Donna Mimma/2. Donna Mimma studia

§ 2. Donna Mimma studia

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§ 2.

DONNA MIMMA STUDIA

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Palermo. Vi arriva di sera Donna Mimma: piccola, nell’immensa piazza della stazione.

Oh Gesù, lune? che sono? Venti, trenta attorno. È una piazza? Che grandezza! Ma per dove?

— Di qua, di qua! —

Fra tutti quei palazzi, incubi d’ombre gigantesche straforate da lumi, accecata da tanto rimescolio sotto, di sbarbagli, e sopra da tanti strisci luminosi, file, collane di lampade per vie lunghe diritte senza fine, tra il tramestìo di gente che le balza di qua, di là, improvvisa, nemica, e il fracasso che da ogni parte la investe, assordante, di vetture che scappano precipitose, non avverte, in quello stupore rotto da continui sgomenti, se non la violenza da cui dentro è tenuta e a cui via via si strappa per cacciarsi a forza in quello scompiglio d’inferno, dopo l’intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua.

Gesù, la ferrovia! Montagne, pianure che si movevano, giravano, e scappavano, via con gli alberi, via con le case sparse ei paesi lontani; e di tratto in tratto l’urto violento d’un palo telegrafico; fischi, scossoni: lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l’altra; abbagli e accecamenti, vento e soffocazione in quella tempesta di strepiti, nel bujo.... Gesù! Gesù! [p. 20 modifica]

— Come dici? —

Non sente nulla, non sa più buttare i piedi, si tiene stretta accosto al nipote che l’accompagna — giovanotto, stendardo della casa — ah! padrone del mondo, lui, che può ridere e andar sicuro, pratico, chè c’è stato, lui, due anni militare qua a Palermo.

— Come dici? —

Sì, certo, la carrozza.... Che carrozza? Ah già, sì, la carrozza! Come entrare in città, come camminare per via con quel grosso fagotto di panni sotto il braccio fino alla locanda?

Guarda il fagotto: c’è lei lì dentro; e tutta vorrebbe esserci, in quella roba sua lì affagottata sotto il braccio del nipote, lei fatta di pezza e solo odore di panni, per non vedere e non sentire più nulla.

— Dàllo a me! Dallo a me! —

Vorrebbe tenercisi stretta a quei panni, per sentircisi meglio dentro; ma l’anima è fuori, qua allo sbaraglio di tante impressioni che la assaltano da tutte le parti. Risponde di sì, di sì, ma non capisce bene i cenni che il nipote le fa.

O Gesù mio, ma perchè domandare a lei? Come una creaturina nelle mani di lui, farà tutto quello che lui vorrà: sì, la carrozza; sì, la locanda, quella che lui vorrà! Per ora è come in un mare in tempesta, e prendere una carrozza è per lei come agguantare una barca; giungere alla locanda, come toccare la riva. Pensa con terrore, quando, di qui a tre giorni, il nipote ritornerà al paese, dopo averle trovato alloggio e pensione, come resterà lei qua in mezzo a questa babilonia, sola, sperduta. [p. 21 modifica]

Passando in carrozza diretti alla locanda, il nipote le propone d’andare a veder la fiera in Piazza Marina.

— La fiera? Che fiera? —

— La fiera dei Morti. —

Si fa la croce donna Mimma. Domani, i Morti, già.... Arriva la sera del primo novembre, a Palermo, vigilia dei Morti, lei che a Palermo c’è sempre venuta per comperare la vita! I Morti, già.... Ma i Morti sono la Befana per i bambini dell’isola: i giocattoli, a loro, non li porta la Vecchia Befana il sei di gennajo: li portano i Morti il due di novembre, che i grandi piangono e i piccoli fanno festa.

— Gente assai? —

Tanta, tanta, senza fine, che le carrozze non possono passare: tutti i babbi, tutte le mamme, nonne, zie, vanno alla Fiera dei Morti in Piazza Marina a comperare i giocattoli per i loro piccini. Le bambole? sì, le sorelline piccole. I pupi di zucchero? sì, i piccoli fratellini; quelli, quelli che lei, donna Mimma, alla fiera della Vita, nell’illusione dei bimbi del suo paese lontano, tant’anni è venuta a comperare qua a Palermo e a recar loro laggiù, con la lettiga d’avorio: giocattoli, ma veri, con occhi veri, vivi, manine vere, gracili, fredde, paonazze, serrate; e la boccuccia sbavata che piange.

Sì; ma ora gli occhi di donna Mimma, davanti allo spettacolo tumultuoso di quella fiera sono anche più meravigliati di quelli d’una bimba; e non può pensare donna Mimma che il sogno de’ suoi viaggi misteriosi, quale essa lo rappresentava ai bimbi del [p. 22 modifica]suo paese, ora qua, davanti alla fiera, diventa quasi una realtà. Non può pensarlo, non solo perchè tra le grida squarciate dei venditori davanti alle baracche illuminate da lampioncini multicolori, tra i sibili dei fischietti, gli scampanellii, i mille rumori della fiera e il pigia pigia della folla che seguita di continuo ad affluire nella piazza, lo stordimento le cresce e insieme la paura della grande città; ma anche perchè è lei qui ora la bimba a cui l’incanto è fatto.

E poi quell’aria da cui si sentiva avvolta nel suo paesello, aria di favola che la seguiva per le vie e nelle case in cui entrava, che induceva tutti, grandi e piccoli, a rispettarla, perchè dal mistero della nascita era lei quella che recava in ogni casa i bimbi nuovi, la vita nuova al vecchio decrepito paesello; qui ora quell’aria non l’ha più attorno. Spogliata crudelmente della sua parte, che cosa è adesso qui, in mezzo alla calca della fiera? una povera vecchietta meschina, stordita. L’han cacciata via dal sogno a infrangersi, a sparire qua in mezzo a questa realtà violenta; e non comprende più nulla, non sa più nè muoversi, nè parlare, nè guardare.

— Andiamo via.... andiamo via.... —

Dove? Fuori di qui, fuori di questa calca, facile andar via, con un po’ di pazienza, piano piano; ma poi? Dentro, da ritrovarsi come prima in sè, sicura, tranquilla, questo sarà difficile: ora alla locanda, domani alla scuola.

Alla scuola, quarantadue diavole, tutte con l’aria sfrontata di giovanotti in gonnella, su per giù come quella ragazzaccia piombata dal Continente nel suo [p. 23 modifica]paesello, le si fanno addosso, il primo giorno ch’ella comparisce tra loro col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle nero, frangiato e a pizzo, stretto modestamente attorno alla persona. Uh, ecco la nonna! ecco la vecchia mammana delle favole, piovuta dalla luna, che non osa mostrar le manine e tiene gli occhi bassi per pudore e parla ancora di comperare i bambini! La guardano, la toccano, come se non fosse vera, li davanti a loro.

— Donna Mimma? Donna Mimma come? Jèvola? Donna Mimma Jèvola? Quant’anni? Cinquantasei? Eh, picciottella per cominciare! Già mammana da trentacinque anni? E come? Fuori della legge? Come gliel’hanno potuto permettere? Ah, sì, la pratica? Che pratica e pratica! Ci vuol altro! Adesso vedrà! —

E come entra nell’aula il professor Torresi, incaricato dell’insegnamento delle nozioni generali d’Ostetricia teorica, gliela presentano tirandola avanti tra risa e schiamazzi:

— La nonna mammana, professore, la nonna mammana! —

Il professor Torresi, calvo, un po’ panciuto, ma un bell’omone dall’aria di corrazziere or ora smontato da cavallo, coi baffetti grigi ricciuti e un grosso neo peloso su una guancia (che amore! se lo tira sempre, facendo lezione, quel neo, per non guastarsi i baffi volti studiosamente all’in su), il professor Torresi si è sempre vantato di saper tenere la disciplina e tratta effettivamente quelle quarantadue diavole come puledre da domar col frustino e a colpi di sprone; ma tuttavia, di quando in quando, non può fare a meno di sorridere a qualche loro scappata, o, piuttosto, di concedere qualche risatina in premio all’adorazione di cui si sente circondato. Vorrebbe fare il viso del[p. 24 modifica]l’armi a quella presentazione rumorosa; ma poi, vedendosi davanti quella vecchia recluta buffa, vuol pigliarsela anche lui a godere un po’.

Le domanda come farà, venuta così tardi, a raccapezzarsi nelle sue lezioni. Egli ha già — (su, attente, attente! al posto!) — egli ha già parlato a lungo — (silenzio, perdio! al posto!) ha già parlato a lungo del fenomeno della gestazione, dall’inizio al parto; ha già parlato a lungo della legge della correlazione organica; ora parla dei diametri fetali, nella lezione scorsa ha trattato di quella fronte-occipitale e del biscromiale; tratterà oggi del diametro bisiliaco. Che ne capirà lei? Va bene, la pratica. Ma che cos’è la pratica? Ecco, attente! attente! (e il professor Torresi si tira il neo peloso su la guancia, che amore!): conoscenza implicita, la pratica. E può bastare? No, che non può bastare. La conoscenza, perchè basti, bisogna che da implicita divenga esplicita, cioè, venga fuori, venga fuori, così che si possa a parte a parte veder chiara e in ogni parte distinguere, definire, quasi toccar con mano, ma con mano veggente, ecco! O altrimenti, ogni conoscenza non sarà mai sapere. Questione di nomi? di terminologia? No, il nome è la cosa. Il nome è il concetto in noi d’ogni cosa posta fuori di noi. Senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non definita, non distinta.

Dopo questa spiegazione, che lascia allocchita tutta la scolaresca, il professor Torresi si rivolge a donna Mimma e comincia a interrogarla.

Donna Mimma lo guarda sbigottita. Crede che parli turco. Costretta a rispondere, provoca in quelle quarantadue diavole così fragorose risate, che il professor Torresi vede in pericolo il suo prestigio di do[p. 25 modifica]matore. Grida, pesta sulla cattedra per richiamarle al silenzio, alla disciplina.

Donna Mimma piange.

Quando nell’aula si rifà il silenzio, il professore, indignato, fa una strapazzata, come se non avesse riso anche lui; poi si volta a donna Mimma e le grida che è una vergogna presentarsi a scuola in tale stato d’ignoranza, è una vergogna, ora, far lì la ragazzina alla sua età, con quel pianto.... Su, su, inutile piangere!

Donna Mimma ne conviene, dice di sì col capo, si asciuga gli occhi; se ne vorrebbe andare. Il professore la obbliga a rimanere.

— Sedete lì! E state a sentire! —

Ma che sentire! Non capisce nulla. Credeva di saper tutto, dopo trentacinque anni di professione, e invece s’accorge di non saper nulla, proprio nulla.

— A poco a poco, non disperate! — la conforta il professore alla fine della lezione.

— Non disperate, a poco a poco.... — le ripetono le compagne impietosite, ora, dal pianto.

Ma a mano a mano che quella famosa conoscenza implicita, di cui il professor Torresi ha parlato, le diviene esplicita, donna Mimma — veder più chiaro? altro che veder più chiaro! — non riesce più a veder nulla.

Scomposta, sminuzzata, l’idea della cosa, come prima la aveva in sè, intera e compatta, ora le si confonde, smarrita in tanti minimi particolari, ciascuno dei quali ha un nome curioso, difficile, che ella non sa nemmeno proferire. Come ritenerli a me[p. 26 modifica]moria tutti quei nomi? Ci s’industria con pazienza infinita, la sera, nella sua misera cameretta d’affitto, sillabando sul manuale, curva davanti al tavolinetto su cui arde un lumino a petrolio.

— Bi-bis-cro-bis-crom-i-a-biscromia-bis-cromiale. —

E riconosce, sì, a poco a poco, a scuola, riconosce con viva sorpresa a uno a uno, dopo molti stenti, tutti quei particolari, e scatta in comiche esclamazioni:

— Ma questo.... Gesù, si chiama così? —

La ragione di distinguerlo, però, di definirlo così, con quel nome, non la vede. Il professore gliela fa vedere; la costringe a vederla; ma allora quel particolare le si stacca ancora più dall’insieme: le s’impone come una cosa che stia a sè; e siccome son tanti e tanti quei particolari, donna Mimma ci si perde; non si raccapezza più.

È una pietà vederla alle lezioni d’Ostetricia pratica, nella casa di maternità, quando il professore la chiama a una lezione di prova. Tutte le compagne la aspettano lì a quella prova, perchè lì ella è adesso nel campo della sua lunga esperienza. Ma sì! Il professore non vuole che ella faccia lì quello che sa fare, ma che dica quello che non sa dire; e se si tratta di fare e non di dire, non la lascia mica fare a suo modo, come tant’anni ha fatto, che sempre le è andata bene; ma secondo i precetti e le regole dell’igiene e della scienza, come punto per punto egli li ha insegnati; e allora donna Mimma, se si butta a fare, è sgridata perchè non osserva appuntino quei precetti e quelle regole; e se invece si trattiene e si sforza di badare a ogni precetto e a ogni regola, ecco, è sgridata perchè si smarrisce e si confonde e non riesce più a far nulla a dovere, con linda sveltezza, con precisione sicura. [p. 27 modifica]

Ma non soltanto tutti quei particolari e tutti quei precetti e tutte quelle regole la impacciano così. Un’altra, e più grave, nell’animo di lei, è la cagione di tutto quell’impaccio. Ella soffre come d’una violenza orrenda che le sia fatta là dove più gelosamente è custodito per lei il senso della vita; soffre, soffre da non poterne più, allo spettacolo crudo, aperto di quella funzione che ella per tanti anni ha ritenuto sacra — perchè in ogni madre la vergogna e i dolori riscattano innanzi a Dio il peccato originale — soffre e vorrebbe anche lì coprirlo quanto più può, coi veli del pudore, quello spettacolo; e invece no, ecco, via tutti quei veli: il professore glieli butta all’aria e li strappa via brutalmente, quei veli che chiama d’ipocrisia e d’ignoranza; e la maltratta e la beffeggia con sconce parolacce, apposta; e quelle quarantadue diavole attorno, ecco, ridono sguajatamente alle beffe, alle parolacce del professore, senza nessun ritegno, senza nessun rispetto per la povera paziente, per quella povera madre meschina, esposta li intanto, oggetto di studio e d’esperimento.

Avvilita, piena d’onta e d’angoscia, si riduce nella sua cameretta, alla fine delle lezioni, e piange e pensa se non le convenga di lasciare la scuola e di ritornarsene al suo paesello. Nel lungo esercizio della professione ha messo da parte un buon gruzzoletto, che le potrà bastare per la vecchiaja; se ne starà tranquilla, in riposo, a guardare soddisfatta attorno a sè tutti i bimbi del paese e i più grandicelli, ragazzette e ragazzetti, e i più grandicelli ancora, giovanette e giovanotti, e i loro papà e le loro mamme, tutti, tutti quelli che lei in tanti anni pur seppe portare alla luce, senza precetti e senza regole, da vecchia mammana delle favole, con la lettiga d’avo[p. 28 modifica]rio. Ma allora, dovrà darla vinta a quella ragazzaccia che a quest’ora avrà preso certo il suo posto nel paesello, presso ogni famiglia, di prepotenza; restare a guardarla, lì, con le mani in mano? Ah, no, no! Qua: vincere l’avvilimento, soffocare l’onta e l’angoscia, per ritornare al paese col suo bravo diploma e gridarlo in faccia a quella sfrontata che le sa anche lei adesso le cose che dicono i professori, che un conto sono i misteri di Dio, e un altro conto, l’opera della natura.

Se non che, le sue manine esperte....

Donna Mimma se le rimira pietosamente, attraverso le lagrime.

Saprebbero più muoversi ora, queste manine, come prima? Sono come legate da tutte quelle nuove nozioni scientifiche. Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale.

E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?