Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro terzo/Capitolo 22
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Come la durezza di Manlio Torquato
e la comità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima gloria.
E’ furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato e Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di pari trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in quanto si apparteneva al nimico, con pari virtù l’acquistarono, ma quanto si apparteneva agli eserciti ed agl’intrattenimenti de’ soldati, diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni generazione di severità sanza intermettere a’ suoi soldati o fatica o pena, gli comandava: Valerio, dall’altra parte, con ogni modo e termine umano, e pieno di una familiare domestichezza, gl’intratteneva. Per che si vide, che, per avere l’ubbidienza de’ soldati, l’uno ammazzò il figliuolo, e l’altro non offese mai alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno fece il medesimo frutto, e contro a’ nimici ed in favore della republica e suo. Perché nessuno soldato non mai o detrattò la zuffa o si ribellò da loro o fu, in alcuna parte, discrepante dalla voglia di quegli; quantunque gl’imperi di Manlio fussero sì aspri, che tutti gli altri imperi che eccedevano il modo, erano chiamati «manliana imperia». Dove è da considerare, prima, donde nacque che Manlio fu costretto procedere sì rigidamente; l’altro, donde avvenne che Valerio potette procedere sì umanamente l’altro, quale cagione fe’ che questi diversi modi facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia di loro meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera bene la natura di Manlio d’allora che Tito Livio ne comincia a fare menzione, lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e verso la patria, e reverentissimo a’ suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte di quel Francioso, dalla difesa del padre contro al Tribuno; e come, avanti ch’egli andasse alla zuffa del Francioso, e’ n’andò al Consolo con queste parole: «Iniussu tuo adversus hostem nunquam pugnabo, non si certam victoriam videam». Venendo, dunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera di trovare tutti gli uomini simili a sé; e l’animo suo forte gli fa comandare cose forti; e quel medesimo, comandate che le sono, vuole si osservino. Ed è una regola verissima, che, quando si comanda cose aspre, conviene con asprezza farle osservare; altrimenti, te ne troverresti ingannato. Dove è da notare, che a volere essere ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che fanno comparazione dalle qualità loro a quelle di chi ha ad ubbidire; e quando vi veggono proporzione, allora comandino; quando sproporzione, se ne astenghino.
E però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica, con violenza, conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel che era sforzato. E qualunque volta questa proporzione vi era, si poteva credere che quella violenza fusse durabile; ma quando il violentato fusse più forte che il violentante, si poteva dubitare che ogni giorno quella violenza cessasse.
Ma tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti, conviene essere forte; e quello che è di questa fortezza e che le comanda, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi non è di questa fortezza d’animo, si debbe guardare dagl’imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la sua umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono imputate al principe, ma alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi, dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a’ quali lo inclinava la sua natura: i quali sono utili in una republica, perché e’ riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua antica virtù. E se una republica fusse sì felice, ch’ella avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo le rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe perpetua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con l’asprezza de’ suoi imperi ritenne la disciplina militare in Roma; costretto prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall’altro canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e non era faticosa a osservarla, e non necessitava Valerio a punire i transgressori: sì perché non ve n’era; sì perché, quando e’ ve ne fosse stati, imputavano, come è detto, la punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del principe. In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni umanità, dalla quale ei potesse acquistare grado con i soldati, e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l’uno e l’altro la medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando, fare il medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitare costoro, cadere in quelli vizi di dispregio e di odio che io dico, di sopra, di Annibale e di Scipione: il che si fugge con una virtù eccessiva che sia in te, e non altrimenti.
Resta ora a considerare quale di questi modi di procedere sia più laudabile. Il che credo sia disputabile, perché gli scrittori lodano l’uno modo e l’altro. Nondimeno, quegli che scrivono come uno principe si abbia a governare, si accostano più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di molti esempli della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che dice di Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo contro ai Sanniti, e venendo il dì che doveva combattere, parlò a’ suoi soldati con quella umanità con la quale ei si governava; e dopo tale parlare, Tito Livio dice quelle parole: «Non alias militi familiarior dux fuit, inter infimos milites omnia haud gravate mundia obeundo. In ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque inter se aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere ac vinci vultu eodem; nec quemquam aspernari parem qui se offerret; factis benignus pro re; dictis haud minus libertatis alienae, quam suae dignitatis memor; et (quo nihil popularius est) quibus artibus petierat magistratus, iisdem gerebat». Parla medesimamente, di Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua severità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il popolo romano ebbe contro ai Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale vittoria, descritto ch’egli ha tutto l’ordine di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che il popolo romano vi corse, e le difficultà che vi furono a vincere fa questa conclusione: che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E faccendo comparazione delle forze dell’uno e dell’altro esercito, afferma come quella parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio. Talché considerato tutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte indecisa, dico come in uno cittadino che viva sotto le leggi d’una republica, credo sia più laudabile e meno pericoloso il procedere di Manlio: perché questo modo tutto è in favore del publico, e non risguarda in alcuna parte all’ambizione privata; perché tale modo non si può acquistare partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il bene commune; perché chi fa questo, non si acquista particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si disse, partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non può essere più utile né più disiderabile in una republica; non mancando in quello la utilità publica, e non vi potendo essere alcun sospetto della potenza privata. Ma nel modo del procedere di Valerio è il contrario: perché, se bene in quanto al publico si fanno e’ medesimi effetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni per la particulare benivolenza che colui si acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio cattivi effetti contro alla libertà.
E se in Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione non essere ancora gli animi de’ Romani corrotti, e quello non essere stato lungamente e continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo a considerare uno principe, come considera Senofonte, noi ci accostereno al tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno principe debbe cercare ne’ soldati e ne’ sudditi l’ubbidienza e lo amore. La ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere tenuto virtuoso; lo amore gli dà l’affabilità, l’umanità, la piatà, e l’altre parti che erano in Valerio, e che Senofonte scrive essere in Ciro. Perché lo essere uno principe bene voluto particularmente, ed avere lo esercito suo partigiano, si conforma con tutte l’altre parti dello stato suo: ma in uno cittadino che abbia lo esercito suo partigiano, non si conforma già questa parte con l’altre sue parti, che lo hanno a fare vivere sotto le leggi ed ubidire ai magistrati.
Leggesi intra le cose antiche della Republica viniziana, come, essendo le galee viniziane tornate in Vinegia, e venendo certa differenza intra quegli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto ed all’armi, né si potendo la cosa quietare né per forza di ministri né per riverenza di cittadini né timore de’ magistrati; subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo che era, l’anno davanti, stato capitano loro, per amore di quello si partirono, e lasciarono la zuffa. La quale ubbidienza generò tanta suspizione al Senato, che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o per morte, se ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno principe e pernizioso in uno cittadino; non solamente alla patria, ma a sé a lei, perché quelli modi preparano la via alla tirannide; a sé, perché in sospettando la sua città del modo del procedere suo è costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario, affermo il procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, ed in uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte offende; se già questo odio che ti reca la tua severità, non è accresciuto da sospetto che l’altre tue virtù per la gran riputazione ti arrecassono: come, di sotto, di Cammillo si discorrerà.