, «senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i galantuomini, e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno».

«Non lo sanno; perdoni», rispose Don Ferrante, «lo indovinano, a caso, come atomi senza cervello che girando senza sapere dove, concorressero a comporre una figura regolare. Mi dica un po’ di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità».

«Oh bella!» disse il signor Lucio; «la cagione è chiara: in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti perché v’ha più malattie; e questo è il caso nostro».

«Sì», disse Don Ferrante; «ma le malattie, la cagione prima delle malattie?»

«Nè qui pure c’è sotto gran misterio», rispose il signor Lucio: «la carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie».

«Tutto bene», disse Don Ferrante, «ma la cagione prima?»

«Io non so che cosa ella intenda per cagione prima», disse Don Lucio.

«Ora, vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza», disse Don Ferrante. «Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti. Perché non si vuol fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle, e le considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare né come né quando. Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l’anno susseguente, che è poi l’anno passato, doveva regnare una terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest’anno, con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit ubique. Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare, e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un’altra predizione egualmente chiara; così non fosse!...»

Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò; la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, articolò la formola terribile: «mortales parat morbos; miranda videntur».

«O poveretti noi!» disse una signora, e rivolta al suo vicino chiese che cosa volesse dire quel latino.

«Le prime parole», rispose egli, «voglion dire che il morbo pare mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente».

Don Ferrante continuò: «Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l’errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare, e resistere all’evidenza, e credono di spaventarci con un grande apparato di dottrina, come se alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...»

«Eppure», disse il Signor Lucio, risolutamente, perché gli pareva di avere alle mani una buona ragione, «eppure anche quei medici non negano che l’aspetto dei pianeti presagisca malanni...»

«E qui li voglio», interruppe Don Ferrante; «qui dà in fuora lo sproposito. Confessano questi signori, perché a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all’altro. Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze, e dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze discese dai corpi celesti in questo mondo sublunare potessero schifarsi: come se quando le stelle inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei corpi celesti. Per me, credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei medici che hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato, accioché per giunta di tanti mali ci tocchi anche il flagello dei regolamenti».

Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso, sapevano che era comparsa quella cometa, avevano inteso dire che l’aspetto dei pianeti in quell’anno era funesto; ma da tutte queste idee non avevano mai pensato a cavare quel sugo che Don Ferrante espresse nella sua bella argomentazione. Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima, e nello stesso tempo più irritati contra i regolamenti, e più disposti a trascurare, come inutili, tutte le cautele. Lo stesso contraddittore signor Lucio partì da quella disputa più pensoso; perché le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch’egli riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.

Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai casi, e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti, sarebbe stato in molte cose l’uomo il più illuminato, e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni.

Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori tanto marchiani. E perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi unanime d’idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti in somma per una, due, più generazioni; divenute poi il ludibrio delle generazioni susseguenti. Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi, e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente avute in conto di verità incontrastabili. Si direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro l’affermare la tal altra che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio vi avrebbe fatto andar prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito, in quell’altro, era appena lecito avventurarla al tale grand’uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d’allora era forse per lui stesso una sciocchezza badiale. Si vedrebbe un tale errore, proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia, combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, cresciuto, e morto in un paese, tale recato da di fuori, e ricevuto con gratitudine, tale sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di dottrine; tale, scavato in un libro vecchio; tale immaginato da un corpo, da un uomo autorevole; tale messo fuori da un uomo senza credito, e senza merito, aver fatto grande fortuna perché conforme ad altre idee storte già dominanti, e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e pensatori di un’epoca, e rispinto dal popolo, e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodoché su quel punto i posteri non trovano da compatire in un’epoca che gli uomini pei quali hanno più di ammirazione.

Talvolta senza proteste senza richiami. Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l’annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro verso.

Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi, e con istravaganze volgari. Dal che si vede quanto fosse prepotente l’autorità di quelle idee; giacché non ardivano impugnarle che gli uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso. Volendo poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee si trova generalmente che dopo quei primi assalti staccati comparve qualche scrittore pensante e metodico a combatterle in regola. Allora, un trambusto da non dire: quelle idee disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza, e con ardore. Si sarebbe detto ch’elle non fossero mai state così forti, così inconcusse come in quel momento: ma noi posteri che vediamo la cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella. Egli era come quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo: gli abitatori sbucano in furia; è un batter d’ale, un avventarsi, un ronzio terribile; pare che vadano ad una conquista o che celebrino una vittoria: ma guardate il nido, e vedrete ch’egli arde; v’accorgerete che tutto quel concitamento nasce dall’impaccio di non sapere dove andarsi ad alloggiare.

È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con somma fidanza, e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci, e renduti inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto ingegnosi; ma per chi voleva riflettere, l’epoca stessa della scoperta era un pregiudizio contro di essi; poiché sarebbe cosa troppo strana che dopo cento o dugent’anni di persuasione e di consenso in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a scavare, un po’ tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle, non diceva nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe, non s’avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che era stata posta loro dinanzi, e che essi non l’avevano avvertita, o l’avevano rifiutata avvertitamente.

Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera. Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee dominanti al nostro tempo, ve n’abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a se stessa come un giogo che le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacché, è cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura comune a tutti i nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che senza studio, alla prima occhiata si può scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un’ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all’autorità dei morti, e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso. Ora, mettiamoci un po’ la mano alla coscienza; quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo! Se v’ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che... Eh ma! signori voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore, e torno alla storia.