Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro terzo/Capitolo 49

Libro terzo

Capitolo 49

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Libro terzo - Capitolo 48

Una republica,
a volerla mantenere libera,
ha ciascuno dì
bisogno di nuovi provvedimenti;
e per quali meriti Quinto Fabio
fu chiamato Massimo.

È di necessità, come altre volte si è detto, che ciascuno dì in una città grande naschino accidenti che abbiano bisogno del medico; e secondo che gl’importano più, conviene trovare il medico più savio. E se in alcuna città nacquono mai simili accidenti, nacquono in Roma e strani ed insperati; come fu quello quando e’ parve che tutte le donne romane avessono congiurato contro ai loro mariti di ammazzargli: tante se ne trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de’ Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove erano già inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se la non si scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non fussono stati consueti a gastigare le moltitudini degli erranti: perché, quando e’ non si vedesse per altri infiniti segni la grandezza di quella Republica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per le qualità della pena che la imponeva a chi errava. Né dubitò fare morire per via di giustizia una legione intera per volta, ed una città; e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni istraordinarie, da non essere osservate da uno solo, non che da tanti: come intervenne a quelli soldati che infelicemente avevano combattuto a Canne; i quali confinò in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in terra, e che mangiassono ritti.

Ma di tutte le altre esecuzioni era terribile il decimare gli eserciti, dove a sorte, di tutto uno esercito, era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a gastigare una moltitudine, trovare più spaventevole punizione di questa. Perché quando una moltitudine erra, dove non sia l’autore certo, tutti non si possono gastigare, per essere troppi; punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si farebbe torto a quegli che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di errare un’altra volta. Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti lo meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non è punito ha paura che un’altra volta non tocchi a lui, e guardasi da errare.

Furono punite, adunque, le venefiche e le baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E benché questi morbi in una republica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perché sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non sono da uno prudente corretti, rovinano la città.

Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a’ forestieri, nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne’ suffragi, che il governo cominciava variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che era Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo disordine, sotto quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in sì piccoli spazi, corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto accetto a quella civiltà, ch’e’ meritò di essere chiamato Massimo.