Edgar Poe/Parte dodicesima
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Nove aprile 1821: data formidabile. Il poeta della nuova Odissea nasce, mentre l’eroe della nuova Iliade si prepara, sovra un lontano scoglio, a morire. Il vasto tumulto epico, nel quale gli uomini eran stati tuffati dall’imperial cenno di Napoleone, dovea lasciare negli uomini, spegnendosi, il senso di stordimento pauroso, che segue lo scoppio della folgore. Ed è, appunto, questa sensazione di vuoto che, suscitando il desiderio di donar nuova ala a una vita smarrita fra tenebrori stanchi e scorati, crea i grandi pellegrini del mondo esterno e del mondo interiore Ulisse e Baudelaire. L’uno e l’altro inseguon sè stessi, fra le tempeste oceaniche o spirituali; l’uno e l’altro, dopo aver posto il desiderio a contatto con la realtà, intima o esterna, vagheggiano, per le lor delusioni di navigatori, un medesimo approdo: l’approdo in un mondo senza gente. E l’uno e l’altro appaiono come i supremi rappresentanti della disperata irrequietudine, dello stremante dubbio e dei delirii nostalgici, che s’abbatton sovra l’umanità quando l’anima sobbalzi fra le strettoie dell’involucro corporeo e l’esistenza sognata cozzi contro l’esistenza vissuta. L’eroe greco e il poeta parigino esprimono un uguale tormento: e la febbrile energia di Ulisse è solo in apparenza diversa dall’allucinata pigrizia di Carlo Baudelaire.
Pigro, sì, fu Baudelaire: pigro come tutti gli artisti, che racchiudono nel lor cranio un mondo più ampio di quello esteriore. La visione del di fuori giova agli interpreti, non ai creatori; è necessaria a chi, semplice specchio più o meno terso, più o meno sfolgorante di luce, compia una missione di osservatore e di descrittore, non a chi possieda entro di sè, Minerva balzante su al cenno olimpico, un intiero universo. Gli artisti sublimi non han bisogno di navigare tra i confini del mondo poichè la lor anima già ospita un mondo senza confini. Per questo, appunto, essi vivon silenziosi e incompresi fra gli uomini, e per questo, ahimè, cercan così spesso di sfuggire all’incubo atroce della lor solitudine e di accomunarsi con la rimanente umanità adottandone i vizi propinatori di un’ebrezza obliosa.
Glorioso e tremendo destino! Una stessa radice fa rampollare la forza, che permette a un Baudelaire e ad un Poe di esprimere, pur trascorrendo l’esistenza nel cupo monotono mondo delle città, le più luminose e varie e vaste visioni, e genera la debolezza, che all’uno dovea procurar la paralisi e all’altro il delirium tremens. Ma la mediocrità e la malignità, feroci abitudinarie beghine, condannan lo scrittore di genio ad attendere che la Morte e il Tempo, cancellando i difetti e avvezzando l’orecchio umano alle nuove voci dell’arte, assolvan l’uomo e rendan sacro il poeta. Edgar Poe ebbe, in vita, ben scarsi ammiratori. E il borioso Hugo e il garbato Lamartine e Sainte-Beuve paternamente bonario sarebber scoppiati dalle risa se qualcuno avesse lor parlato di un Carlo Baudelaire immortale. Ah, miserie! Colui, che al proprio legittimo orgoglio aveva offerta la formula conclusiva "Essere l’uomo più grande e dirselo in ogni momento", dovea, sul limitare tra la vita e la morte, guardar con occhio tetro il bilancio di un passato senza luce e, con un lungo sordo disperato singhiozzo, entrar nel regno dell’Ombre.
I fiori del male, le Lettere alla madre e Lo spleen di Parigi sono, anch’essi, un lungo sordo disperato singhiozzo. La nuova umanità, che s’affaccia sugli orizzonti ancor arrossati dalla vampa delle rivoluzioni e delle guerre, possiede una sensibilità acutizzata dal violento trapasso storico e dall’irrompere di desiderii, sino a ieri ignorati. Per placarla, bisognerebbe che il fuso ardente metallo di questi desiderii colasse senza ostacoli nello scabro stampo della realtà. Ma ad un desiderio più elevato corrisponde sempre una più bassa realtà: e dal contrasto fra l’ideale e il reale nascono, irrimediabilmente, l’esasperazione e l’angoscia. Il magnifico lirismo dei Fiori del male, con la sua sonora musicalità e il robusto inesauribil sentimento inspiratore, non è solo una manifestazione d’arte perfetta: è, anche, la profonda echeggiante voce del nuovo cruccio. Lirico puro, Baudelaire non conobbe i tragici squassi di Poe e di Villiers de l’Isle-Adam, nè potè trarre dai tempi rinnovati l’ampia satira della Discussione con una mummia o di Tribolato Bonomo. Ma le armoniose corde della sua arte, percosse dagli uragani sessuali, donarono agli uomini la più ricca e più straziante sinfonia dell’amore.
Oh, badiamo! Il blando amore-capriccio, infiorato di sorrisi, e il brusco amore-passione, imbevuto di lagrime, non hanno nulla in comune con l’amore nostalgico, che impregna di sè l’opera baudelairiana. Il poeta della sensibilità soffre non per la donna in genere nè per una donna ben determinata, ma perchè sa che l’ideale femminile è irrevocabilmente condannato ad infrangersi contro gli scogli della femminile realtà. Per questo, e soltanto per questo, egli chiede alle creature più lascive di elargirgli, tra le fantasmagorie e i sussulti tetanici del sensuale delirio, i sogni oppiati dell’illusione. Per questo, e soltanto per questo, il poeta, attingendo nella carnale realtà un lenimento per il suo idealismo incurabile, accoglie come supreme dispensatrici di gioia la vagabonda rossigna e l’ebrea prostituta e Giovanna Duval, insaziata e insaziabil regina di lussuria, e oppone un nauseato disdegno all’amore normale, offerto da Aglae Sabatier, la bellissima.
"Pellegrino cupo e solitario, frammisto all’onda della folla irrequieta", Carlo Baudelaire, pur barcollando sotto la croce dell’umano dolore, ha pronunciata, per i suoi fratelli spersi nel tempo e nello spazio, la parola divina e rincuoratrice: "Le cose terrene esistono appena: la vera realtà è soltanto nei sogni".