Discorso sull'indole del piacere e del dolore/II

Dei piaceri e dei dolori fisici e morali

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I III

Tutte le nostre sensazioni si dividono i due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e sensazioni morali. Chiamo sensazione fisica quella, l’origine di cui si vede cagionata da una immediata azione sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra, in cui questa immediata azione non si conosca. Il dolore che nasce da una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro si chiama un dolor fisico; una forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando per lo contrario si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; cosí, dopo un disastroso viaggio d’inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria ed affannosa caccia una mensa delicata, sono piaceri fisici: dolori e piaceri cagionati da un’immediata azione sulla nostra macchina. L’annunzio della morte d’una persona che ci è cara, l’annunzio della rovina della fortuna nostra e de’ beni nostri ci tormentano dolorissimamente. Qual è la cagione di questo dolore? Noi non ne vediamo l’azione immediata sugli organi nostri, perciò si ripongono nella classe de’ dolori morali. Medesimamente la notizia d’una inaspettata eredità, d’una carica luminosa, d’una amicizia acquistata e desiderata da noi, ci risveglia un piacere vivissimo, senza che compaia alcun oggetto applicato agli organi della nostra sensibilità; quindi vengono chiamati piaceri morali. Ai piaceri e dolori fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri e dolori morali tanto piú l’uomo è sensibile, quanto è piú dirozzato dall’educazione, cioé quanto è maggiore la folla delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle intere nazioni della diversità su tal proposito; i popoli piú inciviliti sono piú sensibili alla gloria e al disprezzo; i popoli ancora piú rozzi lo sono alle percosse e alla mercede. I piaceri e i dolori morali sono tanto maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni e delle relazioni che un uomo sente d’avere cogli altri. Per conoscere questa verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento in cui mi si annunzia la morte di un mio dolcissimo amico, io potessi essere certo che dopo brevi istanti la di lui memoria non esisterà piú nel mio animo, né piú mi risovverrò di averlo conosciuto; se avessi, dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe semplicemente la compassione del male altrui; sentimento il quale preso isolato fors’anco non consiste che nel fremito di alcune parti unisone della nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione e lo squallore ov’io piombo, si è che in quel momento prevedo quante volte avrò davanti agli occhi l’immagine della perdita fatta; sento in quel momento la trista solitudine che mi si apre davanti, e il paragone che ne farò col bene avuto: nelle mie afflizioni non avrò piú un fedele compagno, a cui senza timore manifestarmi, e riceverne consiglio e assistenza; negli avvenimenti felici non vedrò piú quella gioia dell’amicizia che moltiplica la felicità, comunicandola. Dove trovare chi s’interessi meco ne’ deliri della mia immaginazione, e che per uniformità di genio avendo meco comune la curiosità di scoprire il vero mi accompagni? Dove troverò piú un essere tanto grato, tanto sensibile, che mi consolava ad ogni atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà, attivo, discreto, nobile? Cosí mi vado col pensiero spignendo sulla serie delle dolorose sensazioni che mi aspettano, e su quel primo momento contemporaneamente pesando tutti i momenti del dolor preveduto, resto immerso nella piú crudele amarezza. Questo dolor morale nasce dalla riunione de’ fantasmi che occupano la mia mente, onde la parte piú nobile di me stesso appoggiando sul passato, e sull’avvenire piú che sul momento attuale, e paragonando i due modi di esistere, tutta inviluppata nel timore dei mali preveduti s’immerge in un dolore morale. Mi ripongo in una opposta situazione. Mi figuro che mi venga l’annunzio d’una luminosa carica ottenuta. Se io potessi dimenticarmi del passato, se io non mi slanciassi nell’avvenire, la novella recatami riuscirebbe insipida, e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole. Ma si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l’orgoglio, la fredda indifferenza, che hanno mostrato per me alcuni uomini insolenti per la loro carica sin tanto che restai disarmato e senza potere, mi spingo nell’avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava nell’impossibilità di acquistarmi l’opinione pubblica, eccomi il campo aperto per guadagnarmela; ho in faccia degli amici che potrò coi benefici rendere agiati, e sempre piú ben affetti; gli emuli, o riconciliati o ridotti all’impotenza di nuocere; tutto questo ridente spettacolo mi si spalanca allo sguardo; tutte le sensazioni, alle quali vado incontro, già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la consolazione invadono tutta la mia sensibilità; sono immerso in un voluttuosissimo piacer morale, perché, poco o nulla pesando sul momento presente, tutto mi appoggio sul passato e sull’avvenire. Questi due esempi generalmente convengono a tutti i dolori morali, a tutti i piaceri morali. Essi non si risentono se non in quel momento, in cui l’animo dimentico quasi del presente si risovviene e prevede; e a misura che o teme, o spera, sente o dolore, o piacere. Se questo è vero, ne scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli o dolorose, dipendono da tre soli principî azione immediata sugli organi, speranza e timore. Il primo principio cagiona tutte le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazioni morali. Scelgasi un piacere morale ancora piú nobile e puro; figuriamoci un geometra nel momento in cui per un fortunato accozzamento di idee ha carpito lo scioglimento d’un problema arduissimo e importantissimo. Qual sarebbe la gioia di quel geometra, se egli vivesse in un’isola disabitata, icuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare che poca, o nessuna consolazione ne proverebbe; o se qualche ombra ne risentisse, ciò verrebbe perché da quella verità ne sperasse di cavarne o un uso pratico per viverne piú agiatamente, ovvero maggiore attuazione a svilupparne in seguito una catena di altre curiose verità, e guadagnare cosí una occupazione che lo sottragga alla inazione insipida della sua vita solitaria. Il piacere adunque del matematico, quello che lo fa nudo balzare dal bagno, e scorrere pieno di entusiasmo per la città, si è la speranza de’ piaceri che in avvenire aspetta e dalla stima degli uomini, e dai benefici che dovrà riceverne. Perciò dico che tutti i piaceri morali, come tutti i dolori morali, altro non sono che un impulso del nostro animo nell’avvenire: cioé timore e speranza. Un dolore morale dei piú sublimi nella sfera degli umani, sarà quello che sente un cuor nobile e generoso, qualora per disgrazia o acciecato da una violenta passione, ovvero per inavvertenza abbia mancato di gratitudine a un virtuoso suo benefattore. Analizziamo i sentimenti dolorosi che lo affliggono. Egli teme il disprezzo, o almeno la diminuzione di stima degli uomini, e confusamente nell’avvenire scorrendo, se ne anticipa i mali; egli diffida di sé medesimo, e sente la probabilità accresciuta di poter di nuovo in avvenire coprirsi di simili macchie, e sempre piú veder diminuita l’opinione dei buoni; ei prevede che per quanto sia generoso il suo benefattore, non potrà in avvenire stare in sua presenza cosí tranquillo e sereno come vi stava in prima. Tutta questa nebbia gli offusca la serie delle sensazioni che si vede avanti, e quand’anche sul momento non le analizzi a sé medesimo, ma confusamente col solo vocabolo di rimorso annunzi il dolor che soffre, quest’è pure un semplice timore delle sensazioni avvenire. Tutte le applicazioni che ho fatte di questo principio, le quali se avessi a riferirle darebbero troppa uniformità e tedio, ricadono costantemente al medesimo risultato, che tutti i piaceri e dolori morali nascono dalla speranza e dal timore. Tutti i piaceri morali che nascono dalla stessa umana virtú, altro non sono che uno spignimento dell’animo nostro nell’avvenire, antivedendo le sensazioni piacevoli che aspettiamo. Abbiamo un illustre cittadino in Italia, il quale essendo sovrano tranquillo della sua patria, preferí la raffinata ambizione di vivere immortale nella gratitudine e memoria de’ suoi, alla volgare di comandare agli uomini nel corso della sua vita; rinunziò alla sovranità, ristabilí la repubblica, si fece suddito delle leggi, subordinato ai giudici. Quale azione piú grande, piú virtuosa, piú disinteressata! Silla l’aveva già fatta in prima, ma Silla grondante di sangue romano, usurpatore violento d’un potere arbitrario, Silla, di cui la tirannia fra gli sgherri e le stragi aveva immolate tante vittime, non poteva sperare che venisse mai guardato come un atto di virtú il momento, in cui per lassitudine terminava la orribile serie de’ suoi delitti. L’immortale autore che lo fa parlare con Eucrate, innalza quel feroce al livello della sua grand’anima; ma la storia di quegli orrori non lascia luogo a immaginarselo somigliante al ritratto. Andrea Doria per grandezza d’animo, per vera elevazione di genio, virtuoso, pieno di gloria, nel punto in cui abdicando la sovranità diventò cittadino, e molto piú ne’ momenti in cui prevedendo quest’atto vi si andava disponendo, ha provato certamente i piaceri morali piú sereni ed energici. Si slanciava egli nell’avvenire, e diceva a sé stesso: sulla faccia de’ miei concittadini leggerò scritta la riverenza e la gratitudine unita alla meraviglia; attraverso del timido rispetto, che i sudditi presentano al sovrano, rare volte traspirano i veri sentimenti del cuore; toglierò quest’ostacolo, e goderò dei sentimenti spontanei. Non sarà certamente minore la mia influenza negli affari pubblici dopo una sí generosa abdicazione, ed ogni adesione sarà per me cosí dolce, come se ogni volta mi proclamassero sovrano. Regnando anche felicemente, potrebbe essere eclissata la mia gloria da altri piú felici successori; ma osando render forti al par di me i cittadini, e stabilendo una repubblica, rimarrà isolata la mia gloria, e s’innalzerà alla veduta ne’ secoli piú remoti. L’affetto, la spontanea sommessione, l’ammirazione, la fama, tutti i beni che queste seco portano li sperava, e li vedeva di fronte quando si apparecchiava all’atto generoso, e cosí la speranza era la sorgente di tutti quei piaceri morali. L’uomo fedele alle sue promesse, grato ai benefici, attivo nel consolare e aiutare gli uomini, disinteressato, nobile, guardingo a non nuocere sia coi fatti sia colle parole piú trascorrevoli, e talvolta piú fatali, ogni volta che un nuovo atto rinfianca i suoi principî, prevede di rendere sé stesso sempre piú forte coll’abitudine al bene, e di confermare e cementare sempre piú la opinione pubblica, e singolarmente la stima degli uomini buoni. Quindi in ogni atto virtuoso che fa, sente diminuito un grado alla possibilità di perdere questi beni, e accresciuto un grado alla speranza delle sensazioni piacevoli che se gli affacciano. Il piacere morale di lui sarà sempre piú forte, quanto piú diffiderà della perseveranza, e quanto sarà piú incerto e timoroso sulla opinione altrui. O io m’inganno, oppure questa teoria è costante, siccome ho detto, che tutti i piaceri egualmente come tutti i dolori morali nascono dal timore e dalla speranza, in guisa tale che, se potesse darsi un uomo incapace di temere o di sperare, questi non potrebbe avere che soli piaceri e dolori fisici; come vediamo appunto accader ne’ bambini, i quali sprovveduti d’idee, e altro non avendo che gli organi disposti a ricevere le impressioni, tanto meno corredati di memoria, quanto piú è vicino il momento in cui cominciarono ad essere, incapaci di grandi paragoni o numerose combinazioni, non sentendo né speranza né timore, unicamente in preda ai dolori e ai piaceri fisici, non cominciano a gustare i morali se non a misura che gli anni e l’esperienza insegnano loro l’arte di sentire per antivedenza. Il senso morale che si acquista se non allorquando, col séguito d’una lunga serie di sensazioni, accumulatasi una folla di idee, giugne l’uomo a conoscere la successione di diversi modi di esistere, onde si sviluppano nell’animo i due risultati speranza e timore. Sinché ciò non si è fatto coll’opera del tempo, l’uomo altre sensazioni non potrà avere, come dissi, se non le fisiche, le quali sono modi di esistere isolati, prodotti dalla momentanea passività degli organi, bastante ad eccitare il movimento dell’animo. Infatti, se attentamente esamineremo lo sviluppamento che per gradi fa l’animo di un fanciullo, vedremo che la vergogna, la compassione, il pentimento, come l’ambizione, l’invidia, l’avidità, l’entusiasmo, i germi insomma delle virtú e dei vizi, col lungo tratto di tempo soltanto, e dopo aver fatto un grande ammasso d’idee, si vedono schiudere e sviluppare. Di che il profondo Giovanni Locke trovò già una felice dimostrazione.