Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro primo/Capitolo 2

Libro primo

Capitolo 2

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Di quante spezie sono le republiche,
e di quale fu la republica romana.

Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro principio sottoposto a altrui; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbitrio, o come republiche o come principato: le quali hanno avuto, come diversi principii, diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d’esse, o dopo non molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un tratto; come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma. Talché, felice si può chiamare quella republica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che gli dia leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle, possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o sanza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado d’infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da sé medesima riordinarsi. E di queste ancora è più infelice quella che è più discosto dall’ordine; e quella ne è più discosto che co’ suoi ordini è al tutto fuori del diritto cammino, che la possa condurre al perfetto e vero fine. Perché quelle che sono in questo grado, è quasi impossibile che per qualunque accidente si rassettino: quelle altre che, se le non hanno l’ordine perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare migliore, possono per la occorrenzia degli accidenti diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che quella republica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione d’ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze, la quale fu dallo accidente d’Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel di Prato, nel dodici, disordinata.

Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno de’ tre stati, chiamati da loro Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e’ soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e ciascuno d’essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall’uno all’altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte. Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio.

Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl’ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fusse più prudente e più giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e, lasciando l’opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e d’ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore all’offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero, appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni e congiure contro a’ principi; non fatte da coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per generosità, grandezza d’animo, ricchezza e nobilità, avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l’autorità di questi potenti, s’armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d’uno solo capo, constituivano di loro medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro commodo alla commune utilità; e le cose private e le publiche con somma diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d’uno governo d’ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo, intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da’ loro governi, la moltitudine si fe’ ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori; e così si levò presto alcuno che, con l’aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de’ pochi e non volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popolare; e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella generazione che l’aveva ordinato; perché subito si venne alla licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per necessità, o per suggestione d’alcuno buono uomo, o per fuggire tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la licenza, ne’ modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi.

Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni, e per la malignità che è ne’ tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l’uno guarda l’altro, sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare.

Intra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato; e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de’ grandi e la licenza dell’universale, le quali non furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del Principato e con quella degli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.

Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli largamente si dimosterrà.