Edgar Poe/Parte seconda
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Una comitiva di attori passa, peregrinando di città in città, a traverso gli Stati Uniti d’America. Sono, quelli, gli anni febbrili, in cui un popolo di emigranti e di avventurieri tenta i primi sforzi per imporsi, come una giovine stirpe, alla vecchia Europa. Sul nuovo carro di Tespi, fra gli smunti e tetri compagni, dominan le grazie e trabocca la vivacità di una donna. Al suo fianco sta il marito, David Poe, che rinunciò alla monotona esistenza borghese per divenire un randagio commediante e apportare, nel branco istrionico, la propria melanconica fierezza e un nome, reso illustre dal padre nella guerra per l’indipendenza americana.
Festose accoglienze ha, dovunque, l’attrice. Ma quanta miseria, nella cameretta di Boston, ov’essa, il 19 gennaio 1809, dà alla luce Edgar Poe! Spossata dalle grandi interpretazioni shakespeariane, troppo grevi per la sua fragilità fisica, e dalle studiose vigilie e dalle attese pavide e dalla fugacità dei trionfi e dal perdurare degli stenti, la giovane donna vivrà ancora due anni soltanto: e a lei il marito, etico, sopravviverà solo per pochi giorni.
Tre bimbi rimangono, privi d’ogni aiuto: e si spegnerebbero anch’essi, nell’inedia e nell’abbandono, se qualche pietoso non intervenisse a raccoglierli e ad ospitarli. Il maggiore d’età, William, dotato di forte ingegno e di accesa fantasia, avrà un’esistenza turbolenta ed avventurosissima, che lo sbalestrerà in ogni parte d’Europa, ma lo farà morire, prematuramente, a ventitre anni. L’ultima, Rosalia, vivrà invece a lungo: fra le penombre e le nebbie di un’ottusità mentale inguaribile. Il secondo, Edgar, soccorso dalla dolce bontà di una donna, è adottato come figlio dal marito di questa, Allan, proprietario di un umil negozio di tabacchi, a Richmond. Cresce, il fanciullo, fra tenere cure e vezzeggiamenti: ma non tarda a mostrar chiaro precoce segno dei proprio cupo destino. Sin da quei primi anni, di fatti, egli ospita, nel fondo dell’anima, il germe della sensibilità e della melanconia, che dovran, poi, stimolarlo alla contemplazione lirica dell’amore e della morte, uniti l’uno all’altra indissolubilmente, e renderlo uguale a Leopardi nell’inspirazione funerea e nel disperato dolore. Una carezza femminea casta e lieve, sfiorando la ricciuta chioma del fanciullo, basta per svegliare la sua impressionabilità e per rivelargli la sorte che, fra le tenebre del futuro, lo attende. Ma la donna, che diede alimento al precoce amore, scende presto Ombra fra ombre. E sul suo sepolcro Edgar si abbandona, ogni notte, agli evanescenti sogni, intessuti di tristezza e di spiritualità, che, più tardi, suggeriranno al poeta La dormiente e Ulalume.
Cresce, egli: ma bizzarro ed eccentrico. E i dileggi dei compagni di studii verso il taciturno permaloso scolaro aumentano la sua irritabilità naturale; e il brusco scioglimento dell’idillio con Sarah Elmira Royster, maritata quasi bimba, dalla sollecita preoccupazione paterna, a un bonomo qualunque, acuisce la sua melanconia.
Dopo aver evitato, per miracolo, un fallimento, Allan, negoziante di tabacchi, eredita d’improvviso i milioni di uno zio. Edgar, a quell’epoca, ha sedici anni: e può, inscrivendosi studente nell’Università di Charlottesville, in Virginia, guardar con occhio sereno un avvenire, che sembrerebbe sgombro di nubi. Sembrerebbe: non è. L’orgoglio di Edgar, di fronte alle incomprensioni maligne degli altri allievi, assume rapidamente le forme di un muto disdegno e gli crea, d’attorno, la solitudine e spinge inesorabilmente la sua tristezza amara a volgersi, onde ottener momentaneo sollievo, verso il subdolo fascinatore Lete del giuoco e dell’alcool. La tragedia di Poe ha inizio in quei giorni, poichè in quei giorni, appunto, egli comincia a conoscere le lenitrici gioie dell’ebrezza.
Beve, sì: ma da barbaro. Così disse, con profonda intuizione di poeta, Carlo Baudelaire. Melanconico per temperamento, privo della divina facoltà della risata ampia e chiara, pronto solo al sorriso dell’umorismo ed agli sghignazzamenti della satira, che sono ancor più dolorosi delle lacrime, Edgar beve in un modo particolare: non come un volgar uomo, cui il vino e i liquori piacciano di per sè stessi, poichè graditi al palato, bensì per gli effetti dell’alcool, che hanno la virtù di alleviare dalle oppressioni della tristezza, dall’incubo delle fantasticherie solitarie, e di aprir l’anima a un respiro, sia pur effimero, di gaiezza libera da ogni peso di ricordi. I bevitori comuni giudican l’alcool un fine, per i varii sapori con cui esso soddisfa il senso del gusto, non un semplice mezzo per cadere temporaneamente a livello degli altri uomini e partecipar, quindi, della lor sciocca, ma riconfortatrice, allegria. I poeti come Poe, invece, devon vincere un’istintiva ripugnanza per accostar le labbra al bicchiere. E bevon da barbari, tracannando il liquido d’un fiato, senza assaporarlo, onde provarne con maggior rapidità gli effetti infernalmente benefici e raggiunger più presto, nell’ebrezza, l’oblio di sè stessi.
Così, Edgar. E un compagno di Università testimonia: "Non era attratto dal sapore del liquido; ma s’impadroniva del bicchiere e, senza neppur sfiorarne con le labbra il contenuto, in un solo sorso lo vuotava."
Gli scienziati, irrimediabilmente incapaci di addentrarsi nell’anima degli artisti, hanno foggiata una grossa parola: dipsomania; e, appeso questo cartellino al nuovo albero, scoperto nella flora dei vizi dell’umanità, sono andati a dormire contenti come pasque. La dipsomania, essi affermano pomposamente, è ereditaria: quindi, istintiva. O beatissimi voi, poichè ignorate che il bevitore per istinto si trova esattamente agli antipodi del poeta che beve! L’uno facile e lieto avvicina le labbra alla coppa; ma quale penoso sforzo deve compiere l’altro e con quanta gratitudine accoglierebbe chi, iniettandogli nelle vene una sostanza oggi ignota, lo immergesse nell’obliosa letizia prodotta dall’alcool! È questo stesso brivido di raccapriccio di fronte al grossolano succo della vite, è un’uguale trepida speranza, che induce il poeta a tentare altri paradisi artificiali: l’oppio, per esempio. Come indusse Edgar Poe.
Aggiungono, gli scienziati, che il dipsomane è, quasi sempre, sin da fanciullo, un melanconico. O beatissimi voi, poichè non avete saputo, rovesciando i termini, coglier la verità! L’uomo che beve per istinto, il vostro dipsomane, insomma, è, quasi sempre, una faceta persona innamorata dei lazzi sgorganti, tra rosse schiume, dalla stappata bottiglia. Ma il fanciullo melanconico diverrà, domani, un bevitore, non per un imperioso pungolo dell’istinto. Diverrà un bevitore se la sua melanconia di poeta, derivante da una raffinata ed esasperata sensibilità, gli additerà un sol mezzo per abbandonare, di quando in quando, la greve armatura della tristezza: l’alcool.