Discorso sul testo della Commedia di Dante/IX

VIII X

[p. 142 modifica]IX. Ma e chi ne incolperà gl’Italiani? E chi mai, se pur vi pensa, chi scrive di ciò che guida alla libertà della mente, dove niuno può scriverne o parlarne, o ascoltare senza pericolo? Onde, poichè forse vero è che le Muse non sono nemiche degli esuli, io senza assumermi gli obblighi tutti del critico — quando a me, neppure solitaria, la vita pare lunga nè fredda che patisca d’intorpidirsi continuamente in questo mestiero — mi proverò ad ogni modo di diradare le opinioni che per cinquecento anni si sono confuse a quel tanto di vero, che dall’esame del secolo e della vita e della mente del poeta può emergere per emendare e intendere con norme critiche il testo. E premetto questo Discorso, affinchè altri poscia accompagnandosi meco per entro il poema non gli s’accresca la noja, fatale alle chiose, e sciagura pessima ogni qualvolta al commentatore, volendo stabilire il proprio parere, importa di necessità di disfare innanzi tratto l’altrui, meno vero, ma tuttavia resistente. A’ versi non mi soffermerò se non in quanto il richiegga il valore delle varie lezioni; e osserverò solo que’ Canti dove la poesia e la storia s’illustrano maggiormente fra loro. A’ necessitosi d’interpretazione continua, moltissimi hanno oggimai provveduto. So ch’altri invocano un critico che faccia ad essi di passo in passo sentire i pregj della composizione; e vi provvederanno gli estetici. Io so, o mi par di sapere, che la natura crea pochi poeti, e molti lettori di poesia, e moltissimi qualificati a cose diverse, e forse più utili, ma che nelle arti d’immaginazione non possono sentire da sè. A questi moltissimi vorrei rammentare come Prometeo poteva infondere, ma non aggiungere anima nell’argilla.

Note