Edgar Poe/Parte undicesima
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Come nelle migliori novelle, così nelle poesie di Edgar Poe il vero protagonista è sempre lui. Anche qui, nella lirica, domina la grande nevrosi, col suo strascico d’incubi e di terrori. E, accanto al poeta ossessionato e allucinato dallo spetro della morte, riappaiono le evanescenti figure delle sue eroine predilette, di quelle donne che, pur chiamandosi con i diversi e armoniosi nomi di Ligeia, Berenice, Ulalume, Lenora, Annabel Lee, riproducono sempre un’unica donna illuminata dal più puro amore e idealizzata dall’inesorabile morte. Poe lirico deve esser collocato a fianco di Leopardi, poichè entrambi hanno cantato, come nessun altro, il dolore senza speranza e lacrimato con spasimo uguale per la misteriosa legge, che dà profondità all’amore solo a traverso la morte.
L’amore, sulla terra, è impossibile, piange Poe nella lirica Annabel Lee, inspirata dal ricordo di Virginia, la sororale sposa scomparsa: è impossibile, poichè gli stessi angeli del cielo, invidiosi di questa felicità umana, si affrettano a troncarla:
" Or sono molti e molti anni
- in un reame accanto al mare -
una fanciulla viveva,
che forse voi conoscete,
di nome Annabel Lee;
e la fanciulla viveva
con quest’unica sete
di amare
e d’essere amata da me.
Bimbi eravamo in quegli anni
- e in quel reame accanto al mare -
ma ci amavamo di un bene
ch’era assai più dell’amore,
io ed Annabel Lee;
era tanto questo bene
che agli angeli fè il cuore
tremare
d’invidia per essa e per me.
Ecco perchè, or son tanti anni,
- in quel reame accanto al mare -
una nube alitò un vento
gelido per la mia bella
mia bella Annabel Lee;
e chiuso fu il corpo spento
nella tomba più bella
sul mare,
lontano lontano da me".
Ma se la felicità non può esser raggiunta in vita, la morte deve apparire come una liberazione dal dolore. Questo è, appunto, il motivo lirico del poemetto Per Annie, che preannuncia I fiori del male di Baudelaire e si scioglie come un inno di gratitudine perchè la crisi, la febbre chiamata Vita, è scomparsa.
Ma la vita e la morte sono i due personaggi di un’immane tragedia: e dal loro cozzo nasce l’orrore. Ed ecco la raffigurazione di questa tragedia nel poema Il verme conquistatore. Ed ecco, infine, la lirica della disperazione, che non conosce tregua nè parola consolatrice: Ulalume, pellegrinaggio del poeta verso una vaga luce nebulosa, troncato dalla fredda sagoma d’un sepolcro su cui appare inciso, irrevocabile sentenza di dolore eterno, il nome della morta benamata Ulalume. Ed ecco il poema più famoso fra tutti: Il corvo. Qui, Poe si trova faccia a faccia col proprio destino: e il destino è nero corvo che, appollaiato sovra il bianco busto di Pallade, diffonde, nella silenziosa stanza, un’ombra sempre più ampia. I dolori e i desiderii, le speranze e i ricordi parlan con le labbra del poeta, rivolgendo all’uccello infausto l’eterna domanda. Dolori e desiderii avran quiete? E i ricordi potranno trarre conforto dalle speranze? E Lenora, l’amatissima, che riassumeva in sè ogni luce e, morendo, lasciò dietro di sè solo tenebre, rivivrà, in spirito o in carne, accanto all’uomo tormentato dalla solitudine? Ma il corvo risponde, con insistenza gelida: No, mai più! E ogni domanda cade nel vertiginoso abisso del nulla. E l’ombra del corvo si distende sovra tutta la stanza, come la disperazione sull’anima dei poeta.
Il corvo e le migliori poesie di Edgar Poe rappresentano vibrazioni di sensibilità, stati dello spirito, che si manifestano con le parole, ma togliendo a queste ogni peso di materia e aereandole sino a farle divenire lievi come suoni d’arpa. Così, per i colori, l’arcobaleno o un alone lunare, se confrontati con la massiccia fonte luminosa, dalla quale provengono. Lirica, che suggerisce senza spiegare e che, rifuggendo dal definitivo e dal descrittivo, adoprando l’immagine come un semplice ponticello gettato di tempo in tempo fra il sogno e la realtà, s’intesse solo di sfumature e di moti intimi e di musicalità, che è, pur essa, sensibilità. Delirio ebro, simile, per qualche aspetto, al delirio dell’uomo che, fermo sotto una nicchia, ove un mite volto di madonnina di pietra s’anima lievemente roseo al fievol barlume di una pia lanternina, parli e gestisca in un soliloquio altrui incomprensibile. L’uomo è fermo, ma parla veemente, in tòno ora aspro ora ironico, e gestisce violento, manifestando ora sprezzo ora collera. Magnifico d’orgoglio, afferma la propria personalità di fronte alla statuetta di pietra: ma anche di fronte alla notte e al cielo e al mondo creato e al Creatore. Non c’è, forse, entro di lui, tutto un mondo? Non è forse, egli stesso, un Iddio? Inebriato della propria forza, l’uomo attinge da questa l’audacia per ingigantire sino a riempir di sè l’universo. Ed è sublime e grottesco ad un tempo: ma non s’accorge d’esser sublime, e non si preoccupa di apparire grottesco. Sembra intieramente accaparrato dal colloquio con la silenziosa madonnina; eppure, se un’ala di pipistrello gli sfiori la guancia o un alito di brezza s’insinui a giocare tra i ciuffi dei suoi capelli scompigliati, sobbalza e guata bieco d’attorno e a volte urla di terrore come se avesse sentito il freddo fiato della morte. La sua impressionabilità è grande, infatti, al pari della sua personalità: l’una gli riempie il cuore d’ombre, l’altra gli riempie l’anima di luce.
Ma guai s’egli riprenda a camminare. Il suo passo vacillante rivela, subito, che la personalità era artificiosa e che l’impressionabilità era dovuta al demoniaco influsso dell’alcool.
E, tuttavia, quell’ubriaco avrebbe potuto proclamarsi fratello, almeno per un momento, del poeta lirico puro. Altri elementi concorrono a inspirare la tragedia e la tragicommedia, ma due soli bastana per la lirica: personalità e impressionabilità. Effetto dell’ebrezza nell’uomo alcoolizzato, questa sensibilità, spontanea in un temperamento di poeta, si nobilita divenendo, a sua volta, causa di una ebrezza maggiore e migliore: della ebrezza, piena d’ombre e di luci, che sfocia appunto nell’oceano, or cupo ora fosforescente, del lirismo. Ma nella voce rauca dell’ubriaco, per chi porga attento orecchio, si odon passare a ondate, malinconica parodia, le gioiose sonorità e i disperati singhiozzi del poeta.
Delicato strumento, barometro spirituale foggiato per registrare i più lievi mutamenti, il poeta lirico accoglie e incanala nella propria personalità il continuo afflusso delle impressioni esteriori come la montagna accoglie le gocce dell’acqua piovana per avviarle, in gorgoglianti rivoletti, verso lo scroscio del fiume. Si chiamava, ieri, Catullo: e cantava i sensuali amori e la purpurea vita di Roma dominatrice; si chiamava Rudel, e cercava turbolento di ghermire la maggior avventura fra il tumulto di un’epoca ricca d’avventure; si chiamava De Musset, e tuffava la propria inquietudine nel gorgo di una generazione inquietissima.
Poe era, anch’egli, un lirico. Ma era, anche, l’esule che guarda trasognato le sterili contrade offerte alla sua sete; era il pellegrino che, a piedi nudi, percorre un terreno irto di sassi; era l’orestiade, che fugge ululando, inseguito dalle furie del dubbio.
Triste destino, oggi, nascer poeti! L’umanità, straripando, immane fiumana, dagli argini, che la sorte le aveva costruiti, infuria contro tutto ciò, che le sembri d’impaccio al cammino, e travolge con folle gioia ogni opera d’arte, ogni segno di bellezza. Livellatrice feroce, essa scaglia le proprie onde contro ogni cosa, che emerga, e sghignazza sguaiata a ogni crollo. Ma, forse, sa d’infuriare contro sè stessa. Forse, in questa spietata distruzione dei valori, in questa corsa sfrenata verso la volgarità, c’è la febbre alta, la febbre della crisi, che segna il trapasso alla morte o il ritorno alla vita. E la lucida falce, che lavora incessantemente a eguagliare le anime, è, forse, la falce che abbatte l’erba perchè, nella nuova stagione, cresca più rigogliosa.
Ma, intanto, il poeta trema udendo giungere, sempre più vicino, sempre più minaccioso, il mugghio dell’acque. Ardito è il suo piede: e potrebbe aiutarlo a scalare vette infranabili, a salvarsi dalla ruina. Ma è un piede chiuso entro una scarpa fabbricata da uomini frettolosi: scarpa dozzinale, che si spacca se tu la costringi a salire.
Come poteva questa umanità, l’umanità moderna, comprendere l’ebro delirio del poeta? Solitario visse, dunque, Edgar Poe: tra grandi sogni. Ma, sebbene il suo temperamento di romantico lo spingesse a disincagliarsi da ogni tradizione e da ogni dogma, la sua raffinata natura di artista lo ricondusse sempre entro i confini della poesia pura che è, essenzialmente, armonia. Isolato nel mondo, egli fu e seppe rimanere un solitario, anche in arte. Per questo, la letteratura americana e il popolo degli Stati Uniti, così rifuggenti, l’una e l’altro, da ogni raffinatezza, poterono avere l’imperial dono di una lirica aristocraticamente eccezionale. Ma per questo, anche, la lirica di Poe è intraducibile. Il paziente bulino di Mallarmé ne rese, in parte, la squisita musicalità; l’intuitivo genio di Baudelaire ne riprodusse, in parte, l’intimo brivido. Ma nessuna versione rispecchia l’ebro delirio del poeta, che definiva la poesia come una ritmica creazione della bellezza e dichiarava il ritmo e la musica unici mezzi, a traverso i quali si possan provare le gioie estatiche di un mondo superiore a quello terreno.
Più tardi, il concetto di una sensibilità lirica espressa nei modi più impalpabili e inafferrabili sarà ripreso da Verlaine e formulato definitivamente nel verso
"De la musique avant toute chose".
Ma quanti anni dovevan trascorrere prima che il sublime poeta di La dormiente fosse proclamato principe della Lirica. E quanti più ne sarebbero occorsi se, a toglier Poe dalla bolgia dei poeti maledetti, non fosse intervenuto un altro scrittore di genio: Baudelaire!
E come incompleta e monca sarebbe la biografia dell’uno, se non parlassimo dell’altro: di colui che, sventurato e sublime del pari, dimenticò i propri crucci e nobilmente umiliò il proprio ingegno per tradurre e rivelare al mondo l’opera del maggior fratello nel tempo!