Etica/Libro Quarto/II
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II. — Le definizioni e gli assiomi.
1) Il libro comincia con la posizione di otto definizioni e di un assioma.
Def. 1. Per bene intenderò ciò che sappiamo con certezza esserci utile.
Def. 2. Per male ciò che sappiamo con certezza esserci di ostacolo a che partecipiamo d’un certo bene.
Queste definizioni sono chiarite dall’introduzione. Per utile Spinoza intende ciò che ci fa passare ad una perfezione maggiore, che ci aiuta a realizzare più pienamente in noi stessi la nostra natura assoluta.
Def. 3. Dico contingenti le cose singole in quanto, considerandole in rapporto alla sola loro essenza, nulla troviamo che necessariamente ponga o necessariamente escluda la loro esistenza.
Def. 4. Dico possibili le cose singole in quanto, considerandole in rapporto alle cause da cui debbono essere prodotte, ignoriamo se queste siano determinate a produrle.
Qui Spinoza specifica i concetti di contingente e di possibile ai quali ha già accennato di volo in Et., I, 33. Vi sono, come sappiamo, due specie di causalità e quindi di necessità: la necessità ratione essentiæ e la necessità ratione causæ: la prima dipende dalle leggi eterne del mondo assoluto delle essenze, la seconda dall’ordine delle cause empiriche, il quale traduce in qualche modo per noi l’ordine eterno. Vi sono quindi anche due specie di contingenza (in l. s.). Contingente in vero e proprio senso è quella cosa la cui essenza, in sè sola considerata, non ci presenta nè una necessità intrinseca di natura (come l’essenza divina) nè una con traddizione interiore che la renda impossibile (come la chimera degli scolastici: per es., un circolo quadrato). In realtà dal punto di vista assoluto tutto ciò che è, è necessario ratione essentiæ, perchè tutto procede necessariamente ed eternamente da Dio. È l’ignoranza nostra che, facendoci considerare le cose extra Deum et in se, fa sì che noi non troviamo nella loro essenza, così isolata, nulla che ne ponga necessariamente l’esistenza. «Res aliqua nulla alia de causa contingens dicitur, nisi respectu defectus nostra cognitionis». Per noi quindi tutto è contingente, all’infuori di Dio (perchè in Dio l’esistenza è inseparabile dall’essenza) e delle chimere (cose impossibili per essenza). — Possibile invece è quella cosa che, considerata rispetto alla necessità empirica, ci appare (per difetto della nostra conoscenza) come non collegata con l’azione della sua causa, sì che non sappiamo se questa debba necessariamente produrla o non produrla. Si cfr. Cog. met., I, 3.
Def. 5. Per passioni contrarie intendo quelle che traggono gli uomini in sensi diversi, sebbene siano della stessa specie, come la lussuria e l’avarizia, che sono specie dell’amore, e quindi sono contrarie non per natura, ma per accidente.
Sebbene possa avvenire che l’uomo avaro, ambizioso o timido si astenga dall’eccessivo cibo, dal bere e dalle donne, non perciò tuttavia l’avarizia, l’ambizione e la timidità sono contrarie alla dissolutezza, all’ebrietà ed alla libidine. Perchè l’avaro per lo più desidererebbe riempirsi il ventre mangiando e bevendo dell’altrui: l’ambizioso, purchè speri farlo di nascosto, non si modererà in alcuna cosa e se vivrà tra ebbri e libidinosi, appunto perchè è ambizioso, sarà anche più proclive a tali vizi. (Et., III, def. 48, esplic.).
Def. 6. Che cosa intenda per passione relativa a cosa futura, presente o passata, l’ho spiegato nella parte III, prop. 18, scol. 1 e 2, a cui rimando.
Si cfr. parte terza, IV, 4, A). Spinoza qui solo aggiunge che, nella distanza così di tempo come di luogo, ad un certo punto cessa ogni graduazione e gli oggetti si dispongono come in un piano solo.
Def. 7. Per fine del nostro agire intendo il desiderio (appetitus).
Anche questo punto è stato chiarito nella introduzione.
Def. 8. Per virtù e potenza intendo la stessa cosa: cioè (per la prop. 7 della parte III) la virtù, riferita all’uomo, è la stessa essenza o natura dell’uomo, in quanto ha il potere di agire in modo che le operazioni sue possano venir intese per le sole leggi della sua natura.
La virtù, l’ideale, è per l’uomo, come essere empirico, la realtà pura e perfetta della sua essenza, la natura sua intelligibile; questo fine rappresenta nel tempo stesso il massimo della potenza dell’essere ossia quello stato nel quale esso esplica liberamente la sua attività, nel seno di Dio, secondo le leggi della sua natura, senza essere passivo in alcun punto, senza essere contrariato o sopraffatto da azioni estranee: ciò che avviene in quanto è unito perfettamente con tutte le cose in Dio. I gradi diversi di potenza o di perfezione nell’uomo, come essere empirico, sono i gradi di approssimazione del suo essere illusorio ed empirico a questa essenza perfetta. La potenza in senso materiale non è che un primo grado di questa potenza che è una cosa sola con la virtù.
2) Assioma. Non vi è nella natura delle cose alcuna cosa singola, di cui non ve ne sia altra più potente e più forte. Qualunque cosa data ne ha sempre sopra di sè altre più potenti, dalle quali può essere distrutta.
La realtà empirica è infinita nel senso che nessun limite dato in essa è possibile. Noi non possiamo pensare in essa cosa alcuna, di cui non possiamo pensare altro maggiore: perciò nulla di ciò che empiricamente esiste può sperare di raggiungere uno stato di stabilità perfetta: tutto è inesorabilmente travolto nella distruzione dalle forze sterminate della natura.