Elegie romane/IV/Felicem Nioben!

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IV IV - Ave, Roma
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“FELICEM NIOBEN!„

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Triste e pensoso, l’ombre cadendo, su ’l getico lido
     2sta Publio Ovidio. Innanzi urla il feroce mare.

Chino biancheggia il capo cui cinser gli Amori corone:
     4pendon su lui la grande ira d’Augusto e il fato

ferreo, che la lunga querela non odono. Il pianto
     6inutilmente riga le tomitane arene.

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Inutilmente, ancora, da Cesare nume benigno
     8l’esule attende un ramo de la pacata oliva.

Già sopra sta l’inerte vecchiezza; la ruga senile
     10ara già il volto. Attende egli la morte, e chiama.

Flebile il carme sale per cieli immiti ove i dardi
     12fischiano che di lungi scaglia il bracato Geta.

— Niobe felice, se ben tante vide sciagure;
     14che, fatta pietra, il senso perse del male. E voi

voi pur felici, cui le bocche chiamanti il fratello
     16chiuse di novo cortice il pioppo. Io sono,

io son colui che mai sarà confinato in un tronco,
     18io son colui che in vano essere pietra vuole. —

Cadono l’ombre, s’addensano gelide; il mare
     20ulula; il vento reca strepito d’armi. Oh Roma.

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Roma! Oh su’ colli piniferi aureo tepente
     22vespero e ne’ rigati orti da l’acque nove

murmure che sopiva la cura e lungh’essi gli insigni
     24portici riso de l’amica giovine!