Edgar Poe/Parte sesta
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La mediocrità, se ben si osservi, è, in fondo, apollinea: non vuole contorsioni nè sbalzi nè squilibrii. Per questo, trova solo nell’arte apollinea un valore facilmente ravvisabile e non ostico, anzi degno di un rapido consenso. Ed ha, con gli artisti apollinei, un magnifico punto di contatto: l’invidia. Oh, il livore del bellissimo Iddio greco verso il trasandato rivale! E che triste condanna, quella pronunciata da Apollo vincitore contro il vinto Marsia! Se la sfida di Marsia fosse apparsa, alla prova, il frutto di una presuntuosa vuotaggine, egli avrebbe ottenuto, certo, compatimento e serbata intatta la pelle. Ma Apollo dovè intuire nel competitore una forza, cui il tempo avrebbe donato ala e ampio volo. E il poeta invido scagliò la sentenza.
Amara sentenza, nella quale si rispecchia l’eterno dissidio fra due opposti temperamenti. Nè tanto doveva cuocere a Marsia di sentirsi scuoiato, quanto di vedere il tronfio avversario assistere, con un disdegnoso sorriso, al supplizio. E indubbiamente, se le pene del corpo non avesser tramortita l’anima, egli avrebbe rivolte al crudele Immortale parole immortali. "Oggi tu vinci, o Apollo", avrebbe detto "ma, domani, anch’io trionferò nella memoria degli uomini. La tua tunica linda e la tua mente serena e la tua vita e la tua arte, armoniche del pari, modellate del pari secondo i dettami di una legge di ben composto equilibrio, cui gli eccessi e gli scuotimenti e le depressioni e le esaltazioni ripugnino e piaccian solo le acque scorrenti chiare e musicali tra fioriti e ben definiti argini, tutto ciò, insomma, che ti rende apollineo, ha dato un ancor più intollerabil risalto alle mie vesti trascurate e al mio tumultuoso ingegno e alla mia esistenza e alla mia arte ugualmente prive di freno, di limitazioni e di serenità. E gli uomini che, amando la compostezza e la proporzione, odiano quasi con furore gli sregolamenti e gli squassi, hanno decretata a te, apollineo, la gloria e a me, dionisiaco, il martirio. Ma se tu vinci nella vita, io vincerò nella morte".
Questo avrebbe detto Marsia. E avrebbe, forse, soggiunto: "Che vale, o bellissimo Iddio, il plauso del volgo? Perchè costringere i nostri desiderii e i nostri amori e dolori entro gli angusti confini delle costumanze ammesse o tollerate? Perchè, a evitare le piccole noie, procurate dalla moltitudine se alcuno la offenda nelle sue consuetudini mentali o carnali, rinuncieremmo alle grandi gioie dello spirito e della carne? Non sei, tu, un immortale? Perchè, dunque, il giudizio dei mortali ti preme a tal punto da costringerti a imitarli negli atteggiamenti calmi e nei modi corretti e nei moti ben regolati onde sopraffare me, dionisiaco irruento e ribelle, e importi alla loro ammirazione? Ma ecco ch’io, morendo, ti raggiungo. Ecco che tu, donandomi la morte, mi schiudi la gloria".
E forse Apollo, se Marsia avesse parlato, si sarebbe raccolto, pallido, in una meditazione assillata dal dubbio. Ma nessuna parola fu pronunciata. E Apollo e Diòniso continuano a guardarsi in cagnesco. Antagonismo buffo: e, tuttavia, irrimediabile. Come potrebbero, i dionisiaci discendenti di Marsia, ottener venia agli occhi di Apollo e dell’apollineo mondo dei mediocri? Non infrangono, essi, di continuo la legge che, emanata appunto dal Dio greco, regola questo mondo mediocre? L’ira e la tristezza sono le compagne del loro spirito; l’audacia e la foga straviziatrice sono le guide del loro corpo. Passano, silenziosi e orgogliosi, tra le genti chiacchieratrici e subdolamente modeste: e il loro orgoglio suscita l’altrui livore; e la loro taciturnità dolorosa o pensosa offende la vacua allegra loquacità. Passano, di furia, cercando di raggiungere la formidabil chimera della gloria, di avvinghiarla, di soggiogarla con la gagliarda impetuosità del lor temperamento, che non conosce imbarazzi di usi e di mode e di convenienze nè legami di scuole.
Ma la gloria, regal femmina, vuol sedurre e non esser sedotta: perciò, contende ai dionisiaci il bacio, da lei stessa offerto, con spontaneità, agli apollinei. Come non darle ragione? Come dar torto a una donna bella e sensuale, che l’ebro vagabondo irrida e prescelga, per il proprio giaciglio, l’uomo apollineo armato d’ogni grazia e d’ogni dolcezza? E come potrebbe, il mediocre mondo, non consentire in questa scelta e non piegarsi, al pari della donna, innanzi a chi rappresenti, quintessenziate, le virtù idolatrate dal mondo? S’erge, dunque, l’apollineo, a incarnare l’assioma "La virtù sta nel mezzo". In arte, egli crea con Petrarca rime musicali e squisite o svolge con l’Ariosto dilettevoli trame, ghiotto pasto per i buongustai, o costruisce con Manzoni architetture ben equilibrate nella materia e nello stile, nello svolgimento delle linee e nella distribuzione degli ornati. Non conosce i sobbalzi e gli ardori di Dante o del Tasso o di Foscolo o di Edgar Poe: ma, appunto perchè rifugge dalle passioni violente, è più amato da un’umanità schiva e priva di passioni violente. Nella vita, poi, l’apollineo è specchio d’ogni perfezione. Lungi dall’abbandonarsi ai focosi stimoli dei sensi e dell’anima, con saggia pacatezza e con ferreo volere li guida e li tempera, incanalando ogni pensiero e ogni azione fra le dighe, elevate dalla mediocrità per difesa di sè stessa contro ogni rischioso eccesso, contro ogni tentazione sovvertitrice. E la mediocrità, ravvisando nell’apollineo le virtù, da lei predilette, prontamente gli incorona di lauro la fronte.
E tuttavia, anche i dionisiaci, spento con la morte lo scandalo della vita e ottenuta venia, col tempo, per le arditezze e la possente originalità dell’arte, strappano il plauso a coloro stessi che, esterrefatti spettatori dello scandalo e tardi apprezzatori dell’originalità, li avean considerati, per l’addietro, come lebbrosi. No, i dionisiaci non sono lebbrosi. Ed hanno, in fondo, un solo torto: di non esser mai contemporanei.
Il dionisiaco poeta non vive mai all’epoca giusta. Eppure, quasi sempre, è l’uomo più rappresentativo della sua epoca. Anche Poe, nato da una razza amalgamata e, tuttavia, intenta a foggiarsi i caratteri di una stirpe nuova, fu senza volerlo e senza saperlo, per una feroce ironia del destino, l’uomo più rappresentativo di quella medesima folla, da cui era ignorato o spregiato. Ma non il popolo d’emigranti, raccolto nei vasti confini degli Stati Uniti d’America e ancor sbalordito per il brusco distacco dalle antiche origini e dalla madre patria, riuscì a scorgere nel poeta maledetto le qualità essenziali della stirpe in formazione: e neppure si avvider di ciò i biografi, fosser essi acrimoniosi cronisti come Rufus W. Griswold o entusiasti poeti come Baudelaire. E, tuttavia, le bizzarre caratteristiche di quel popolo giovane e vecchio ad un tempo appaion così nitide e definitive nell’opera letteraria di Poe, da sembrar come segni di fuoco, tracciati a dirigere i primi passi di una razza verso le ultime mète. Bizzarre caratteristiche: ed armi ben foggiate per la vittoria. La mistificazione, rendendo gli uomini attoniti, non li induce forse, meglio di qualunque altro richiamo, a volger gli occhi e gli animi verso il mistificatore? E il paradosso non è il colpo d’ala, che fa raggiungere fulmineamente, nella vita e nell’arte, le vette più inaccessibili? E il canard e il bluff e tutto ciò, insomma, che nel linguaggio comune si chiama "americanata", non rappresentarono, forse, un elemento essenziale sia della rapida ascesa degli Stati Uniti sia dell’arte di Poe? Col volger dei tempi, ottenuta la vittoria e placati, quindi, gli stimoli, la mistificazione e il paradosso si trasformarono da strumenti istintivi in strumenti ragionati, sino a divenire una formula, nella vita pratica come in letteratura: formula drammatica con Francis Bret-Harte, comica con Mark Twain. Ma Edgar Poe viveva agli albori della civiltà americana e, creando un’opera, nella quale si rispecchiavano forze ancor tumultuanti e primitive, dovea lasciare che queste si sviluppassero non fra i calcolati argini del dramma o della commedia, bensì oltre ogni strettoia, con epica ampiezza.