Documenti inediti o rari sull'antica agiatezza cremonese/Conclusione

Conclusione

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Nota delle gioje

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CONCLUSIONE


Altre memorie del secolo XVI ci tramandarono, che le case de’ nobili e de’ ricchi gentiluomini e mercanti cremonesi, come le chiese e badie, i monasteri e i conventi, erano fabbricati con grandi spese e magnificenze, ridondavano nel loro interno di eleganti o venerandi cimelj, di rarità archeologiche ed artistiche, di lavori peregrini e preziosi per la materia e per l’arte, si ornavano anche all’esterno di egregie pitture a fresco sì, che la monumentale Cremona appariva tutta gaja e ridente, e vestita a gala quasi per una pompa festiva. (Lanzi, Stor. pittor.); che il territorio lieto di vendemmie e di messi, di pometi e giardini, di case e di ville pareva un subborgo continuo della città, con borghi e castelli pieni di popolo operoso, agiato e civile, e somiglianti a città (Alberti, Descr. d’Italia); che le famiglie più cospicue, le persone più illustri amavano essere ascritte nell’albo de’ mercanti, esercitare la mercatura ed impiegarvi i lor capitali, aver banche commerciali nelle prime città d’Europa e negoziarvi le manifatture de’ rigogliosi opificj cremonesi, che occupavano intere contrade della città, sei capacissimi subborghi, e il porto sul Po, il quale per le molte navi ed il traffico grande chiamavasi la piccola Venezia; che per la dovizia finalmente dei negozi e dei [p. 15 modifica]guadagni le pernici ed i fagiani erano manco cibo peculiare dè mercadanti e tessitori, che de’ ricchi gentiluomini. (Cronache cremonesi - Ponzino della Torre, Facetie etc.)

Come i nostri maggiori divenissero in quel secolo a sì florido stato di prosperità, e come nel successivo precipitassero nella più desolata miseria appare manifesto dal non avere in casa stranieri nessuno, dal reggimento liberale o patrio, che organando e incuorando l’ingegno, l’industria e l’alacrità popolana nel lavoro, nel commercio e nel lucro faceva folti, opulenti, sfarzosi i cittadini. Quando dimentichi de’ costumi, delle leggi, delle arti e virtù avite, corrotti dagli ozi e dai vizi forestieri, privi d’un esercito nazionale saldo gittato in uno, fummo tronchi, divisi, vilipesi; quando invece d’unirci ai Duchi di Savoja ed ai Veneziani, unici a non volere stranieri in Italia, parteggiammo or per Francia, or per Spagna, or per Lamagna, sempre congiurate a nostro danno, allora ecco i generali e gli eserciti de’ barbari nuovi discendono, son qui a rapirci uomini, oro, vettovaglie, mercanzie, suppellettili, pensiero, coscienza, parola, a divorarci patrimonj, bilanci, redditi, tutto, tranne gli occhi per piangere. Allora fuggiti gli artigiani e i coloni oppressi da incomportabili tributi, venduti sino gli armenti e i ferri del mestiere, scomparso coll’antica ricchezza il culto delle arti, degli studi, dell’educazione civile, inselvatichiti e mendichi, come il territorio, gli uomini che non emigrarono; Cremona divenne un deserto, un cadavere, uno scheletro insensato e stupido, che non può mantenere il miserabile avanzo de’ suoi abitatori, ridotti in minor numero de’ mercanti ed operai di prima. Allora le più agiate famiglie, esauste d’ipoteche, di debiti, di pegni dovettero vendere a vilissimo prezzo ne’ pubblici incanti i loro possessi, o cederli cogli arredi casalinghi ai creditori o al Monte di Pietà, soggiornare nel più orrido inverno nelle campagne, prive del [p. 16 modifica]necessario alimento e vestito, od impiegarsi nelle arti mercenarie e negli esercizi più vili, o lasciarsi porre in prigione, o mendicare nei chiostri e nei Luoghi Pii. (Ricorsi del Comune e dei Mercanti ai Re di Spagna). I Magistrati del Municipio e dei Mercanti nella disperazione di quel supremo esterminio scrivevano a Madrid, che forse sorrideva ai lamenti: Lasciamo che il mondo rovini ed ogni cosa vada alla peggio non ritrovandosi più misericordia in nessun luogo, e volendosi trar sangue ove non è.

Tali sono i documenti dei tempi, tali le straniere e assolute signorie, che per giunta si dissero, e si dicono, paterne, della pace, della civiltà, dell’ordine.