Don Zeno: Il sovversivo di Dio/XXII
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È reagendo allo sgomento dei fanciulli rinchiusi negli orfanotrofi, delle giovani donne che hanno votato la vita per ridare loro la maternità e che rifuggono chi le ha indotte alla grande scelta, dei superstiti della diaspora costretti a sfidare la fame e le malattie che insidiano chi vive in condizioni tanto precarie, che don Zeno verga il libro destinato, tra quanti ne ha scritti, a suscitare l’eco più profonda, ad accendere repliche e reazioni infuocate, “Non siamo d’accordo”, che l’editore De Silva diffonde nel mese di maggio del 1953.
Il titolo propone una cruda constatazione: il prete carpigiano non è d’accordo con la borghesia, non è d’accordo con i governanti democristiani, non è d’accordo con le autorità ecclesiastiche. E il disaccordo è tanto incolmabile da tramutare, dimostra don Zeno nelle settanta pagine del volumetto, la sua posizione e quella dei suoi interlocutori in barricate tra le quali è inevitabile lo scontro più crudo. Sulla stessa barricata dalla quale si protende all’assalto sono schierati con lui, uniti nella stessa lotta alla borghesia, ai governanti e ai prelati, tutti gli oppressi e tutte le masse sfruttate, delle quali assume, nella rovente arringa contro i potenti , la rappresentanza ideale. Noi, i poveri, prorompe con enfasi vigorosa, non possiamo essere d’accordo con voi, i ricchi. Nell’assunzione di quel patrocinio, che con il più efficace istinto oratorio traduce in un incalzante contrappunto tra la prima persona plurale e la seconda persona plurale, è la chiave del libro, la ragione del suo vigore, la radice del suo successo.
Chi del volumetto, più opuscolo che libro, compia l’analisi, non individua, oltre a quella chiave, né originali concezioni dottrinali né riflessioni storiche o sociali di particolare profondità, scopre una raccolta di considerazioni ordinate in capitoletti tra i quali non è sempre facile scorgere nessi organici, disposti a corona attorno ai tre elementi essenziali della composizione, il capitolo dal titolo “Denuncia aperta contro la Democrazia cristiana”, la “Lettera all’on. Bettiol” e la ‘Lettera a s.e. monsignor Montini”. Se nel contesto complessivo dell’opuscolo don Zeno ripropone i temi consueti, i concetti che compongono la sua concezione della società, della giustizia, della fraternità cristiana, che illustra rinnovando, come gli è abituale, il corredo di metafore e di aneddoti, rappresenta la prima novità del volumetto l’abbandono dei toni della conversazione familiare che gli sono cari e che più di una volta lo hanno tradito convertendo la sua enfasi in retorica edulcorata. Nell’opuscolo che verga mentre la scialuppa dei suoi naufraghi sta affondando, l’ira gli impedisce ogni cedimento alla stucchevolezza: in una cornice cruda e appassionata è nei tre capitoli cardinali che la condanna della società e degli uomini che ha sempre combattuto si eleva ad autentica invettiva, violenta, lucida, impietosa come quella dei pubblici accusatori dei peccati del mondo, Giovanni Crisostomo, Bernardino da Siena, Girolamo Savonarola.
Introduce la “Denuncia aperta contro la Democrazia cristiana” la drastica asserzione che «La Democrazia cristiana è contro la Chiesa»: è l’atto di accusa più intransigente contro il partito che ha inalberato la croce per raccogliere i voti dei cattolici, e che di quei voti ha fatto il baluardo con cui tutelare l’ordine borghese vacillante, reprimendo col manganello della Celere le rivendicazioni delle masse oppresse.
Alla legalizzazione dello sfruttamento capitalistico perpetrata dai partiti liberali e realizzata dallo stato di cui essi controllavano le leve, il sedicente partito cattolico ha sostituito, proclama il prete carpigiano, la subdola finzione di un’idealità di giustizia secondo gli insegnamenti evangelici. Ai rappresentanti della borghesia che si presentavano a viso aperto professando il credo della diseguaglianza si sono sostituiti i suoi emissari mascherati da apostoli della socialità cristiana: quella finzione reclama, dichiara don Zeno, la vendetta di Dio, che non mancherà, è certo, di compierla. Fregiarsi del nome di cristiano senza l’impegno a fare trionfare la giustizia di Cristo significa mentire agli uomini in nome di Dio: un’ignominia che la Chiesa, proclama, ha il dovere di denunciare, scindendo ogni connivenza con chi perpetra una colpa tanto ripugnante.
La lettera a Bettiol, presidente del gruppo parlamentare del partito, è ironica, impietosa, sferzante. Don Zeno lo ha conosciuto, personalmente, tra le aule dell’Università Cattolica, e sull’antica conoscenza costruisce la propria apostrofe. Esordisce ricordando all’antico amico speranze e progetti che hanno condiviso nelle aule in cui uno stuolo di giovani ferventi si preparava per un più efficace impegno cristiano, addita, poi, l’ampiezza del fossato che li separa dopo venticinque anni: lui derelitto tra i derelitti, mendico alla ricerca del pane e del tetto per coloro cui pane e tetto sono negati, l’onorevole Bettiol insediato in parlamento, dove gode di un cospicuo appannaggio e di cento privilegi, il giusto compenso, asserisce, sarcastico, don Zeno, per chi tutela gli interessi di coloro cui non deve mancare nulla.
Letta la vigorosa arringa il critico non può sottrarsi al quesito della ragione che abbia indotto il prete di Fossoli a scegliere, come bersaglio, il presidente del gruppo parlamentare e non il segretario del partito, il rappresentante di rango più elevato della Democrazia cristiana. È stata l’amicizia antica a condurre alla scelta di Bettiol, o è stato il sostegno recente a distogliere il suo furore da Dossetti? Alla domanda non è dato formulare una risposta.
Dopo i primi due affondi, condotti con impeto ed efficacia, è nella lettera al sostituto segretario di stato vaticano, il futuro cardinale di Milano, quindi pastore della Chiesa cattolica, che l’invettiva di don Zeno tocca le tonalità più drammatiche, che la sua immaginazione forgia le metafore più vigorose, componendo il sarcasmo più realistico ad un afflato profetico dalle sonorità apocalittiche: metafore, sarcasmo, afflato profetico impongono a chi ne confronti gli scritti di riconoscere nell’arringa contro il futuro pontefice la pagina più singolare vergata dal tribuno della fraternità nella propria multiforme, colorita e disomogenea produzione letteraria.
Il proposito di penetrare il testo impone, preliminarmente, di affrontare l’interrogativo delle ragioni per cui tra le personalità vaticane con cui si è misurato nel proprio cimento, il prete carpigiano scelga, quale destinatario dell’apostrofe, il primo coadiutore del segretario di stato, che non ha, a quanto risulta, mai incontrato, e non uno dei prelati con i quali ha intrattenuto, invece, rapporti diretti: il cardinale Tardini, che ha incontrato nel turbinare del 1945, il prefetto del Sant’Uffizio, che ha vergato il decreto che lo ha allontanato da Nomadelfia, o il nunzio apostolico, protagonista della clamorosa conversione, da sostenitore ad oppositore, che ha disorientato le difese di Nomadelfia. L’interrogativo è analogo, palesemente, a quello sui motivi della scelta dell’uomo politico in cui don Zeno ha personificato il partito avverso: esso è oltremodo più rilevante, tuttavia, per la comprensione della storia del prete carpigiano, e non è altrettanto irresolubile.
La prima risposta che l’analisi della vicenda suggerisce a chi debba cercarla senza esaminare gli archivi vaticani induce a reputare che don Zeno voglia investire, in prima persona, il pontefice, ma che, deciso all’arringa più sferzante, frenato dai convincimenti più profondi dal dirigerla al vicario di Cristo, la indirizzi al suo collaboratore più diretto evitando, peraltro, di colpire il titolare della carica, un vegliardo privo, ormai, di autentica autorità, e dirigendo il proprio attacco a chi, col titolo di sostituto segretario, assume e sottoscrive le scelte capitali del dicastero. Ogni decisione del segretario di stato è operata sulla base di una delega che ne fa scelta rivestita dell’autorità papale: attaccare il segretario di stato o chi ne eserciti il potere equivale ad attaccare il papa senza colpirne la persona. Seppure non inconsistente, l’ipotesi si sgretola di fronte alla profondità dell’affetto che dall’udienza personale che gli è stata concessa nel 1948 don Zeno ha sempre manifestato verso papa Pacelli. Il papa al quale ha chiesto, secondo la narrazione tante volte ripetuta, di concedergli il telefono per capovolgere la politica italiana e quella vaticana, che, secondo la stessa narrazione, don Zeno ha invitato con passione a ritirarsi con lui nell’antico lager, resterà, per il prete carpigiano, un padre del quale soffrirà sempre la prigionia tra le mura leonine.
All’apostolico prigioniero da allora ha scritto più di una lettera terribile: la durezza dei toni non ha mai contraddetto la devozione personale. Non è, perciò, verosimile che immagini di rivolgergli un’apostrofe impietosa come quella che sta congegnando, che l’istinto, oltre alla ragione, lo induce ad indirizzare al presule al quale in quella circostanza eccezionale Pio XII non gli ha consentito di telefonare, il primo, ha pensato allora, dei carcerieri del papa, uno degli avversari più impietosi, ha verificato poi, dei suoi progetti rivoluzionari. Se saranno divulgate, un giorno, le lettere del prete carpigiano a papa Pacelli, nel torrente di passioni che le ha ispirate è improbabile si possa trovare una riga sola animata dalla fredda ira con cui investe monsignor Montini, è certo che nessuna possa tradire il proposito della pubblicazione che don Zeno dichiara, invece, palesemente e beffardamente, al sostituto segretario di stato. Sono del tutto appariscenti, poi, le ragioni per le quali don Zeno non rivolge la propria apostrofe al responsabile del Sant’Uffizio. Non conosce il prefetto, il cardinale Pizzardo, che reputa una maldestra controfigura. Ha incontrato ripetutamente, invece, monsignor Ottaviani, che dell’organismo riveste l’incarico di segretario, ma che per la propria tempra ne costituisce già, di fatto, il plenipotenziario. Negli incontri intercorsi prima del provvedimento che lo ha escluso dalla vita della sua città, tra monsignor Ottaviani e don Saltini è nata, seppure nella contrapposizione dei ruoli, un’intesa profonda: il prelato cresciuto tra il popolino di Trastevere e il prete vissuto tra i braccianti della Bassa si sono compresi scoprendo che, al di là delle ragioni di confronto, li unisce lo stesso convincimento che la novella che il Redentore ha prescritto di annunciare ai poveri deve essere predicata, se si vuole che i poveri capiscano, in romanesco o in dialetto carpigiano.
Preposto alla tutela della “purezza della fede”, Ottaviani ha sentito d’istinto, poi ha verificato con la ragione, che don Zeno non può creare alla Chiesa problemi di dottrina, che provocherà incidenti politici, che potranno essere ardui da affrontare come sono ardui gli incidenti creati da un grande agitatore: ha capito che come agitatore lo dovrà controllare, forse ha presentito che controllandolo lo avrebbe, non di rado, aiutato e, probabilmente, molto amato.
Indizi convincenti suffragano, poi, l’illazione con cui è possibile spiegare perché l’apostolo della Bassa non diriga la propria ira sul superiore gerarchico di Montini, il cardinale Tardini: interprete fantasioso, ma dotato di intuito, delle vicende politiche, don Zeno ha compreso che l’alleato cui si affidano, in Vaticano, gli strateghi democristiani non è il vecchio cardinale, è qualcuno che opera, con lucida determinazione, alla sua ombra. Incerto, verso il prete ribelle, di cui percepisce l’afflato evangelico, il papa delle certezze tetragone, ruvidamente benevolo il vero responsabile del più autorevole organo disciplinare vaticano, combattuti e ondeggianti i responsabili degli altri dicasteri apostolici, la ricerca di colui che ha tessuto, oltre il Tevere, in sintonia con l’uomo che comanda, sulla sponda opposta del fiume, tutte le polizie d’Italia, la trama che ha stretto don Zeno, sospinge ad identificarlo in un prelato diverso: verso un uomo diverso si scaglia, infatti, il prete di Fossoli. Lettere e messaggi indiretti lo hanno indotto a riconoscere l’avversario che lo combatte dalla cittadella vaticana in Giovanni Battista Montini, della cui freddezza verso la città della fraternità sussistono, abbiamo verificato, anche indizi diversi.
Convinto di avere identificato nel prosegretario di stato il nemico di Nomadelfia entro le mura leonine, a monsignor Montini ha scritto una lettera rovente quando l’evacuazione poliziesca ha costretto alla diaspora i cittadini di Nomadelfia. A quella lettera sua eccellenza Montini ha risposto con una citazione dell’apostolo di cui, assurto al soglio pontificio, assumerà il nome: «La carità è paziente, è benigna - ha trascritto dalla prima lettera di Paolo ai Corinti - la carità non contende, non opera avventatamente, non si gonfia, non è ambiziosa, non chiede ciò che le appartiene, non si irrita, non pensa il male, non gode del male, partecipa invece alla gioia della verità: tutto sopporta, tutto spera, tutto sostiene.» Senza una parola personale, alla citazione ha aggiunto la propria firma.
È confutando la pertinenza della citazione, scelta con palese acume polemico, che don Zeno apre la propria apostrofe:
«Eccellenza Reverendissima, La ringrazio per la Sua lettera in risposta alla mia in data 1° febbraio 1953.
Senza dubbio grave è il Suo invito paterno alla carità.
Che cosa è la carità? San Paolo la esprime, nella lettera, sotto quell’aspetto che Lei mi indica e che mi sento in coscienza di dover sempre tener presente.
Che cosa è la carità? È anche: “Scendeva da Gerusalemme a Gerico un uomo...”
Che cosa è la carità? È anche “Guai a voi...”
Non intendo polemizzare, Eccellenza, intendo ribadire la mia terribile posizione di fronte a fatti inequivoci.»
È il primo tema dell’articolata argomentazione con cui don Zeno illustra, nella lettera, le ragioni per le quali lasciando quanti ha soccorso in nome di Cristo e della Chiesa ritiene di tradire la Croce, un tradimento del quale condividono l’onere con lui, sostiene, i responsabili vaticani che lo hanno costretto ad abbandonare i naufraghi tra i flutti.
«È un dilemma di facile scelta; o piegarsi ad essere ingiusti, mancando quindi di carità; o scagliarsi contro l’ingiustizia, realizzando in tal modo la carità in senso pieno.
Il mio fallire è rovinare altri. Oramai non ho più nulla da fare se non degli atti che siano a riparazione di quella ingiustizia. L’ingiustizia non ha che una tinta, non può essere vista che da una sola mistica: opprime e colpisce a morte l’uomo.
È un problema di semplice contabilità.
Per vivere in Italia occorrono almeno L. 105.000 pro-capite all’anno. Negare anche questo minimo all’uomo, è peccare. Noi ci accontentavamo di quel minimo. Neppure questo ci è stato concesso, e, come noi, milioni di Italiani sono nello stesso fallimento. E perché abbiamo tentato di vivere, siamo stati puniti. Il resto sono tutti pretesti che si affrontano dopo e non prima del pasto.
Potete dire in Vaticano di essere stati trattati ad uno ad uno come noi?
Non si può riconoscere a nessuno il diritto di farci l’elemosina, con dei beni che di fatto sociale sono sottratti in parte alla nostra vita. Presupposto che in Italia siamo sei milioni di miserabili alla deriva, si consuma contro di noi un furto di circa un miliardo e ottocento milioni di lire al giorno, con i quali si fanno i palazzi, le ville, si sistemano lavoratori, imprenditori, professionisti, speculatori, ricchi e gerarchi e si pagano carabinieri e polizia per farci tacere noi che rimaniamo, da quella distribuzione, a mani e stomaco vuoti.
Guardi, Eccellenza, che lo stomaco è cosa d’interesse divino.» Dopo una serie di citazioni e di riflessioni con le quali ribadisce le fondamenta morali dell’accusa, l’avvocato dei derelitti lascia di nuovo l’argomentazione per l’invettiva:
«Vede, Eccellenza, non si può affidare a “piani quinquennali” e alla naturale evoluzione dei tempi la soluzione del nostro problema. Il diritto alla vita deve essere risolto prima di sera; è sempre troppo tardi. Noi siamo ridotti a non meravigliarci della possibile guerra, delle possibili rivoluzioni. Ma queste sono cose che interessano chi si è assicurato il diritto alla vita; per noi è sempre guerra, è sempre rivoluzione.
Voi potreste rispondermi: E come potremmo fare a lavorare in questi pesanti uffici se non avessimo una retribuzione? Già, è appunto questo che ci domandiamo noi. E che ci importano i Vostri Uffici, trovandoci noi in questo stato di schiavitù? Se siete padri anche di fatto, venite dalla nostra parte, venite con noi, a vivere come noi.
Ci interessa il diritto alla vita, ma non solo quello della Vita Eterna, bensì anche di questa vita terrena, la comunione dei santi “sicut in Coelo et in terra”. Quello non può esserci negato; ma questo ci è negato; si pecca di quella omissione che è proprio oggetto della sentenza in “Illa die”. Ammettete che siamo tutti reietti; gli stessi bambini, gli stessi ammalati, gli stessi impotenti, tutti noi oppressi con loro. Ma anche i reietti hanno diritto alla vita, almeno a quelle 105.000 lire annue.
Non è che io questo dica perché sono i tempi che lo esigono. È la contabilità che non funziona e che non ha mai funzionato persino sotto il Potere temporale, nel quale il Vicario di Cristo era re assoluto.
Guardi, Eccellenza, il governo italiano, non facciamone mistero, democristiano in genere, il ministro Scelba in ispecie, ha preteso che noi vivessimo con L. 26.071 pro-capite l’anno.
lo dico che sono degli avulsi dalla realtà, come dico che la Santa Sede non ha fatto bene a non scomunicarli. Una volta scomunicati facciano quello che vogliono. Se vorranno tornare alla Chiesa non hanno bisogno di far troppa penitenza, di cambiare cioè la carne in pesce buono: facciano i conti e paghino.
Non mi risponda: ‘Poveretti, come possono fare?” Lo chieda all’on. Scelba come fa quando noi Nomadelfi, ad esempio, diciamo che è un ingiusto: manda le camionette della polizia, fogli di via in base all’art. 147 della legge di Pubblica Sicurezza. E bisogna vedere come fa presto! Ci punta, come ha fatto, la pistola, e ci manda, come ha fatto, al confino.
Manco di carità a dirLe queste cose?»
Il richiamo alla carità è una nuova, efficace replica alla citazione di San Paolo.
All’enunciazione dell’imputazione e alla dimostrazione della mostruosità della colpa segue un corredo di annotazioni con cui don Zeno precisa la cronaca del dramma, intercalate a ripetuti rilievi ironici sull’acquiescenza vaticana alle pretese del Governo, poi la requisitoria si converte di nuovo in apostrofe, e nell’apostrofe l’avvocato di Dio alterna con efficacia i toni drammatici a quelli beffardi:
«Scusi, Eccellenza, ma ha notizia Lei che i nostri democristiani siano puri spiriti o se abbiano un corpo così esigente come il nostro? E come mai commettono simili angherie contro di noi? Come sacerdote mi domando: “Ma che siano in buona fede?” Se fossero in buona fede sarebbe un vero disastro. Se ammazzano la gente senza avvedersene, Lei capisce che siamo in pessime mani. Che siano in mala fede? Allora, comunque, ci sarebbe da tagliare via il “cristiano” dal “demo”.
Dicono certe anime (auto) pie, naturalmente sempre quelle che se la cavano: “Eppure De Gasperi è un sant’uomo, un vero cattolico; ma queste cose non le può fare poveretto”. Noi decisamente rispondiamo: “Se non può fare queste cose, che ci sta a fare al potere? Venga con noi; ed insieme ritorneremo alle catacombe”.
Può essere cattolico qualsiasi uomo che si metta a capo per applicare un sistema sociale addirittura infanticida, matricida, parricida?
Dica al Santo Padre che mandi ... ragionieri con le macchine calcolatrici al Congresso della Suprema Congregazione del Santo Uffizio, e che non tema; la Chiesa è robusta. Per il momento quei ragionieri sarebbero molto più utili dei teologi. Basterà che i teologi dichiarino che Dio è Padre Nostro (lo ha già detto Gesù, quindi non avranno paura di sbagliare), e che noi siamo tutti fratelli. Ci penseremo poi noi a concludere che abbiamo tutti diritto alla vita, mentre i ragionieri cominceranno a fornire al Padre Commissario gli estratti conti dei nostri oppressori cattolici. I non cattolici vedranno: “e vedendo crederanno”». È l’idea chiave di tutta la predicazione di don Zeno: l’evidenza della storia impone a quanti professano di credere in Cristo di tradurre integralmente e coerentemente la propria fede sul piano sociale e su quello economico: il rifiuto di ottemperare a quell’imperativo è il peccato collettivo che grava sull’intero popolo cristiano, che liberandosene attrarrebbe alla fede il mondo intero, sospinto dalla forza dell’esempio ad inginocchiarsi ai piedi della Croce. Ma perché i cattolici rispondano all’obbligo che è loro imposto, attraverso gli eventi della storia, dalla Provvidenza, a quell’invito debbono ottemperare, prima degli altri, coloro che di Cristo guidano il gregge:
«Crede Vostra Eccellenza che il popolo Italiano si ribellerebbe se faceste questo? Ma nemmeno i ricchi reagirebbero, o almeno lo farebbero senza virulenza, perché sono arcistanchi essi pure di sentirsi maledire dalla povera gente. Anzi andrebbe il popolo tutto al Tempio a ringraziare Dio perché finalmente su questa falla si è convertita la Santa Sede, e ne seguirà l’esempio. È da un gran pezzo che si attende questa conversione della Santa Sede.»
La visione delle genti in attesa della conversione della Santa Sede propone, sul piano dell’oratoria sacra, una delle immagini più suggestive che sia dato reperire tra tutti gli scritti di don Zeno, tra le cento metafore colorite, ma non grandiose, una delle poche che vantano di essere annoverate tra quelle dei grandi avvocati della fede, Sant’Ambrogio, Santa Caterina o Santa Teresa. Efficace per il paradosso che implica, il rovesciamento dei rapporti tra i pastori della Chiesa ed il mondo che della Chiesa rifiuta il messaggio, trae il proprio vigore dall’argomentazione che la precede, costruita sul contrappunto incalzante tra i due termini opposti della lettera, il “noi” e il “voi” nei quali don Zeno induce il lettore a identificare, collocandoli su fronti contrapposti, gli umili ed i potenti, i giusti e gli iniqui, gli oppressi e gli oppressori.
È la replica più cruda, accesa di sdegno sacro, alla citazione di San Paolo con cui Giovanni Battista Montini ha voluto chiudere i propri rapporti epistolari con don Zeno Saltini. All’affermazione dell’apostolo di Tarso che «la carità non chiede quello che è suo», investitosi del patrocinio dei diseredatí privi dell’indispensabile don Zeno ha ricordato a sua eccellenza che oltre alla carità, il Vangelo prescrive la giustizia, e che non è coerenza cristiana proclamare che i poveri debbano soccombere di inedia senza protestare, lieti di praticare l’invito di Paolo: una replica di drammatico realismo nel quadro sociale dell’Italia che esce dalle rovine della guerra nel conflitto tra chi conquista una rapida ricchezza e chi pare risucchiato senza speranze nel gorgo della miseria. Alla citazione del passo di San Paolo sulla carità don Zeno ha risposto con un’antitesi che ricalca un altro brano suggestivo della stessa lettera ai Corinti, quello in cui l’apostolo propone, altrettanto incolmabile, la contrapposizione tra «voi... prudenti... forti... onorati ...» e «noi... stolti... deboli... disperati». Al di là del vigore delle immagini e dell’afflato profetico con cui il prete carpigiano auspica la conversione della Santa Sede, è sulla congruenza di quell’antitesi, l’autentica chiave della lettera, che chi voglia misurare la fondatezza etica e storica dell’invettiva al sostituto segretario di stato di Pio XII deve dirigere il proprio impegno analitico. Stabilendo quella contrapposizione don Zeno si investe, infatti, della rappresentanza di tutti gli oppressi e degli sfruttati del paese, dei quali si erge avvocato contro la Democrazia cristiana, che della loro oppressione rivestirebbe, per acquiescenza e per connivenza, la responsabilità politica. La procura che ostenta per assumerne il patrocinio non risulta, peraltro, a chi ne ricerchi la verifica, formalmente inoppugnabile.
Se appare legittimo, infatti, che chi si batte per un solo diseredato vanti di combattere in difesa di tutti i diseredati della terra, e don Zeno rappresenta quasi mille fanciulli derelitti, che nella sua città avevano ritrovato una famiglia, e che i “celerini” di Scelba hanno rigettato nei brefotrofi, egli è anche l’alfiere di una dottrina sociale e l’animatore di un movimento politico il cui decollo, ogni volta abbia avuto l’occasione di tentarlo, è pateticamente fallito.
La sua dottrina è una dottrina rivoluzionaria: la proclama corollario necessario del Vangelo e dichiara "lievito dei Farisei" qualunque concezione politica che, proponendosi anch’essa la traduzione sociale della fede cristiana, si diriga su una strada divergente da quella sulla quale conduce i propri seguaci. Ad apostrofare il sostituto segretario di stato vaticano, per la propria carica architetto dell’alleanza tra la Chiesa e il partito cattolico di ispirazione moderata, non è solo, perciò, il patrono dei diseredati, è il propugnatore di un’ideologia politica contraria a quella adottata dalla Curia vaticana, che egli pretenderebbe abiurasse la strategia che persegue e le alleanze che, per attuarla, ha sottoscritto, per abbracciare la sua dottrina rivoluzionaria. Con la foga oratoria di cui è capace, don Zeno mescola e compone, nella lettera a monsignor Montini, la difesa dei diseredati e la perorazione della propria ideologia: chi quel testo voglia valutare criticamente, sottraendosi al fascino dell’invettiva sacra deve rescindere la commistione dei due elementi e distinguere le espressioni dell’uno da quelle dell’altro. Procedendo alla dicotomia si accorge, così, che più di uno dei capi di accusa che l’avvocato dei diseredati imputa a colui che diverrà papa col nome di Paolo VI sono, in realtà, strali diretti a un avversario politico. Nella contesa politica il prelato bresciano ha invocato, sottilmente, San Paolo, il prete carpigiano evoca, appassionatamente, San Giovanni: la legittimità dei riferimenti è equivalente, ma a supporto della propria citazione il sostituto segretario di stato vanta un’autorità che don Zeno non può disconoscere né contestare.
Fornisce la prova più trasparente della natura ideologica e politica del confronto la considerazione del cardine logico sul quale l’apostolo della Bassa costruisce l’intera argomentazione che sviluppa nel corpo dell’opuscolo. Quel cardine può essere identificato nell’enunciazione che «la Democrazia cristiana è contro la Chiesa».
È un’affermazione coerente al credo e all’impegno sociale del prete carpigiano, il frutto maturo della contrapposizione germogliata, durante l’esilio romano, nel primo contatto con i fondatori del partito. Giovane militante cattolico, Zeno Saltini ha vissuto gli anni in cui la rivalità ottocentesca tra la Chiesa e lo Stato ha prodotto nella società italiana le ultime tensioni lancinanti: di quelle tensioni ha misurato le conseguenze crudeli nell’odio verso i credenti degli attivisti socialisti, nelle percosse degli squadristi agli amici impegnati sul terreno sociale. Rifiuta, tuttavia, categoricamente, di riconoscere ogni legittimità al disegno che il Vaticano ha desunto da quell’esperienza, il disegno di favorire il radicamento, nel paese, di un grande partito cattolico, popolare e moderato. Lo rifiuta perché è convinto che un partito che si proponesse un’azione politica coerente al Vangelo dovrebbe abolire, senza remore né dilazioni, le condizioni dello sfruttamento del lavoro, in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione, procedendo, dal giorno successivo alla conquista del potere, alla ridistribuzione della ricchezza così da dare casa e lavoro a tutti coloro che di casa e di lavoro sono privi. Gli imperativi che postula costituiscono, per lui, programma irrinunciabile, la cui realizzazione non tollererebbe mediazioni, indugi né compromessi. La Chiesa ha ritenuto che il partito cattolico che ha deciso di sostenere potrà realizzare, con progressività, una maggiore giustizia sociale, reputa che, pure raccogliendo anche uomini non intemerati, nelle condizioni concrete del paese rappresenti il “male minore”, un riconoscimento che a don Zeno ripugna, tanto da reputare mandato divino denunciarne la farisaica ipocrisia. Al di là, peraltro, della vacuità organizzativa di cui ha dato prova ogni volta abbia tentato di condurre le masse, attuando la propria dottrina, sulla strada che dovrebbe assicurare, senza dilazioni, la perfetta giustizia sociale, dichiarando che «la Democrazia cristiana è contro la Chiesa» si sostituisce, giudicando la congruenza evangelica di una strategia politica, alla gerarchia ecclesiastica, alla quale imputa l’erroneità della conduzione civile del gregge cristiano.
Attribuire alla Curia papale un errore politico non costituisce violazione dei principi della fede: è la ragione dell’affetto che il ribelle di Nomadelfia continua a godere, anche dopo la sfida al prosegretario di stato, entro le mura leonine. Rappresenta, tuttavia, occasione di censura disciplinare, che a riparazione dell’affronto recato a sua eccellenza si manifesta nell’obbligo, che gli viene imposto, di ritrattare le tesi che ha sostenuto nell’opuscolo.
Ottemperando all’ingiunzione il prete carpigiano sottoscrive una dichiarazione ironica, che adempie, nella forma, all’obbligo che gli è stato imposto, ma ribadisce la sostanza delle affermazioni proposte nel volumetto. Dimostrando, forse, di non essere insensibile agli auspici di chi prega per la sua conversione, la Santa Sede accetta l’atto formale, ignora la sostanza della dichiarazione. Don Zeno respinge, per parte sua, la proposta dell’editore De Silva di una nuova tiratura di 50.000 copie. Esaurite, nell’arco di un mese, le 3.000 copie della prima edizione, le 7.000 della seconda si sono volatilizzate con altrettanta fulmineità: è stato il primo, sarà il solo successo editoriale conseguito da don Zeno nel proprio sforzo infaticabile di comporre il libro che radichi in chiunque lo legga il seme della rivoluzione di Cristo.
Negata la riedizione, non consentirà mai più che l’opuscolo venga ristampato, destinandolo ad una sorte singolare tra quelle degli scritti di cui la tipografia di Nomadelfia, ristabilita in un’antica stalla della Rosellana, continuerà, con solerte perpetuità, la riproduzione a divulgazione del messaggio del fondatore. Tanto profondo sarà, infatti, l’oblio in cui cadranno, nonostante ogni sforzo di diffusione, gli altri volumetti di don Zeno, tanto vivace sarà l’interesse che circonderà l’opuscolo scritto nei giorni dell’ira, che l’esiguità delle due edizioni trasformerà in rarità bibliografica: un gioiello per la biblioteca di qualunque cultore, credente o miscredente, della libellistica antivaticana.