Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro terzo/Capitolo 13

Libro terzo

Capitolo 13

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Dove sia più da confidare,
o in uno buono capitano
che abbia lo esercito debole,
o in uno buono esercito che abbia
il capitano debole.

Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se n’andò ai Volsci; dove contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne venne a Roma; donde dipoi si partì, più per la piatà della sua madre, che per le forze de’ Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la Republica romana crebbe più per la virtù de’ capitani che de’ soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E benché Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua istoria la virtù de’ soldati sanza capitano avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati e più feroci dopo la morte de’ Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse nello esercito che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i due capitani, poté, con la virtù sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere il nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talché, discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la virtù de’ soldati arà vinta la giornata; e molti [p. 136 modifica]altri, dove solo la virtù de’ capitani arà fatto il medesimo effetto: in modo che si può giudicare, l’uno abbia bisogno dell’altro, e l’altro dell’uno.

Ècci bene da considerare, prima, quale sia più da temere, o d’uno buono esercito male capitanato, o d’uno buono capitano accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo la opinione di Cesare, si debbe estimare poco l’uno e l’altro. Perché, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio, che avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco, «quia ibat ad exercitum sine duce», mostrando la debolezza de’ capitani. Al contrario, quando andò in Tessaglia contro a Pompeio, disse: «Vado ad ducem sine exercitu».

Puossi considerare un’altra cosa: a quale è più facile, o ad uno buono capitano fare uno buono esercito, o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che dico che tale questione pare decisa: perché più facilmente molti buoni troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono tosto uno buono capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il quale in poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della servitù degli Spartani, in poco [p. 137 modifica]tempo fecero, de’ contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la milizia spartana ma vincerla. Sì che la cosa è pari, perché l’uno buono può trovare l’altro. Nondimeno uno esercito buono sanza capo buono suole diventare insolente e pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto che io credo che sia più da confidare assai in uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e commodità di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario fatto da lui. Però è da addoppiare la gloria e la laude a quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma, prima che venghino alle mani con quello, è convenuto loro instruire lo esercito loro, e farlo buono: perché in questi si mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se tale ferità fosse stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai che non sono.