Dialoghi sopra l'ottica neutoniana/I
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Introduzione, breve storia della fisica, ed esposizione della ipotesi del Cartesio sopra la natura della luce, e de’ colori.
Sopra la costiera di una piacevole montagnetta, che tra Bardolino e Garda sorge alle sponde del Benaco, è posto Mirabello, luogo di delizia della marchesa di F*** dove è solita dimorare ogni anno buona parte della estate. Dall’un fianco guarda il bel piano, che irrigato è dal Mincio; dall’altro le Alpi altissime e i colli di Salò lieti di fresca e odorosa verdura; e sotto ha il lago, in cui si specchia, sparso qua e là di navigli e di care isolette. Quivi io mi ritrovava la state passata a villeggiar con la Marchesa, il cui aspetto ben risponde a tale amenità di luogo; e quivi mi convenne ragionar con lei di filosofia. Mi ridusse a questo l’acutezza del suo ingegno non meno che della sua curiosità, la quale, secondo che porta il discorso, si risveglia a un motto, e non si sbrama così di leggieri. Più vaga di sapere che volonterosa di parlare, non meno ella sa fare di belle domande che ne voglia udire la risposta: e tali per altro sono le maniere, ond’ella suole accompagnare e condire ogni sua voglia, che quanto piace a lei, tanto solamente può piacere ad altrui. Quando noi rimanevamo liberi dalle visite e dal giuoco, trattenimento pur necessario dove molti convengano insieme, parte della giornata da noi si trapassava in una fresca saletta, intrattenendoci assai sovente con la lettura di varie cose. Ma il più era di poesia; parendo che appunto alla poesia ne invitasse particolarmente la campagna, dov’ella già ebbe la origin sua, e dove meglio che in altro luogo si compiace di abitare. Secondo la disposizione d’animo che in noi era, veniva prescelto ora uno ed ora un altro de’ nostri poeti. Ed anche talora venivano in campo i poeti di quella nazione, da cui ci sono fornite tante gentilezze per lo spirito e per la persona. Parte si leggeva, parte si ragionava, dicendo noi liberamente quello che di ciascuno ci paresse. Né mai ci pareva più armonioso un verso perché antico, né meno gentile un pensamento perché forestiero. Un giorno che cadde il discorso sulla poesia inglese, io uscii a dire alcuna cosa del robusto pensare del Miltono, del Dryden, e singolarmente del Pope, in cui vede la Inghilterra il suo Orazio, e il cui stile è di tanto ingagliardito dalla filosofia. Di più non ci volle, perché si accendesse la Marchesa nel desiderio di assaggiarne alcuna cosa; tanto più che assai facilmente si persuadeva che quella nazione, la quale avea così amica Minerva, non avesse ad aver per nemiche le Muse. Io, che nulla altro cercava che fare in ogni cosa la voglia sua, mandai tosto per un volume delle opere del Pope, che recato avea meco alla campagna: né attesolo gran fatto, potei introdurre alla presenza della più graziosa donna d’Italia le Muse inglesi. Scorsi i titoli delle poesie, che in quel volume erano contenute: piacque alla Marchesa di udire in primo luogo un’oda in lode della musica, composta dal Pope per solennizzare quel giorno, che così in Inghilterra come in Italia è sacro a’ filarmonici: e sì io mi feci a recarla nel volgar nostro il meglio che per me si potea. Ella l’ascoltava con quell’attenzione, che si accompagna solamente col diletto. Ma ruppe il silenzio appena che io ebbi finito di leggere quel luogo: "mentre con note tarde e allungate spira l’organo profondo, maestoso e solenne". - O quanto vivamente - diss’ella - è espresso e caratterizzato quello istrumento! Io l’ho udito veramente suonare, e parmi averlo tuttavia negli orecchi. Non so se voi l’abbiate udito altresì; ma quasi che il creda da un certo atto che in leggendo fatto avete, e forse senza accorgervene. - Madama, - io risposi - voi v’intendete così bene di me, che di me giudicando, non è pericolo voi prendiate inganno. E certo quel "profondo", quel "solenne", e gli altri aggiunti usati dal Pope sono altrettanti colori, o piuttosto sono quegli ultimi tocchi che avvivano la poesia, e rendono veramente sensibili e presenti le cose. La mano bianca, la fronte serena, gli occhi soavi, e tali altri che s’odono tutto il dì qui da noi, appena che sieno in paragone uno abbozzo di quello che vorrebbe colorire il poeta. E che vorremmo noi dire - ripigliò tosto la Marchesa - di un settemplice aggiunto alla luce, che mi è occorso, non è molto, di leggere in una canzone fatta in lode della filosofessa di Bologna? - Vorreste voi dire - ripres’io con vivezza - di que’ versi,
O dell’aurata
luce settemplice
i varioardenti, e misti almi color?
- Appunto - rispos’ella. - E se per voi e’ sia abbozzo o ultimo tocco, non so; so bene che oscuro geroglifico riuscì a me, e a non so chi altri ancora, a cui ne chiesi la spiegazione. - Ed io mezzo sorridendo: - Oh grande più che non pensate, Madama, è la virtù di quel settemplice. Non può già sentirla chi non è iniziato ne’ misteri della poesia filosofica. - Che sì, che quei versi son vostri? - disse la Marchesa. - Così bene gli sapete a memoria, e con tal calore voi gli avete presi a sostenere. Orsù, fate ch’io vegga anch’io il quadro filosofico su quella tela poetica; che io altro non ci veggo che del confuso. - Ché non seguitiamo piuttosto - io risposi - ad ascoltar la musica del Pope? Quale altra cosa potrebbe ora darvi maggior diletto? - Il vostro quadro, - ella rispose - se dato mi sarà di vederlo. - Madama, - ripigliai io - voi sapete come finalmente le fantasie de’ chiosatori, che veggono tali e tante cose per entro al testo de’ loro autori, sogliano far ridere le persone. E perché volete voi che io mi ponga a tal rischio, divenendo il chiosatore di me medesimo io? - A buon conto, - diss’ella - ne’ vostri versi voi non ci dovreste vedere né più né meno di quello che ci è. E non vorrete poi aver lodato una donna per modo da non essere inteso forse da niun’altra donna. - E così non potendomene schermire, incominciai a toccare alcuna cosa dell’ottica, a cui fanno allusione quei versi: e le andava dicendo come la luce, secondo t’opinione del Neutono, o per meglio dire, secondo la verità, non è altrimenti semplice, e pura, quale apparisce agli occhi volgari: ciascun raggio di sole essere un fascetto, o composto di raggi rossi, doré, gialli, verdi, azzurri, indachi e violati: e da questi sette colori mescolati insieme... - Piano a’ mai passi, - senza lasciarmi dire più avanti, ripigliò qui la Marchesa - andiamo adagio. Troppo presto voi uscir ne vorreste, senza badare, se altri vi possa tener dietro sì, o no. Dichiaratemi un po’ più diffusamente tutte queste cose; e non vogliate che la vostra chiosa abbia più bisogno di chiosa essa, che non ne avea forse il testo medesimo. - Oh voi - diss’io allora - non sarete contenta, che non vi abbiate un libro su quel settemplice. - Perché no? - ella rispose. - Tanto più, che l’avervi io udito metter del pari la opinione del Neutono con la verità, dee aver fatto non leggieri impressione nell’animo mio. Io ben so che questo Neutono empie ora il mondo del suo nome; ma sarebbe pur bello saper la ragione, perché e’ sia salito in così gran fama. E chi potesse veder la luce non cogli occhi del volgo, ma cogli occhi di lui? In somma voi avete - soggiunse mezzo sorridendo - destato in me un gran desiderio, se a troppo non presumessi, di divenir neutoniana. - Madama, - io risposi - ecco il modo di metter presto il neutonismo alla moda; e tutti i suoi seguaci avrebbono in molto buon grado cotesto vostro desiderio, se il risapessero. Ma in verità non so poi, quanto buon grado fosse per avervi il Pope, - mostrandole il libro che io teneva tuttavia in mano - che più non vi volete leggere avanti, per una voglia in cui siete entrata, non so perché, di filosofia. - Ed ella: - Un poeta inglese pieno per appunto di filosofia, quale voi rappresentato mi avete cotesto Pope, dovrebbe darmi egli stesso la mano a scendere il Parnaso per salire alla verità. - Indarno tentai di mettere in campo l’altezza della materia e la propria mia insufficienza. - Solite formole - ella m’interruppe - che a me non si doveano per conto niuno far buone. - Né tampoco mi valse domandar tempo insino alla sera, dicendole come le sere appunto da più anni in qua erano consecrate alle materie scientifiche; che così fatto avea, trovandosi ne’ medesimi termini che io, il più gentil filosofo di Francia; e che oramai correva la moda di ragionar con le dame di filosofia la notte, e ne’ più segreti boschetti. - Moda per altro, - incontanente ella rispose - che tanto meno fa per noi, quanto che di luce è da parlarne il giorno, anzi che la notte. - Onde senza più convenne dar principio. Ma come, o donde? che la Marchesa era bensì di varie cognizioni fornita, ma di filosofia non avea tintura veruna: e della filosofia era pur bisogno darle una qualche contezza, prima di venire all’ottica, e agli ultimi ritrovamenti del Neutono. Si aggiugneva a questo il doverle dichiarar l’ottica, senza aver alla mano quei vetri, ond’essa, quasi direi, procede armata, e senza i quali male si può venire a capo di quella scienza. E sopra tutto avendole io a parlar di fisica senza l’aiuto della geometria, mi pareva quasi che impossibile tor via le spine e non disfogliar la rosa. Finalmente dopo averle un’altra volta, ma indarno, ricordato la musica del Pope, ed anche tale altro men serioso e più caro trattenimento, io cominciai in questo modo. - Non pare a voi, Madama, che l’uomo, curioso com’egli è anche in ciò che meno gli si appartiene, abbia dovuto in ogni tempo considerare gli oggetti che gli stanno dattorno, quelli ancora che lungi sono collocati da lui, le cose tutte di mano in mano, che sopra se gli volgono, e delle quali composto è l’universo? Andò notando i vari sembianti per quanto estendere poteasi la debole sua vista, le qualità onde si mostrano vestite, le vicende a cui vanno soggette: e quindi credette di potere indovinare la varia natura di esse e le cause delle operazioni loro, ardente nella voglia di sapere o di mostrare almeno di sapere. Presunse in una parola di comprendere e spiegare il magistero dell’universo; il che si chiama far sistemi di filosofia. Chi immaginò la cosa in un modo, chi in un altro. Ciascuno ispacciò le proprie fantasie come realità, e tutti ebbero de’ seguaci. Quella per altro tra le antiche scuole che pare aver dato meno lungi dal segno, è la italica, le cui opinioni concordano con le principali scoperte che nel sistema del mondo fatte furono dipoi dalla sagacità dei moderni. Capo di quella scuola fu Pitagora, il quale avidissimo di sapere andò peregrinando qua e là in cerca di esso, e le dottrine a noi recò dell’Oriente e dell’Egitto, dove sursero ne’ passati tempi i più profondi ed esperti osservatori delle cose naturali. Ma il nome di Pitagora, e di tutti gli altri dipoi, venne oscurato da Aristotele, di cui si gloriava esser discepolo il grande Alessandro; tanto che era chiamato assolutamente il Filosofo, era tenuto una seconda natura, e ogni suo detto era in luogo di ultima ragione. Nella quale altezza di fama allora veramente salì, che gli Arabi, conquistata gran parte del mondo, si volsero dalla barbarie alle gentilezze, e si diedero agli studi delle scienze. Venuti in mano a costoro i libri di Aristotele, il quale stretto nel ragionare, e quasi misterioso, lascia da intendere più ancora che non dice, si misero a farvi su dei comenti, a interpretarlo, a chiosarlo. Ne nacque da tutto ciò una assai strana filosofia, parte colpa le varie fantasie degl’interpreti, parte colpa il Maestro medesimo, che tentò di risalire alle cause prime senza avere debitamente considerati gli effetti; sillogizzò sopra le cose naturali, che avrebbe dovuto innanzi osservare; e usò ne suoi scritti un certo suo linguaggio, o gergo particolare. Il caso è che gli aristotelici stavano quasi sempre in su’ generali, senza mai venire al fatto in che che sia. Non d’altro si udivano risonare le scuole che di qualità occulte, di forme sostanziali, di entità, di modalità, e di simili altri nomi senza soggetto, co’ quali intendevano render ragione di ogni cosa che avveniva nell’universo, e di ogni effetto di natura. Tale è la scienza che tenne fra noi per più secoli, piena di frivolità e di quistioni senza fine, o sopra l’interpretazione di un testo, onde conseguire qual fosse la mente del Maestro, o sopra soggetti di niuna importanza, ne’ quali non sapevasi talvolta qual fosse la mente e l’intendimento di quei medesimi che gli disputavano. Al vedere que’ dottori contendere insieme e riscaldarsi, come assai spesso avveniva, pareva che combattessero daddovero; ma vecchi fanciulli non facevano in sostanza che alle bolle di vento.
Sorrise qui un poco la Marchesa, indi prese a dire: - Mi penso che durante tal cicaleccio filosofico, a dir così, e tal divozione verso Aristotele, di gran progressi non avrà già fatti l’umano ingegno nella filosofia. - No al certo - io risposi. - E forse per un gran pezzo sarebbe stata smarrita la buona via; se non che al principio della passata età sorse in Toscana, quasi vindice della ragione, un uomo chiamato per nome Galilei. Diede egli come una novella vita all’antica scuola italica, e atterrato l’arabesco edificio dell’aristotelismo, con la sesta alla mano pose i fondamenti del tempio del sapere, che fu poi dal Neutono levato tant’alto. Incominciò col suo esempio dal mostrare a’ filosofi ciò che si sarebbe dovuto fare in ogni tempo, a non voler parlare un linguaggio inintelligibile, voto di senso, e pieno di orgoglio; a sottomettersi a cercare quali sieno le proprie e vere qualità degli oggetti che ne stanno dattorno, facendo sopra di essi replicate esperienze, e dando loro in mille maniere la prova; a interrogar debitamente la natura, e non creder ciecamente a un uomo: e lasciata da parte la investigazione delle cause prime, che non è da noi l’arrivarci, a dover mettere ogni studio per conoscere gli effetti, ed assicurarsi come le cose sono in fatto, prima di voler spiegare il perché così elle sieno. Per tal via egli venne a dare nuova faccia al vastissimo regno della scienza fisica. Né forse male avvisò colui, a cui sovviemmi aver udito chiamare quel pellegrino ingegno Pietro il Grande nella filosofia. L’uno, diceva egli, discese dal trono per apprendere a regnare; l’altro dalla cattedra per imparare a sapere. E se le leggi dell’uno ebbero forza di render viva la virtù di una nazione, quasi da tanti secoli addormentata, il metodo dell’altro risvegliò nella famiglia filosofica la ragione oppressa dall’autorità de’ testi antichi, a’ quali i filosofi d’allora stavano attaccati, non meno che i popoli della Russia alle loro vecchie usanze. E già il metodo del Galilei, col quale si erano scoperte parecchie proprietà importantissime dei corpi, e alcune delle primarie leggi onde la natura governa la universalità delle cose, col quale riordinata già si era in qualche parte la fisica, incominciava a pigliar corso, quando in Francia uscì fuori una setta di filosofi ad attraversarlo. Volevano anch’essi la ragion dell’uomo libera dal giogo dell’autorità; e degli aristotelici dispregiatori eran solenni, il che già era di moda. Di fare tante sperienze e osservazioni, onde venire in chiaro de’ naturali effetti, non si davano gran travaglio. Si davano bensì vanto di spiegare ogni cosa con grande speditezza, e per modo che senza gran fatica potesse intendergli ognuno. Ponevano alcuni pochi e semplici principi, e singolarmente che le specie delle cose non differiscono sostanzialmente tra loro, ma soltanto per la varia disposizione e modificazione delle parti della materia, che è in tutte la stessa; simile, diciam così, a quel legno, che diviene uno scagno o un dio, secondo la forma che gli dà l’artefice. Quindi per via solamente di certi movimenti e di certe figure, che sapevano immaginare, giusta il bisogno, ne’ corpi e nelle parti di quelli, terminavano ogni quistione. Né era cosa in natura, che in certo modo non operassero a mano, quasi testimoni di veduta della creazione del mondo. E perché la pronta fantasia di costoro andava di primo lancio alle cause più occulte delle cose, intanto che il Galilei dopo molte considerazioni e molto studio, dopo molte prove e riprove si contentava solamente di stabilire una qualche legge della natura, divennero ben presto signori delle scuole, e sortirono al pari di Aristotele di caldi e zelanti sostenitori. - Almeno - disse la Marchesa è forza confessare che il meritarono assai meglio. Che certo, per quanto dite, è da credere grandissimo fosse l’ingegno di costoro, e dovea giustamente levare in ammirazione ogni gente. - Si, - rispos’io - ma non di rado avveniva che gli effetti, che si osservavano dipoi in natura, smentivano i bei ragionamenti, che acquistati si erano applauso e fede appresso i più ed egli era proprio una compassione vedere i più ammirabili sistemi del mondo risolversi in niente al cimento di una sola esperienza. E così va chi troppo s’affretta; voglio dire, chi vuol far mostra d’ingegno, prima ch’egli abbia adoperato gli occhi abbastanza. E per verità niun ascolto noi non daremmo a un meccanico, il quale presumesse indovinare la costruzione del famoso orologio di Argentina, senza aver cognizione né degli aspetti ch’egli mostra, né di quelle tante cose che e’ sa fare, oltre il batter l’ore. Non è così? - Così è - disse la Marchesa. - E che dovremmo noi pensare - io continuai a dire - di un filosofo che vorrà descriverne la interna fabbrica dell’universo, come innanzi tratto egli non abbia posto grandissimo studio per conoscere le operazioni varie, gli effetti, le molle e gl’ingegni della natura? Ciò non ostante, il Cartesio, capo di questa setta di filosofi, compose un suo sistema di ottica, si mise cioè a ragionare e dommatizzar della luce, senza prima certificarsi con accurate sperienze s’ella sia sostanza semplice o composta, senza conoscere le principali affezioni e qualità sue: e un tale suo modo di filosofare pur levò tanto applauso nel mondo. Ben è però vero che in questi ultimi tempi si è forte intiepidito quell’applauso. Chiaro si conosce più che mai che, dove per troppa lentezza in prender partito corrono assai volte pericolo gli affari di stato, il contrario appunto succede delle speculazioni della filosofia. E presentemente tutte le accademie di Europa vanno notando ciascuna particolarità, che la industria o la fortuna presenta loro tanto nell’ottica, quanto nelle altre parti della fisica; e vanno così ammannendo di che forse ordire un giorno il vero sistema dell’universo. - Quando però bisogni - soggiunse la Marchesa - ad aver un vero sistema, sapere tutte le particolarità, come voi dite, non è credibile che noi siamo per averlo così di breve. E se altre volte conveniva aspettare un secolo, perché ricorressero certe tali feste che si celebravano in Roma, converrà forse ora aspettare le migliaia di secoli, perché venga a illuminare il mondo questo vero sistema. Intanto mi par cosa pur ragionevole esser contenti a quelli che meritarono più applauso, ed ebbero più voga. E chi non avrebbe vaghezza di sentire quanto di più ardito e di grande seppe riuscire dalla fantasia dell’uomo? Comprendere il magistero della natura, penetrare le cagioni delle cose, è lo stesso che salire in cielo e sedere alla beata mensa degl’iddii. Che se i filosofi non colgono in tutto nel vero, sarà, mi penso, che pur sentono del mortale anche gli occhi loro. Starà poi a noi a discernere dove hanno dato nel segno, e dove no, e a far giusta ragione de’ loro sistemi. - Non furono mai dette - io risposi - più sensate ragioni per udir delle follie. Come è del piacer vostro. Ma vedete, Madama, il bel campo che mi aprireste per pigliarmi di voi un po’ di vendetta, che mi fate stare a questo nobil sì, ma sottil cibo della filosofia. Io potrei prendere il principio da alto, come si suol fare in somiglianti casi, e dirvi, come alcuni hanno affermato la luce esser l’atto del pellucido, in quanto egli è pellucido; altri, lei esser l’anima, onde il mondo sensibile viene ad esser collegato con l’intelligibile; i colori essere una certa fiammolina che svapora dai corpi, le cui parti hanno proporzione con l’organo del vedere. Tutto ciò potrei dirvi, non senza toccare alcuna cosa del furto mistico di Prometeo, o che so io. E pensate pure che in somiglianti concetti stavasi altre volte racchiusa la scienza dell’uomo. - Non fate voi ora meco - disse la Marchesa - come i tiranni, che il male che non han fatto, lo mettono in conto di benefizio? Ma a ogni modo gran mercé, che voi entrar non vogliate in mondi intelligibili, in furti mistici, e in così fatte altre cose; che io per me non ne verrei a capo in un anno a intenderne parola. - Qual maraviglia, - rispos’io - quando che forse quegli che ne furono gli autori, non le hanno intese eglino stessi. Ben voi, Madama, intenderete con facilità grandissima il sistema del Cartesio, che vi mostrate tanto desiderosa di averne contezza.
Ora figuratevi tutta quanta la materia, di che fatto è il mondo, non altro essere stata da principio che una massa uniforme, e la medesima in tutto e per tutto. Tale immensa materia, quanta ella è, figuratevela divisa in particelle della figura di un dado, picciolissime, ed eguali tra loro. Di queste particelle figuratevi che una grandissima moltitudine qua giri intorno ad un punto, là un’altra moltitudine intorno ad un altro, e nel tempo stesso girino tutte in se medesime; e ciò in guisa di ruota, che nel correre ch’ella fa vassi tuttavia volgendo sopra di sé. In tal modo, Madama, immaginerete pieno di vortici ogni cosa: che vortice si chiama uno ammassamento di materia, qual ch’ella sia, che vada intorno a un punto, o centro comune; come si vede far l’acqua ne’ gorghi di un fiume, o la polvere raggirata dal vento. E tutto questo, Madama, è ben facile ad esser compreso. - Facilissimo - ella rispose. - Or bene - io soggiunsi - e voi vedrete per via di così semplici e pochi ordigni formarsi il sole, le stelle, la luce, i colori. E che cosa non vedrete mai? Il sistema de’ vortici è quasi un palazzo magico, dove uno ha solamente la briga di chiedere ciò ch’e’ vuole, che sel vede comparire innanzi di presente. - Si avrà dunque da credere - ripigliò la Marchesa - che da sì picciola cosa conceduta al Cartesio abbiano da seguitare tante maraviglie? - Madama, - io risposi - voi non sapete, che ogni tantino che si conceda a’ filosofi, e procedono a modo degli amanti; e passo passo là recano le persone, dove elle non avrebbon pensato giammai? - Io m’intendo, - rispose la Marchesa - così poco d’amore come di filosofia. Ma non saprei vedere a che cosa possa riuscire il lavoro, o il giuoco di que’ dadicciuoli. - Ora lo vedrete - io risposi. - Adunque que’ dadicciuoli della materia del Cartesio, ch’erano contigui tra loro, e come stivati insieme, non potean fare che, nel girare intorno a se stessi, non urtassero continuamente gli uni contro degli altri. Così ciascuno venne a smussare i propri angoli, o sia punte, onde s’impedivano tra loro il poter girare liberamente; e così, non altrimenti che veggiamo accadere delle pietre che un torrente rotola in basso, si ridussero in altrettante politissime pallottoline, o vogliam dire globetti. Delle rastiature poi, levate via di ciascun dado, si venne a formare una nuova materia finissima, agitatissima; la qual materia vale tant’oro al Cartesio. Egli vuole, contro alla opinione di altri filosofi, che nell’universo sia tutto pieno, senza che vi resti il più minimo spazietto voto di corpi. Ed ecco, per primo, che questa tale materia finissima gli viene a riempiere tutti que’ piccioli vani, che altrimenti tra l’un globetto e l’altro sarebbon rimasi. Che ben vedete, Madama, come quei globetti, ancorché si toccasser tutti, già non poteano per la propria loro rotondità combagiarsi insieme. Ma un vano vie maggiore sarebbe senz’essa rimaso nel bel centro di ciascun vortice. Tutti i corpi che muovono in giro, fanno ogni sforzo di allontanarsi dal centro intorno a cui girano; e ciò vedesi manifestamente nel sasso girato nella frombola, che è presto a scappar via per linea diritta, tosto che si rilasci dalla mano l’un capo della funicella che il ritiene. I globetti adunque, che muovono in giro e formano il vortice, rimpiccioliti e logori dal continuo stropicciare tra loro, pigliavano il largo, discostandosi dal centro. E già sarebbe rimaso un gran vano nel mezzo del vortice medesimo, quando vi accorse opportunamente a riempierlo quella materia inimica del voto. Ed ivi tenendo il centro, quasi nocciolo, e girando anch’essa, non si può dire, qual vigore e qual vita venga a comunicare al restante del vortice. - Cotesta materia, non ha dubbio, - ripigliò la Marchesa - adempie bene alle parti sue; e quasi pare che non abbia fatto nulla, se alcuna cosa riman da fare.
- Ma sapete voi, Madama, - io risposi - quale altre cosa faccia quella rastiatura, quella minutissima polvere, ch’è detta la materia del primo elemento, o sottile? Ella fa la sostanza, la persona medesima delle stelle e del sole. Il sole non è altra cosa che un immenso pallone di materia sottile, che, girando rapidamente intorno di sé, fa suo sforzo di espandersi per tutti i lati, e così viene a premere per ogni intorno. E questa gagliardissima pressione della materia sottile, comunicata alla massa globulosa, o materia del secondo elemento, che è tutto intorno al sole, è dessa la luce.
- Ed è pur vero - ripigliò immantinente la Marchesa - che noi siam giunti in un attimo a far la luce. Ed io risposi: - Così è. Dite ora, Madama, ch’egli era un concedere un niente al Cartesio, a fargli buoni que’ suoi dadicciuoli. Ma di grazia levate l’occhio a quella infinità di vortici seminati e sparsi per ogni lato del cielo, dove in tutta la sua maestà a noi si mostra, e risplende la grand’opera del Cartesio. Ciascuno di essi è un gran pallone di materia sottile, che vorrebbe espandersi per ogni verso ed uscire de’ suoi termini; ma egli ne vien contenuto dagli altri vortici che gli sono d’intorno, e che vorrebbon pur fare il medesimo. E come le pietre nelle volte, contrastando l’una con l’altra, si sostengono insieme, così tutti quei vortici, per la loro scambievole e contraria pressione, vengono a equilibrarsi tra loro. Che se il lume che a noi vien dalle stelle non è tutto della medesima vivacità; ciò nasce non dalla più o meno forza del loro vortice, ma dalla varia distanza principalmente in che elle si trovano da noi. Di qui è che il sole, nel cui vortice pur siamo, e la cui lontananza da noi è di soli cento milioni di miglia, al suo apparir
... turba, e scolora
le tante stelle ond’è l’Olimpo adorno.
Tra le stelle poi quella, che col brio della sua luce supera ogni altra, ed e credibile che sia a noi più vicina, è chiamata Sirio. - Forse - disse la Marchesa - che volete dire quella lucidissima stella, che qui in contado è chiamata la bella stella, e che veggiamo ogni sera uscir fuori la prima di tutte, appena tramontato il sole. - Ed io: - Madama, prendete guardia di non confondere due cose di ben differente natura, come un corpo che luce per sé, ed uno che per lucere ha bisogno di altrui; un sole e un pianeta. Vero è che la bella stella (che Venere dagli astronomi è detta), Marte, Giove con gli altri pianeti furono un tempo altrettanti soli, così nello stato primitivo, o secol d’oro dell’universo; ma egli è anche vero che ora sono decaduti da quel grado. Oltre alla materia sottile, che si formò dalla globulosa, se ne formò un’altra ancora, che il Cartesio chiama del terzo elemento, ed è cagione delle più strane vicende che sieno descritte negli annali di quel suo mondo. E sapete che cosa è questa materia? la scoria o la feccia della sottile: e per essere le sue particelle di figura uncinata, ramosa, irregolare, avviene che l’una scontrandosi con l’altra si appiglino insieme, e vengano talvolta a ricrescere in assai vaste moli. Queste dipoi, in virtù del moto, e della forza della materia sottile, sono rigettate dalle parti interne della stella, o del sole, dentro a cui si formano, insino alla superficie di quello. E là in quel lato, dove in molta copia si trovano adunate insieme, tenendo in collo la pressione della materia sottile sopra la globulosa, la luce, che pur in essa pressione consiste, viene intercetta. Nè ad altra causa voglionsi attribuire, secondo il Cartesio, quelle macchie che di tempo in tempo appaiono sulla faccia del sole, grandi talvolta come la nostra terra, e anche più, e che i nei del sole piacque a un celebre filosofo di chiamarle, mostrandole col cannocchiale a una principessa del norte. - Dei nei grandi come la terra - disse la Marchesa - dovrebbono, anzi che abbellire, sfigurare qualunque faccia si sia. - Certo, - io risposi - come ecclissano il sole in parte, così potriano ecclissarlo in tutto. E da gran tempo l’avrebbon fatto, se prevalso non avesse sinora la materia sottile, la quale col rapidissimo suo bullicame discioglie e dissipa cotesti suoi nei, di mano in mano che si vanno formando. Ma è forza dire che la virtù di tal materia in tutti i soli non è stata tanta da superare la opposizione e la resistenza degli ammassamenti di quella del terzo elemento. Ciò avvenne in tutti quei soli che del grado loro decadettero, e singolarmente nella nostra terra. Vedete metamorfosi più strana di quante ne racconti Ovidio. Incrostatasi a poco a poco tutta dintorno, venne a languire il suo vortice separato dal nocciolo e dall’anima, che gli dava vita; fu rotto l’equilibrio tra esso e il vortice del sole, che gli era vicino; e così la terra, uno altre volte anch’essa degli occhi del cielo e immobile nella sua sede, divenuta scura ed opaca, fu rapita via, e come ingoiata dal prepotente vortice del sole, fu costretta a dar le volte intorno da lui, come una secca foglia dentro a un gorgo d’acqua. - La terra adunque - disse la Marchesa - è condotta a dover girare intorno al sole! Ben so che i filosofi non fanno troppo il gran conto di questa nostra terra, e per loro il farla girare è un niente. Ma certo un mal giuoco pare a me le abbia pur fatto quella materia del terzo elemento, o vogliam dire que’ suoi nei, che troppo l’hanno fatta decadere da quel glorioso stato in cui altre volte trovavasi. - Forse, - rispos’io - ch’ella non è poi tanto da compiagnere. Ha perduto la luce e la sua quiete, è vero; ma di una cosa uniforme ch’era in prima e da per tutto la medesima, è venuta anche a rivestirsi di quella tanta varietà che ora vi ammiriamo per ogni lato; e poté di tanti avvenimenti divenir teatro, su cui dovevate, Madama, essere un personaggio voi medesima. Del resto - io continuai a dire - nello stesso modo che la terra, furono dal sole conquistate le comete che appariscono nel vortice suo, e gli altri pianeti che gli fanno corona.
- Con queste tante conquiste - disse la Marchesa - che ha fatto il sole, ben fu da lui trasgredita e rotta in cielo ogni legge di equilibrio, per cui tanto si combatte qui in terra. Ed io mi penso che nella storia celeste egli debba tenere quel luogo che tengono nelle nostre istorie gli Alessandri ed i Cesari. - Per quanto si creda, - io risposi - e vi sia ragione di credere, che altre stelle abbiano anch’esse un corteggio di pianeti, certo si è che non veggono sino ad ora i filosofi un più gran conquistatore del sole. Ma vedete or voi, Madama, la differenza che ci ha da un corpo luminoso a un opaco, da un sole a un pianeta, da Sirio a Venere. E vedete insieme a che fu principalmente ordinata la gran macchina del Cartesio. Il sole, che è corpo di assai maggiore che tutti i pianeti presi insieme, standosi nel centro del suo vortice, volgesi intorno a sé in venticinque giorni e mezzo. E lo sterminato oceano, dirò così, di materia che lo circonda, o sia il gran vortice di cui anima e centro, girando pel medesimo verso che fa egli, mena d’intorno a sé i pianeti, a quel modo che una corrente fa le navi che in essa s’abbattono. Di tutti il più picciolo, e che gira anche più vicino al sole, è Mercurio. Compie suo giro in poche settimane, perché la materia del vortice, ricevendo principalmente l’impulso dal sole, muove assai più rapida ed ardente vicino a lui, che non fa nelle parti lontane. Appresso Mercurio e più tarda gira Venere, quel bel pianeta il cui dolce lume fa ridere il cielo, e ne conforta, dicono i poeti, ad amare. Viene la terra per terza, la quale raggirasi intorno al sole nello spazio di un anno. Più sopra è Marte; appresso a Marte seguita Giove, che è il più vasto tra’ pianeti; e finalmente si trova Saturno, che muove più lento di tutti, ed è di tutti il più lontano dal sole. I pianeti minori, come la nostra luna, i quattro che girano intorno a Giove, e i cinque di Saturno, furono anch’essi ab antico altrettanti soli, e sono ora un segno della passata grandezza de’ pianeti maggiori, a’ quali ancora appartengono. Avendo questi nella loro decadenza conservato gran parte del loro vortice, come narra il Cartesio, conservano ancora le prede e le conquiste, che fatte aveano ne’ tempi migliori. Che se di tali cose, e particolar-mente del girare che fa la terra, vorrete più minuta contezza, leggeremo i Mondi del Fontanelle, dove conoscerete la più amabile marchesa di Francia, a cui però non avrete altro da invidiare fuorché il filosofo. - Piacemi oltremodo - disse la Marchesa - quanto io ho udito da voi di un sistema, che con tanta facilità e felicità rende le ragioni delle cose. Per far girare i pianeti, il sole non ha che a girare egli medesimo; e per illuminare tutto il mondo, che è pure un gran che, non ha da far altro che premere la materia globulosa che il circonda. In ciò fare non ci rimette niente del suo; e il tesoro, per così dir, della luce non è mai per venir meno. - Non si può negare - io soggiunsi - che, stando alla opinione di coloro i quali vogliono che la luce sia una effusione della sostanza medesima del sole, quasi un’ardente pioggia ch’egli mandi fuori del continuo, taluno potrebbe vivere, e non a torto; in grande apprensione. Per quanto finissime sieno le particelle della luce, più fine ancora delle particelle odorose che esalano da’ corpi, i quali nulla però perdono, anche in lunghissimo, del loro peso, ci sarebbe da temere, non quel tesoro venisse finalmente al basso, e di avere un giorno sul bel mezzodì da restare al buio. E forse, per li tanti dispendi, che fa di continuo il sole, dicono i filosofi del Malabare che di sette occhi ch’egli avea, sei ne sono già chiusi, e non glie ne rimane ora che un solo di aperto. Ma ecco che per questo conto noi possiamo essere più animosi. Tale, come voi avvertite, Madama, è la condizione del sole, ch’egli può ogni momento fornir di luce tutto quanto il mondo, e non perder egli mai niente del suo. E se proprio è della luce, ch’ella trascorra in un istante uno sterminato cammino, e che il suo corso, come dice un poeta inglese, è finito allorché incomincia, vedete come la luce cartesiana lo faccia con un niente: che per lei appunto un niente sono i milioni e milioni di leghe. E questo avviene perché, secondo il Cartesio, ogni cosa è pieno, senza che vi sia il più minimo spazietto di voto. Immaginate una picca quanto si voglia lunghissima, la quale, mossa che sia dall’uno de’ capi, muove nel tempo istesso anche dall’altro. Né più né meno è da pensare che avvenga della pressione che ricevono ad un tratto le file de’ globetti, che, senza lasciare intervallo alcuno tra essi, si stendono dal sole insino a noi. E così appena preme il sole, e allumato è ogni cosa.
- Quale spiegazione più semplice e più chiara - disse la Marchesa - degli effetti della luce potremmo noi cercare di questa? E già mi penso che il simile debba essere de’ colori, che, per quel ch’io credo, sono anch’essi un effetto della luce. - Per certo, Madama, - io risposi - avreste il torto di non stare anche per questo a fidanza del Cartesio. Egli vi dirà, che siccome la pressione o il moto de’ suoi globetti eccita in noi il sentimento della luce, così la diversità de’ loro moti fa che noi apprendiamo colori diversi. E questa diversità di moti è cagionata dalla diversità delle superficie dei corpi, che ricevono la luce che vi batte su, e la rimandano all’occhio nostro. Hanno esse potere di alterarla, o variamente modificarla: e quindi ne appariscono variamente colorate; non altro essendo i colori, che la luce variamente modificata. Quei corpi adunque, le superficie dei quali sono disposte in maniera da accrescer notabilmente ne’ globetti di luce, che vi dan su, il proprio loro moto di rotazione, ci si mostran rossi; e gialli quelli che lo accrescono un po’ meno. Se le superficie poi sono tali da sminuire quel moto, in luogo d’accrescerlo, quelle che lo sminuiscono assai riescono azzurre: e verdi quelle che poco. E finalmente se tali sono le superficie, che rimandino i globetti in gran copia e colla medesima quantità di moto con che gli ricevono, senza rinforzarlo in alcuna parte o debilitarlo, allora ne risulta il bianco: e il nero per lo contrario, quando le superficie sono talmente disposte da ammorzare essi globetti, e in certo modo assorbergli per entro a se stesse. Eccovi, Madama, come in un batter d’occhio abbiam fatto i colori. Cercate voi d’avvantaggio ? Ricordatevi, che noi siamo nel palazzo magico del Cartesio, dove basta chiedere per ottenere. - No, no, - ella rispose - fermiamci per ora su’ colori: e dichiaratemi onde nasce che questo corpo accresca ne’ globetti di luce il moto di rotazione; lo diminuisca quell’altro. - Ciò nasce - io risposi - dalla varia qualità e disposizione, che trovasi nelle particelle componenti le superficie de’ corpi medesimi, dalla loro inclinazione, positura, figura e simili altre cose: le quali essendo diverse, debbono altresì diversamente modificar la luce che in essi corpi si avviene. E così il filosofo vi dà di che dipingere
L’erbetta verde, e i fior di color mille,
di che variare a vostro piacimento la faccia dell’universo.
- Veramente, - ripigliò la Marchesa - con questi vortici si viene a fare ogni cosa. Dica chi vuole, non si potria mai abbastanza ammirare il sistema del Cartesio. Non ci è quistione che egli non sia prontissimo a scioglierla; e ciò non fa con lunghi raggiri, ma con una semplicità che è un incanto. Il sole, le stelle, col moto de’ pianeti, la luce e i colori noi abbiamo voluto fare, e furon fatti. Ma dite, vi è occorso egli mai di ragionare con altra donna di filosofia? - No al certo, Madama, - io risposi - nè ci voleva niente meno di voi a farmi soccombere. Ma che mi fate voi una tale dimanda? -Ed ella: - Per sapere come essa si fosse comportata; come avesse fatto con questo Cartesio. - So ben io, - ripigliai tosto - quel che vi fate voi. Che occorre, Madama, il nasconderlo? Voi vi siete un po’ troppo lasciata andare all’immaginazione
dolci cose ad udire, e dolci inganni.
Egli sembra siavi caduto di mente quella fretta madre di tanti sistemi, che non reggono poi alla flemma degli osservatori. - Che debbo io dirvi? - ella rispose. - Se io me ne sono scordata così, forse la colpa è del palazzo magico, dove voi mi avete introdotta. Ben sapete che questi tali luoghi han virtù di far dimenticare alle persone le cose migliori. - Alla quale io risposi - Madama, almeno non vi dimenticate che i palazzi magici si risolvono in fumo al sopraggiunger di Logistilla con quel suo libretto. - Chi avrebbe mai potuto credere, - riprese a dir la Marchesa - che da una supposizione tanto semplice, come fu quella di non so che dadicciuoli portati in giro, avessero a riuscire le tante maraviglie che in sì picciol tempo mostrate mi avete? In assai maggior pregio senza dubbio si hanno a tenere coloro, che con pochissimi ordigni fanno far quello per cui altri ne mettono in opera moltissimi. E la varietà de’ colori tanto più ora mi diletta, quanto io duro meno di fatica nel vernirmegli formando dentro alla fantasia. Se non che male saprei immaginare come va la faccenda in quei colori, che solamente appaiono sopra le cose, se un traguarda per un certo vetro; siccome mi sono abbattuta a vedere in non so che villa, non è gran tempo. Io non mi metterò a farvene una descrizione, che male ne riuscirei: e d’altra parte a voi non può esser nascosto di che vetri io m’intenda di parlare. Di tanto mi ricorda: ch’egli era posto a rincontro d’una finestra, e sospeso dalla volta della stanza; e ch’era proprio un piacere a veder per esso la campagna e il cielo, come un tappeto o un panno di mille colori. - Anche di questo - io risposi - voi avete in pronto la spiegazione. Quel vetro a tre facce, che voi dite, fatto come quegli stipetti che sogliono porsi negli angoli nelle stanze, si chiama prisma. Guardando a traverso di esso le cose, noi le veggiamo pezzate di vari colori; e ciò in virtù di nuove e varie modificazioni, che valicando per esso ricevono i globetti di luce, che sono ribalzati da’ corpi. Fategli acquistare o perdere del moto di rotazione, secondo che qua vedete un colore, e là un altro; è fatto ogni cosa. Ma quanto a quella distinzione accennata da voi, Madama, tra i colori veri, e gli apparenti, non troverete alcun filosofo che possa usarvi l’agevolezza di farvela buona: io dico, né anche il vostro Cartesio. Il quale vi dice risolutamente che il porporino d’una bella guancia e quello del prisma o dell’iride, non sono altro che rotazioni di globetti; sono tutti colori apparenti, non reali; tutti di un modo, quanto all’essere, se non quanto agli effetti che producono. In somma ogni qualità di colori non sono altro che semplici fenomeni, che appaiono con la luce; e tolta via quella, non son più. - Volete dire - replicò la Marchesa - che non sono più veduti. Come si potria pensare che i colori di quel quadro non sono più, un’ora o due appresso il cader del sole? La tela rimane pur tuttavia, benché non veduta. - La tela non ha dubbio, - rispos’io subito - rimane dopo il cader del sole; e sopra essa similmente certe disposizioni rimangono nella figura e tessitura delle minutissime parti di quei vari generi di materia, che adoperar sogliono i pittori. Ove sopravenendo appresso la luce secondo la qualità ch’ella prende da esse disposizioni, i suoi raggi ribalzano indietro sotto varie tinte e colori diversi. Per le tenebre poi ogni cosa da capo svanisce, e non è più; come un effetto di quelle disposizioni, e insieme della luce. La Marchesa recatasi in sé alquanto, riprese a dire in tal modo: - Per verità io ho creduto sempre il color esser nelle cose; e nel prisma o nell’iride esser solo una illusione. - Ed io: - Cotesto toglier via quella distinzione, che comunemente si fa tra i colori veri e gli apparenti, egli è pure un ridur le cose a quella semplicità, che tanto vi va a genio, Madama. Se non che, forse l’amore di voi stessa contende a questa volta col vostro amore per questa medesima semplicità. Troppo vi duole di non dover più tenere e riconoscer per vostro quello su che in grandissima parte si fonda l’imperio delle belle donne. Né io vi posso dar torto che vi mostriate per questo conto un po’ difficile col Cartesio. Ma finalmente a chi è tanto o quanto tenero del suo onor filosofico non è lecito di ammettere i principi di un sistema, e non voler poi ammetter le conseguenze che necessariamente da quelli derivano. I corpi non sono altra cosa che materia del terzo elemento; i quali differiscono solamente tra loro per una certa tessitura e configurazione di particelle: e ne’ globetti della luce non è altra cosa, che quel moto di rotazione che le particelle de’ corpi vi modificano nell’atto di ribalzargli da sé. Questi dipoi muovono l’organo del vedere; e così nasce in noi il concetto del colore. E in fine di questo colore il nostro animo ne riveste le cose di fuori, là riferendolo donde gli vennero i globetti di luce. Ma in effetto le cose ne son nude. Anzi non solo del colore; che anche il sapore, l’odore, il suono, il freddo, il calore e la luce medesima non sono altrimenti ne’ corpi.
La Marchesa allora disse: - Poco manca voi non diciate non aver realità alcuna quanto un vede et ode: che io non debbo credere esser qui questo marmo, che io pur tocco con mano; esser voi... - Tal cosa - io risposi subito - non vi dirò già io. Benché non manchi di quelli che sostengono i corpi tutti non esser altro che ombre, e sogni perpetui di gente che è desta; io per me credo che sogni sieno i loro: né mi potrò mai indurre a credere che io sogno, quando io vi veggo. Crederò bensì che le cose sieno molto differenti da quello che paiono. E lo stesso, Madama, dovrete fare pur voi. Quelle qualità soltanto hanno da risiedere ne’ corpi senza più, le quali dipendono dalla materia di che sono composti; le altre vi saranno apparenti. Così che, fuor che nella mente nostra, non si trovano in nessun luogo. E le proprietà della materia il Cartesio le ristringe alla estensione, per cui i corpi sono lunghi, larghi e profondi; alla impenetrabilità, per cui un corpo non può trovarsi nel luogo di un altro; al muoversi; all’aver questa, o quella figura; all’aver le parti così o così modificate e disposte. Ora chi vorrà mai il colore, la luce e simili, essere un certo moto, una certa figura, o tessitura di parti? Adunque sono nella nostra mente. - Ma - qui soggiunge la Marchesa - voi mi diceste pure un certo moto di rotazione ne’ globetti della luce esser cagione del colore, che è nei corpi. - Piuttosto occasione - io ripresi - che se ne desti il sentimento in noi: come appunto quella proprietà che hanno i corpi di premere i globetti del secondo elemento è occasione che si risveglia in noi il sentimento della luce; e quella, ond’essi fanno brandire e ondeggiar l’aria sino al timpano dell’orecchio, il sentimento del suono. Similmente una certa figura di particelle, o pure certi piccioli animaletti che sono ne’ corpi, stuzzicando in una maniera o in un’altra i nervetti della lingua, sono occasione che in noi si desti l’idea di quello o di quell’altro sapore. E l’istesso avviene dell’odore e delle altre qualità somiglianti. E così da noi chiamasi impropriamente qualità della materia quello che in realtà è soltanto percezione della nostra mente. - Io già intendo: - disse la Marchesa - noi siamo i conquistatori del mondo, che ci è dattorno; e divenghiam ricchi alle spese altrui. Il filosofo non lascia a’ corpi che a malapena lo scheletro, dirò così, della estensione; e il resto, di che e’ paiono rivestiti, lo dà all’anima nostra. - E con ragione - io soggiunsi. - Quando uno si trova al buio, faccia di premere col dito l’un canto o l’altro dell’occhio, girandolo a uno stesso tempo parte opposta; e vedrà tosto un cerchietto di colori, simile in certo modo a quelli che veggiamo nella coda del pavone. Onde questo? mentre certamente al di fuori non ha nè colore, né luce. Non da altro, salvo che dalla pressione del dito, il quale opera così grossamente nell’occhio quello che i raggi di luce vi san fare con tanto maggiore isquisitezza. - Veramente veggo anch’io - disse la Marchesa - che non può stare altrimenti la cosa da quel che voi dite. Ma come è mai che in virtù di un certo moto di rotazione io apprenda il rosso o l’azzurro? Qual corrispondenza ci può egli essere tra i corpi in qualunque modo sieno disposti, e un concetto di colore, una idea, che l’anima forma dentro a se stessa? che pur parmi che i sentimenti dell’anima sieno una faccenda diversa in tutto da qualunque movimento si sia. - Comprendete voi meglio, Madama, - io risposi - qual corrispondenza ci sia tra il dolore, che è pur dell’anima nostra, e la puntura di un ago, che altro non fa che lacerare alcuna fibra della persona; tra un certo moto di un ventaglio maneggiato da dotta mano, e il sentimento ch’e’ fa nascere in altrui della speranza? - Ed ella accennando di no: - Pur nondimeno - io soggiunsi - tali cose, benché di differentissima natura, vanno di compagnia: e l’una è cagione, o per lo meno occasione dell’altra. - Si dovrà dunque dire - ripigliò la Marchesa - che tra i movimenti della materia e le idee dell’anima ci sia quella corrispondenza che era negli Elisi tra Enea e l’ombra del padre Anchise. Conferiscono insieme, ragionano, rispondono l’uno all’altro. Ma quante volte Enea tentò di abbracciare Anchise, altrettante se ne tornò con le man vuote al petto. - Questi pur sono - io ripigliai a dire - i misteri della filosofia, alla quale, Madama, voi domandate assai più ch’ella non può veramente rispondere. Chi potria dirvi come lo spirito sia legato in questi nocchi della materia, come gli oggetti corporei cagionino certe idee nell’anima; ella all’incontro certi moti nel corpo, come senza estensione ella sia in ogni parte di noi, invisibil vegga, e intangibil tocchi? Sebbene non è punto da credere che si rimanessero muti i filosofi, se noi gli domandassimo del come tutto ciò succeda. Ci metterebbono in campo gli spiriti animali, che scorrono per la cavità dei filamenti sottilissimi dei nostri nervi, e portano le sensazioni degli oggetti corporei al cervello, ed esso poi le imprime nell’anima; le cause occasionali; l’armonia prestabilita: ci farebbono dei laghi di filosofia, che noi poco intenderemmo, e che nulla conchiudono. E già cotesti grandi ragionatori furono paragonati co’ ballerini, i quali, dopo gli più studiati passi del mondo e le più belle cavriole, si trovano alla fine del ballo nello stesso sito per appunto che il cominciarono. Ma comunque sia del come e del perché, egli è indubitabile - io seguitai a dire - esservi più specie di cose, le quali in noi ne producono di certe altre di ben diversa natura. Onde non maraviglia che certi movimenti ne’ globetti di luce, eccitandone degli altri nella retina, che è una pellicella nel fondo dell’occhio, e questi comunicandosi, in qualunque modo ciò avvenga, al cervello, non maraviglia, dico, che questi tali movimenti possano creare in noi certe idee di colore. E già dell’istesso occhio, e della maniera con che si formano dentro di esso le immagini delle cose, sarebbe ora forse da parlare: se non che ecco, Madama, che io veggo comparire lo scalco, il quale viene ad avvertirvi esser già messe le tavole: ed egli è oggimai tempo di vedere che qualità di sapore noi riferiremo coll’animo alla zuppa. - Non so - disse la Marchesa - se colui che tutta mattina ci ha studiato su, e crede di averglielo realmente dato, si accorderebbe così di leggieri con voi altri filosofi, che ridur vorreste ogni cosa all’apparenza. Ch’ei non risappia giammai - io risposi - de’ nostri ragionamenti. Egli non è persona da disgustare per così poco, come è una opinione di filosofia. - E il dir questo e il levarmi su fu una cosa, stimando che così ancora far dovesse la Marchesa. Ella al contrario volea pure che io le dicessi più avanti, e non così tosto si tralasciasse l’incominciato nostro ragionamento. Sopra di che io la pregai a volersi ridurre a memoria e ponderare il detto di quel poeta francese, nominato il poeta della ragione: come vivande riscaldate buon sapore non resero giammai. Della qual verità pur convenne dopo qualche contrasto la Marchesa; e finalmente a’ piaceri della tavola ebbe a cedere il campo la filosofia.