Dieci lettere di Publio Virgilio Marone/L'editore a chi legge
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L’esempio ha quì di tre diversi Poeti, che non sol versi, non suoni, e non rime vacue, ma poesia vera, armoniosa, franca, nobile, colorita, e spirante estro, e ardimento presentano loro in vario stile, e in tre generi differenti di dipignere, e di cantare.
Con l’esempio v’ha l’istruzione; non in precetti, che l’anime legano nate a volare; ma nel disinganno, che le sprigiona, e fa gir libere e sciolte ove natura le chiama. Virgilio è quegli che con alcune sue lettere tenta l’impresa, ma piacevolmente, perché la magistrale severità è troppo odiosa nimica di Poesia.
Or queste Lettere scritte furono familiarmente, e senza studio ad Amico lontano. Si fanno pubbliche per consiglio d’alcuni, che dicono poter quelle agli studiosi giovare di Poesia, e lo scrittore ci perdonerà, se in grazia di questo, senza lui risaperlo, si stampano.
Ben sarebbe ingiustizia citar esse, e lui davanti a critico tribunale. Che se pure la collera letteraria (atroce collera, e inesorabile) vuol usar de’ suoi denti, perché mai non irruginiscano, che a troppo gran vitupero si reca il non averli sempre ben tersi, e aguzzi, sì il faccia, che già l’autor innocente non morderanno, il qual da gran tempo le Muse lasciate, or lontan dalla Patria ben altro ha in mente che i mastini, e le bisce del Parnaso, tra il fragor dell’armi, e lo scoppiar de’ cannoni Prussiani.